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SOCIETA’)                VIOLENZA & CORAGGIO

La disperazione A Vico del Gargano una ragazza di 17 anni viene stuprata e accoltellata: tre giovani di vent’anni sono stati fermati. A Bari un padre costringe la giovane figlia a prostituirsi. Da Catania è partita un’indagine allargata antipedofilia, con diramazioni all’estero. Poco meno di un mese fa in Sicilia una madre costringeva una figlia a prostituirsi. Il bollettino di guerra della violenza dei giovani e sui giovani è tremendo, continuo e, di fronte ad esso, si rimane sgomenti.
Ma com’è possibile arginare queste ondate di violenza che lasciano le vittime alla mercè dei sopraffattori e la gente impietrita? Eccesso di garantismo? Impotenza dei pubblici poteri? Abbassamento della soglia dei valori?  Certo questi tre fattori giuocano un ruolo di primo piano, ma va messo in debito conto che le trasformazioni profonde della società contemporanea hanno aumentato il disagio sociale, soprattutto quello giovanile, che famiglia e scuola non sono riuscite ad imbrigliare. E’ chiaro che la prima educazione viene condotta in famiglia, a patto che le leggi consentano alle donne, o a uno dei genitori, di avere il tempo necessario per curare la crescita del bambino in tutte le fasi dei primi anni di vita. Ma sotto questo profilo non siamo attrezzati adeguatamente. Eppure è necessario effettuare una alfabetezzazione emozionale, fin dalla più tenera età. Diceva Erasmo da Rotterdam che "la prima speranza di una nazione è riposta nella corretta educazione della sua gioventù". Ed allora bisogna partire da zero, insegnando in famiglia e a scuola le emozioni, farsi carico dei bambini e dei ragazzi, nelle varie fasi dell’età evolutiva, affidando una missione più vasta e mirata alle scuole. Forse dovremo addirittura ripensare, se non il nostro modo di vivere, che sarebbe oltremodo complicato, almeno la scuola, quale palestra d’esempio. Questo però richiede mutamenti radicali di rotta, con gli insegnanti chiamati ad oltrepassare i limiti della propria missione tradizionale e con la comunità e le istituzioni che devono spendersi meglio e con mezzi più adeguati. Vanno poi dati supporti psicologici alle famiglie, alle scuole, alle istituzioni, affinchè possano essere individuati le reali radici del disagio sociale e giovanile. Giorni difficili ci attendono, perchè riuscire ad aggredire il fenomeno della violenza, soprattutto giovanile, comporta molto coraggio da parte dei pubblici poteri. E allora bisogna scoprire il vero significato della parola coraggio, che deve poter costituire una risorsa per tutta la nazione ad operare con i fatti, ma non a parole. Cos’è il coraggio? E cos’è la vigliaccheria? Al significato di queste parole, di cui mi sono sempre chiesto il vero significato, risposi con una mia personale interpretazione, nel racconto pubblicato due anni orsono e che ritengo di offrire a quanti avranno voglia di leggerlo.

IL CORAGGIO

Eravamo fanciulli acerbi ed ostinati, e per noi il coraggio consisteva unicamente nelle sfide accanite, nei selvaggi corpo a corpo, senza motivo plausibile, per il solo gusto dei nostri capi che avevano decretato che Tizio e Caio dovessero azzuffarsi. Chi si rifiutava era stimato un codardo; al contrario, chi scendeva in lizza e soccombeva, godeva dell’onore delle armi ed  era considerato alla stessa stregua del vincitore.

Sostenni la mia prima sfida ad appena otto anni: il mio capobanda, un ragazzo grande e grosso, che aveva già compiuto undici primavere, ragazzo possente dalle braccia potenti come leve, mi squadrò con occhi malevoli, indicandomi con gesto perentorio il mio antagonista, mentre in tralice sogguardava provocatoriamente mio fratello che rodeva il freno.

Mi prese un tremito, non di paura, ma di rabbia, a dovermi cimentare controvoglia, in un duello dall’esito scontato, contro uno che quasi non conoscevo e nei cui confronti non potevo nutrire poi alcun sentimento di antipatia. Mio fratello, che era l’aspirante capo, mi guardava preoccupato: dovevo combattere! sebbene il ragazzo che mi stesse di fronte, pronto ad ingaggiare con me il combattimento, non solo per l’età – aveva undici anni – ma anche per le doti fisiche, possedesse i requisiti per rilevare il comando della sua banda.

