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Ma com’è possibile arginare queste ondate di violenza che lasciano le vittime alla mercè dei sopraffattori e la gente impietrita? Eccesso di garantismo? Impotenza dei pubblici poteri? Abbassamento della soglia dei valori? Certo questi tre fattori giuocano un ruolo di primo piano, ma va messo in debito conto che le trasformazioni profonde della società contemporanea hanno aumentato il disagio sociale, soprattutto quello giovanile, che famiglia e scuola non sono riuscite ad imbrigliare. E’ chiaro che la prima educazione viene condotta in famiglia, a patto che le leggi consentano alle donne, o a uno dei genitori, di avere il tempo necessario per curare la crescita del bambino in tutte le fasi dei primi anni di vita. Ma sotto questo profilo non siamo attrezzati adeguatamente. Eppure è necessario effettuare una alfabetezzazione emozionale, fin dalla più tenera età. Diceva Erasmo da Rotterdam che "la prima speranza di una nazione è riposta nella corretta educazione della sua gioventù". Ed allora bisogna partire da zero, insegnando in famiglia e a scuola le emozioni, farsi carico dei bambini e dei ragazzi, nelle varie fasi dell’età evolutiva, affidando una missione più vasta e mirata alle scuole. Forse dovremo addirittura ripensare, se non il nostro modo di vivere, che sarebbe oltremodo complicato, almeno la scuola, quale palestra d’esempio. Questo però richiede mutamenti radicali di rotta, con gli insegnanti chiamati ad oltrepassare i limiti della propria missione tradizionale e con la comunità e le istituzioni che devono spendersi meglio e con mezzi più adeguati. Vanno poi dati supporti psicologici alle famiglie, alle scuole, alle istituzioni, affinchè possano essere individuati le reali radici del disagio sociale e giovanile. Giorni difficili ci attendono, perchè riuscire ad aggredire il fenomeno della violenza, soprattutto giovanile, comporta molto coraggio da parte dei pubblici poteri. E allora bisogna scoprire il vero significato della parola coraggio, che deve poter costituire una risorsa per tutta la nazione ad operare con i fatti, ma non a parole. Cos’è il coraggio? E cos’è la vigliaccheria? Al significato di queste parole, di cui mi sono sempre chiesto il vero significato, risposi con una mia personale interpretazione, nel racconto pubblicato due anni orsono e che ritengo di offrire a quanti avranno voglia di leggerlo.
IL CORAGGIO
Eravamo fanciulli acerbi ed ostinati, e per noi il coraggio consisteva unicamente nelle sfide accanite, nei selvaggi corpo a corpo, senza motivo plausibile, per il solo gusto dei nostri capi che avevano decretato che Tizio e Caio dovessero azzuffarsi. Chi si rifiutava era stimato un codardo; al contrario, chi scendeva in lizza e soccombeva, godeva dell’onore delle armi ed era considerato alla stessa stregua del vincitore.
Sostenni la mia prima sfida ad appena otto anni: il mio capobanda, un ragazzo grande e grosso, che aveva già compiuto undici primavere, ragazzo possente dalle braccia potenti come leve, mi squadrò con occhi malevoli, indicandomi con gesto perentorio il mio antagonista, mentre in tralice sogguardava provocatoriamente mio fratello che rodeva il freno.
Mi prese un tremito, non di paura, ma di rabbia, a dovermi cimentare controvoglia, in un duello dall’esito scontato, contro uno che quasi non conoscevo e nei cui confronti non potevo nutrire poi alcun sentimento di antipatia. Mio fratello, che era l’aspirante capo, mi guardava preoccupato: dovevo combattere! sebbene il ragazzo che mi stesse di fronte, pronto ad ingaggiare con me il combattimento, non solo per l’età – aveva undici anni – ma anche per le doti fisiche, possedesse i requisiti per rilevare il comando della sua banda.
Benché dunque la lotta si presentasse impari, si era creata subito un’atmosfera del tutto particolare a mio favore: i più giovani delle due bande erano chiaramente dalla mia parte, a tifare per il più debole; mentre i più grandicelli, chi più chi meno, sembravano neutrali, in quanto vedevano il mio sfidante come il fumo negli occhi, a causa delle sue ambizioni di capo. Ci trovavamo nell’atrio di un cinema, in attesa di entrare per assistere allo spettacolo gratuito organizzato dalla scuola: sull’impiantito s’era formata una fanghiglia appena palpabile, perché fuori pioveva a dirotto, e certamente il mio vestito nuovo si sarebbe insudiciato, nel momento in cui fossi andato per terra, com’era probabile.
Perciò dovevo giocare d’astuzia: il mio avversario, distratto dall’atteggiamento di scherno di tutti i presenti, che gli davano la baia per la vigliaccheria di avere lanciato una sfida ineguale, sicuro della sua forza, si era disinteressato di me; cosicchè trassi profitto dalla situazione, attaccandolo fulmineamente e dandogli un violento strattone, che lo mandò a gambe levate.
Terreo in volto e amaramente scontento dell’accaduto, egli si attardò a guardare esterrefatto i propri pantaloni e il giubbotto di pelle inzaccherati; mentre a suo disdoro un nugolo di ragazzi l’aveva circondato, gridando a più non posso, al suo indirizzo, una serqua di ingiurie e di contumelie.
Perciò, non fece in tempo a rimettersi in piedi, che già sonò la campanella che indicava l’inizio dello spettacolo e tutti ci precipitammo a prendere posto all’interno della sala. Sorridendo e dandomi una gomitata, mio fratello assentì e lo stesso atteggiamento tennero, a uno a uno, i componenti della banda; mentre il capo, in disparte, mostrava d’avere la coda di paglia.
Al ritorno a casa, fui redarguito severamente da mio padre: vana risultò la difesa da parte di mio fratello, il quale, oltre i rimbrotti per non avere impedito il fatto, per soprammercato si ebbe una punizione, che, alla fine dei conti, accrebbe il suo prestigio.
Quale maresciallo dell’esercito, mio padre godeva d’indiscusso ascendente sugli abitanti del popoloso quartiere e, perciò, ne faceva un punto d’orgoglio che noi tenessimo un comportamento, non dico esemplare, ma oltremodo giudizioso, e non ci lasciassimo coinvolgere in azioni arrischiate o disdicevoli al massimo grado.
Ma eravamo ancora immaturi per fare tesoro di quelle lezioni di morale e, addirittura, con superficialità e impudenza, a lui che aveva partecipato alle due guerre mondiali ed era stato in Etiopia, domandavamo se in combattimento avesse ammazzato qualcuno. Ci guardava con occhi tristi, quasi contrariato, e ci rispondeva senza iattanza, dicendoci laconicamente:
”Si sparava nel mucchio!”
E mai riuscivamo a carpirne altri particolari. Si vedeva lontano un miglio che odiava la guerra e la forza bruta, ma non per questo mai si lamentò delle sue condizioni di salute, che trovavano origine nell’avere sopportato, per alcuni anni, l’umidità del clima africano, durante la campagna d’Etiopia; cosa che aveva finito per minare irrimediabilmente il suo fisico.
A noi ragazzi sembrava sano ed immortale, attivo e sempre prodigo a moltiplicare le sue energie, perché era lungi da noi il sospetto che si sottoponesse a turni di servizio logoranti, oltre le sue forze, esclusivamente per arrotondare lo stipendio, mai sufficiente a soddisfare le esigenze di una famiglia numerosa.
Quindi, non fu azione blasfema rituffarci senza pensieri nelle nostre avventure di strada, dopo avere rispettato le sue raccomandazioni per un giorno o due.
Mio fratello, covando la rivincita nei confronti del capobanda, il quale a bella posta aveva designato me per una sfida pericolosa, aspettava con pazienza la circostanza favorevole per vibrare il colpo risolutivo, e l’occasione desiderata non si fece attendere a lungo.
Giusto a proposito, sotto Natale cominciarono in città i riti sacri con il ciclo delle pastorali, che si tenevano, nel nostro quartiere, davanti all’edicola della Madonna, inghirlandata da rami d’arancio; con cantori e musici nei panni di pecorai, a sciorinare, al suono di ciaramelle, una serie di nenie e di canti natalizi, durante i quali noi ragazzi saltellavamo attorno a un falò beneaugurante.
Per scherzo o per ripicca, per caso o deliberatamente, tra la generale meraviglia, il capobanda finse di spingermi verso il fuoco, che in quel momento divampava sprigionando repentine scintille.
Con scatto felino mio fratello intervenne sull’istante e, incredibile a credersi, lui così magro e minuto, trovando energie insospettate, abbrancò per il collo il capobanda e, sollevatolo da terra come un fuscello, lo spinse minacciosamente verso le fiamme, costringendolo a fare ammenda davanti a tutti.