Benché dunque la lotta si presentasse impari,  si era creata subito un’atmosfera del tutto particolare a mio favore: i più giovani delle due bande erano chiaramente dalla mia parte, a tifare per il più debole; mentre i più grandicelli, chi più chi meno, sembravano neutrali, in quanto vedevano il mio sfidante come il fumo negli occhi, a causa delle sue ambizioni di capo. Ci trovavamo nell’atrio di un cinema, in attesa di entrare per assistere allo spettacolo gratuito organizzato dalla scuola: sull’impiantito s’era formata una fanghiglia appena palpabile, perché fuori pioveva a dirotto, e certamente il mio vestito nuovo si sarebbe insudiciato, nel momento in cui fossi andato per terra, com’era probabile.

Perciò dovevo giocare d’astuzia: il mio avversario, distratto dall’atteggiamento di scherno di tutti i presenti, che gli davano la baia per la vigliaccheria di avere lanciato una sfida ineguale, sicuro della sua forza, si era disinteressato di me; cosicchè trassi profitto dalla situazione, attaccandolo fulmineamente e dandogli un violento strattone, che lo mandò a gambe levate.

Terreo in volto e amaramente scontento dell’accaduto, egli si attardò a guardare esterrefatto i propri pantaloni e il giubbotto di pelle inzaccherati; mentre a suo disdoro un nugolo di ragazzi l’aveva circondato, gridando a più non posso, al suo indirizzo, una serqua di ingiurie e di contumelie.

Perciò, non fece in tempo a rimettersi in piedi, che già sonò la campanella che indicava l’inizio dello spettacolo e tutti ci precipitammo a prendere posto all’interno della sala. Sorridendo e dandomi una gomitata, mio fratello assentì e lo stesso atteggiamento tennero, a uno a uno, i componenti della banda; mentre il capo, in disparte, mostrava d’avere la coda di paglia.

Al ritorno a casa, fui redarguito severamente da mio padre: vana risultò la  difesa da parte di mio fratello, il quale, oltre i rimbrotti per non avere impedito il fatto, per soprammercato si ebbe una punizione, che, alla fine dei conti, accrebbe il suo prestigio.

Quale maresciallo dell’esercito, mio padre godeva d’indiscusso ascendente sugli abitanti del popoloso quartiere e, perciò, ne faceva un punto d’orgoglio che noi tenessimo un comportamento, non dico esemplare, ma oltremodo giudizioso, e non ci lasciassimo coinvolgere in azioni arrischiate o disdicevoli al massimo grado.

Ma eravamo ancora immaturi per fare tesoro di quelle lezioni di morale e, addirittura, con superficialità e impudenza, a lui che aveva partecipato alle due guerre mondiali ed era stato in Etiopia,  domandavamo se in combattimento avesse ammazzato qualcuno. Ci guardava con occhi tristi, quasi contrariato, e ci rispondeva senza iattanza, dicendoci laconicamente:

”Si sparava nel mucchio!”

E mai riuscivamo a carpirne altri particolari. Si vedeva lontano un miglio che odiava la guerra e la forza bruta, ma non per questo mai si lamentò delle sue condizioni di salute, che trovavano origine nell’avere sopportato, per alcuni anni, l’umidità del clima africano, durante la campagna d’Etiopia; cosa che aveva finito per minare irrimediabilmente il suo fisico.

A noi ragazzi sembrava sano ed immortale, attivo e sempre prodigo a moltiplicare le sue energie, perché era lungi da noi il sospetto che si sottoponesse a turni di servizio logoranti, oltre le sue forze, esclusivamente per arrotondare lo stipendio, mai sufficiente a soddisfare le esigenze di una famiglia numerosa.
Quindi, non fu azione blasfema rituffarci senza pensieri nelle nostre avventure di strada, dopo avere rispettato le sue raccomandazioni per un giorno o due.

Mio fratello, covando la rivincita nei confronti del capobanda, il quale a bella posta aveva designato me per una sfida pericolosa, aspettava con pazienza la circostanza favorevole per vibrare il colpo risolutivo, e l’occasione desiderata non si fece attendere a lungo.
Giusto a proposito, sotto Natale cominciarono in città i riti sacri con il ciclo delle pastorali, che si tenevano, nel nostro quartiere, davanti all’edicola della Madonna, inghirlandata da rami d’arancio; con cantori e musici nei panni di pecorai, a sciorinare, al suono di ciaramelle, una serie di nenie e di canti natalizi, durante i quali noi ragazzi saltellavamo attorno a un falò beneaugurante.

Per scherzo o per ripicca, per caso o deliberatamente, tra la generale meraviglia, il capobanda finse di spingermi verso il fuoco, che in quel momento divampava sprigionando repentine scintille.

Con scatto felino mio fratello intervenne sull’istante e, incredibile a credersi, lui così magro e minuto, trovando energie insospettate, abbrancò per il collo il capobanda e, sollevatolo da terra come un fuscello, lo spinse minacciosamente verso le fiamme, costringendolo a fare ammenda davanti a tutti.