Questa volta, non ci furono punizioni di sorta: fu riconosciuto, da tutti i testimoni, che il comportamento di mio fratello era stato ineccepibile sotto ogni profilo e ci si sorprese come egli, pur avendone avuta la possibilità, non avesse cagionato neppure un graffio all’avversario, il quale, viceversa, aveva agito in maniera spregevole.
Per quanto avesse dovuto ammettere l’evidenza, mio padre, severo e intransigente, si fece sentire al solito modo, spiegandoci che quelli che noi consideravamo atti di coraggio, non erano affatto tali; anzi, non costituivano altro che spavalderia e sfrontatezza, sentimenti idonei a fomentare nuove imprudenze, in una faida senza fine.
Acclamato capo, mio fratello si distinse per la sua equanimità, evitando gli scontri inutili con le bande rivali, con le quali aveva persino stretto patti di non belligeranza: si arguiva che non voleva amareggiare mio padre.
D’estate, non di rado, egli riuniva la banda nella fattoria di un nostro proselito: si tiravano quattro calci al pallone, si facevano giochi d’ogni sorta, si saliva sugli alberi, si discuteva lungamente sotto le stelle: la nostra esuberanza, con buona pace dei genitori, sembrava incanalarsi in altre direzioni.
Una volta di quelle, mi ricordo che fummo sorpresi, in aperta campagna, dal classico temporale estivo: un acquazzone in piena regola con grandi strepiti, che ci lasciò bloccati all’interno di un casolare abbandonato.
Non so chi di noi, proprio in quella congiuntura, ebbe il coraggio di mettersi a parlare di spiriti e di diavoli e del Fondaco Alto, da dove erano stati visti uscire strani figuri – alcuni dicevano spettri – che di notte vagavano per la campagna. Sentii mio fratello rabbrividire e battere i denti.
Spiovuto in capo a mezz’ora, lasciata la combriccola, io e mio fratello raggiungemmo presto le prime case del quartiere. Alla luce fioca e quasi spettrale dei pali elettrici, l’ingresso del Fondaco Alto ci apparve, quella sera, la porta dell’inferno dantesco, pronta a fagocitarci.
Mio fratello si mise a piagnucolare e non ne volle minimamente sapere di attraversare a passo di corsa poco meno di duecento metri, quanti ci dividevano dal portone di casa. Fu nostro padre, che io andai a chiamare, a ricondurlo a casa quasi in deliquio.
Tra le mura domestiche ci apparve sollevato; ma durante la notte fu colto da una febbre violentissima, che lo tenne per alcune settimane tra la vita e la morte.
Mio padre mi proibì imperiosamente di fare cenno con chiunque dell’episodio, chiarendomi con i modi dovuti che la paura era stata una conseguenza della malattia allo stato latente.
Domata la febbre, subentrò per mio fratello un lungo periodo di convalescenza; ma la morte improvvisa di nostro padre lo prostrò.
I medici si alternarono al suo capezzale, dubbiosi; se ne andavano scuotendo il capo, ritornavano per nuove visite, si consultavano e, alla fine, diagnosticarono un’atrofia muscolare d’incerta origine, lunga e difficile da curare.
Riavutosi dopo un po’ di tempo, egli non si lamentava più della sua malattia: piangeva e si disperava per la morte di nostro padre e nessuno riusciva a consolarlo.
Sospirando profondamente, diceva:
”Lui sì che è stato un coraggioso! Ha affrontato le sofferenze in silenzio. Ed io…? Quante amarezze gli ho dato, io?”
Di tanto in tanto, guardandomi fisso in faccia, m’interrogava sulla banda con tono inquisitorio e, massime, chiedeva chi fosse il capo, che cosa facessero i compagni; e, malgrado le mie risposte fossero sincere, non voleva credere che il suo più acerrimo rivale avesse dato da tempo il rompete le righe. Si convinse soltanto quando costui, inaspettatamente, venne a trovarlo: li vidi confabulare a bassa voce lungamente e, alla fine, si abbracciarono piangendo.
Un giorno che rimasi solo con lui, toccò un tasto delicato:
”Tu ne hai avuto di coraggio, al Fondaco Alto!” mi disse e, dopo una breve pausa, soggiunse:“Io, in fondo, sono fortunato: la mia inazione mi permette di centellinare ogni attimo della mia vita ed è come se vivessi in pochi minuti giorni interi, mentre per voi il tempo scorre veloce, spesso inutilmente”
E infine concluse:
”Ah, come sarebbe bello, se tutti si fermassero un momento a fare più caso a queste cose!”.