Questa volta, non ci furono punizioni di sorta: fu riconosciuto, da tutti i testimoni, che il comportamento di mio fratello era stato ineccepibile sotto ogni profilo e ci si sorprese come egli, pur avendone avuta la possibilità, non avesse cagionato neppure un graffio all’avversario, il quale, viceversa, aveva agito in maniera spregevole.

Per quanto avesse dovuto ammettere l’evidenza, mio padre, severo e intransigente, si fece sentire al solito modo, spiegandoci che quelli che noi consideravamo atti di coraggio, non erano affatto tali; anzi, non costituivano altro che spavalderia e sfrontatezza, sentimenti idonei a fomentare nuove imprudenze, in una faida senza fine.

Acclamato capo, mio fratello si distinse per la sua equanimità, evitando gli scontri inutili con le bande rivali, con le quali aveva persino stretto patti di non belligeranza: si arguiva che non voleva amareggiare mio padre.
D’estate, non di rado, egli riuniva la banda nella fattoria di un nostro proselito: si tiravano quattro calci al pallone, si facevano giochi d’ogni sorta, si saliva sugli alberi, si discuteva lungamente sotto le stelle: la nostra esuberanza, con buona pace dei genitori, sembrava incanalarsi in altre direzioni.

Una volta di quelle, mi ricordo che fummo sorpresi, in aperta campagna, dal classico temporale estivo: un acquazzone in piena regola con grandi strepiti, che ci lasciò bloccati all’interno di un casolare abbandonato.
Non so chi di noi, proprio in quella congiuntura, ebbe il coraggio di mettersi a parlare di spiriti e di diavoli e del Fondaco Alto, da dove erano stati visti uscire strani figuri – alcuni dicevano spettri – che di notte vagavano per la campagna. Sentii mio fratello rabbrividire e battere i denti.
Spiovuto in capo a mezz’ora, lasciata la combriccola, io e mio fratello raggiungemmo presto le prime case del quartiere. Alla luce fioca e quasi spettrale dei pali elettrici, l’ingresso del Fondaco Alto ci apparve, quella sera, la porta dell’inferno dantesco, pronta a fagocitarci.

Mio fratello si mise a piagnucolare e non ne volle minimamente sapere di attraversare a passo di corsa poco meno di duecento metri, quanti ci dividevano dal portone di casa. Fu nostro padre, che io andai a chiamare, a ricondurlo a casa quasi in deliquio.

Tra le mura domestiche ci apparve sollevato; ma durante la notte fu colto da una febbre violentissima, che lo tenne per alcune settimane tra la vita e la morte.
Mio padre mi proibì imperiosamente di fare cenno con chiunque dell’episodio, chiarendomi con i modi dovuti che la paura era stata una conseguenza della malattia allo stato latente.
Domata la febbre, subentrò per mio fratello un lungo periodo di convalescenza; ma la morte improvvisa di nostro padre lo prostrò.

I medici si alternarono al suo capezzale, dubbiosi; se ne andavano scuotendo il capo, ritornavano per nuove visite, si consultavano e, alla fine, diagnosticarono un’atrofia muscolare d’incerta origine, lunga e difficile da curare.
Riavutosi dopo un po’ di tempo, egli non si lamentava più della sua malattia: piangeva e si disperava per la morte di nostro padre e nessuno riusciva a consolarlo.

Sospirando profondamente, diceva:

”Lui sì che è stato un coraggioso! Ha affrontato le sofferenze in silenzio. Ed io…? Quante amarezze gli ho dato, io?”

Di tanto in tanto, guardandomi fisso in faccia, m’interrogava sulla banda con tono inquisitorio e, massime, chiedeva chi fosse il capo, che cosa facessero i compagni; e, malgrado le mie risposte fossero sincere, non voleva credere che il suo più acerrimo rivale avesse dato da tempo il rompete le righe. Si convinse soltanto quando costui, inaspettatamente, venne a trovarlo: li vidi confabulare a bassa voce lungamente e, alla fine, si abbracciarono piangendo.

Un giorno che rimasi solo con lui, toccò un tasto delicato:

”Tu ne hai avuto di coraggio, al Fondaco Alto!” mi disse e, dopo una breve pausa, soggiunse:“Io, in fondo, sono fortunato: la mia inazione mi permette di centellinare ogni attimo della mia vita ed è come se vivessi in pochi minuti giorni interi, mentre per voi il tempo scorre veloce, spesso inutilmente”

E infine concluse:

”Ah, come sarebbe bello, se tutti si fermassero un momento a fare più caso a queste cose!”.

Consapevole ormai della sua sorte, aveva trovato la serenità d’animo: leggeva di tutto e conversava amabilmente, godendo di essere benvoluto e rispettato nella sua malattia.
Si spense in pace in un giorno di primavera, nello stesso giorno e nella stessa ora in cui era morto nostro padre
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 (racconto di Ubaldo Riccobono, tutti i diritti riservati)