Consapevole ormai della sua sorte, aveva trovato la serenità d’animo: leggeva di tutto e conversava amabilmente, godendo di essere benvoluto e rispettato nella sua malattia.
Si spense in pace in un giorno di primavera, nello stesso giorno e nella stessa ora in cui era morto nostro padre.
utente anonimo ha detto:
Ubaaaaaldo, tu provochi…!
Quante altre cose bisogna delegare ancora alla scuola, mentre si aumenta il numero di studenti per classe e si tagliano i fondi?
Concordo profondamente sull’importanza che aveva un tempo il lavoro della donna all’interno della famiglia, ma i tempi sono cambiati e un ritorno al passato non sarebbe né giusto, né possibile. Anzi, guarda, forse ora qualcuno si rende conto che il ruolo della casalinga e dell’educazione dei figli è un vero e proprio mestiere (ai bei tempi, lavoro sommerso!).
Ci sarebbero tante cose da dire, dovrei scrivere un commento lunghissimo, ma ritornerò sull’argomento…
E’ vero che fino ad una certa età i ragazzi non comprendono i sacrifici dei genitori, l’ho provato anch’io; anche a me i miei sembravano immortali e instancabili.
Bello il racconto! I commenti sugli aspetti sintattici preferisci che li faccia qui o in un messaggio privato?
Un saluto,
Rosalba
Ihadadream ha detto:
Il tuo racconto è bello e fa riflettere. Già da tempo mi sforzo di vivere con maggiore consapevolezza la mia vita, gustandone le piccole cose belle. Adesso più che mai. Bravo.
Un abbraccio,
Anna
tullia65 ha detto:
….che bello poter essere in contatto con te….
tullia65 ha detto:
bravo, come sempre….
flash6155 ha detto:
Caro Ubaldo, il tuo post era molto chiaro fin dall’inizio! Tu non ti sei lasciato scappare niente che non andasse. Il fatto è che, da almeno dieci anni a questa parte, tutti vedono nella scuola il rimedio ai mali del mondo, tutti chiedono conti alla scuola, spesso pretendono che i ragazzi escano dai percorsi scolastici educati, preparati, capiti e perdonati anche di fronte ad atteggiamenti veramente scorretti. Molti docenti sono costretti a fare gli assistenti sociali, non gli insegnanti. La dura realtà è che, sempre più frequentemente, la scuola diventa un contenitore in cui i politici inseriscono promesse che non sono in grado di mantenere. Il supporto concretamente non esiste, o non esiste in misura uguale per tutte le scuole italiane. I ragazzi escono da scuola sempre più impreparati, perché i docenti devono svolgere il loro lavoro, cercando di colmare le lacune precedenti in mezzo ai tanti problemi: classi numerose, mancanza di un’educazione minima, episodi di “innocente” violenza… E l’istruzione? E il diploma? Quest’ultimo, alla fine, c’è sempre: ma a cosa porta?
I docenti delle scuole medie lamentano le carenze degli alunni non sanate alle elementari, quelli delle superiori le carenze delle medie, i docenti universitari si mettono le mani nei capelli e lamentano una diffusa ignoranza che i loro test di selezione nell’accesso alle facoltà universitarie non riescono ad evitare.
Il mio aspetto bellicoso nasceva, nel commento precedente, da considerazioni che facevo fra me, perché vedevo disattese tutte le tue belle proposte.
Si capiva bene ciò che intendevi dire riguardo il ruolo della famiglia, della donna, della necessità di sostenere le donne che lavorano e devono seguire l’educazione dei figli. Io, però, estenderei questo discorso anche agli uomini.
Comunque, grazie Ubaldo, la tua risposta era dolcissima e mi ha immediatamente calmata.
Adesso sono calma, eh!
Sono calma.
Un saluto,
Rosalba (ora sono registrata. Tu e dalloway66 mi facevate sentire un po’ in colpa!).
ubaldoriccobono ha detto:
Cara Anna,
sono felice che tu sia presente tra noi. Concordo perfettamente sul tuo giudizio di vivere con consapevolezza, di cogliere i momenti belli della vita, anche i più piccoli, informandoci al carpe diem. Ti sono grato degli apprezzamenti, che sono ampiamente ricambiati, e ti saluto con un lungo abbraccio, augurandoti una buona giornata.
Ubaldo
ubaldoriccobono ha detto:
Tullia gentilissima,
mi rincuora e mi gratificano la tua presenza e il tuo giudizio. Il blogger è un viaggiatore che ha bisogno della presenza e dell’incitamento degli amici per proseguire, altrimenti le sue comunicazioni sarebbero elucubrazioni narcisistiche. Si vive per comunicare e si comunica per vivere. Ed è bello quando il seme può crescere ed essere raccolto. Ti auguro una buona giornata
Ubaldo
ubaldoriccobono ha detto:
Cara Rosalba,
benvenuta e scusami il ritardo, per difficoltà incontrate nella navigazione. Mi piace il tuo tono umoristico, che si addice molto al mio amico, cui ho intitolato il blog. Anche la mia “arrabbiatura” era umoristica, per animare il dibattito, che anche tu sei riuscita a vivacizzare con le tue considerazioni. I nostri punti di vista, ovviamente, si sovrappongono e non poteva essere diversamente, oserei dire. La scuola e la cultura sono i pilastri della società ed è deprimente, vedere come se ne faccia materia di scambio, di operazioni commerciali, di livello non elevato, per ricorrere ad un eufemismo. Io ho sempre nutrito una grande ammirazione per la funzione docente, fin dai banchi di scuola e molti professori hanno segnato la mia vita e mi hanno inculcato l’amore per lo studio, i libri, la cultura. Un caro saluto e una buona giornata e a risentirci per la continuazione del nostro dialogo
Ubaldo
Dilia61 ha detto:
ubaldo, devo dire che la penso come te, ma sono anche dalla parte di rosalba sul fatto che si scarica tutto sulle spalle della scuola, che non ha ne’ i mezzi ne’ le competenze ne’ il tempo per farlo.
Rosanna poi parla del tornare al passato, riferendosi al fatto che la madre stia a casa acrescere i figli… ebbene guardatevi intorno, quasi tutte le mamme che conosco rimarrebbero volentieri a casa a godersi il loro pupo, ma ahime’, per sostenere la vita che siamo praticamente “obbligati” a condurre, devo tornare al lavoro. Secondo me invece prima di tirare in mezzo la scuola, bisogna approfondire bene il discorso famiglia, le base vengono gettate qui, e se non ci sono, difficilmente gli insegnanti riusciranno a costruirci sopra insegnamenti. Bisogna rendersi conto che l’educazione e’ un patrimonio della societa’, un diritto, e che su di lei si fonda la societa’ futura. Quindi appurato questo, bisogna investire ingenti energie e fondi. La madre che vuole crescere i figli deve poter stare a casa almeno fino ai 3 anni del bambino (la madre o il padre… in quanto i padri adesso sono maturi e bravissimi) ma deve percepire lo stipendio. Le donne che vogliono fare carriera secondo me sono in minoranza, e comuque devono poter avere una struttura di qualita’ e azzarderei di dire gratis, dove poter lasciare il figlio. Gia’ con questi due provvedimenti secondo me si riesce ad aggiustare la rotta, ed incrementare la natalita’. perdita di valori…. ci sarebbe da reinsegnare ai genitori un po’ di educazione civica…. affinche’ possano trasmetterla ai figli…. L’arroganza ha preso il posto dell’umilta’… e non e’ un bene. Tutto e’ dovuto, non deve essere guadagnato… Accidenti solo a parlarne mi e’ venuta una tristezza…. e sento che le cose non potranno che peggiorare…. genitori che pensano a loro stessi e figli che non sanno distinguere la realta’ dalla finzione… non conoscono una minina linea di divisione tra bene e male. Indipendentemente dal credo di ognuno, siamo sicuri che sia stato un bene togliere l’obbligatorieta’ dell’ora di religione? almeno una piccola infarinatura gliela davano… qualunque religione ha fondamenti su valori che aiutano nella vita, da’ regole di vita….
smetto qui va…
ubaldoriccobono ha detto:
Come darti torto, cara Dilia?
La famiglia è fondamentale, ma occorrono sinergie. La verità è che oggi si rimane isolati, a livello di atomi, e non siamo in grado di cambiare il corso delle cose. E’ dall’alto che devono venire gli input, mentre dal basso è necessario che ci sia il controllo della società civile. Quindi, il cambiamento deve partire anche dalla nostra anima. La verità è sempre racchiusa in interiore hominis. Miglioriamo l’uomo, cominciamo da noi stessi, operando con coraggio nei nostri ambiti, con onestà intellettuale, discernendo il grano dal loglio. Ma la nostra acquiescenza, a volte, è foriera di molti mali, più dei difetti dei governanti. Aristotele disse che il padrone è schiavo del suo schiavo. Un buono schiavo, quindi, può fare un buon padrone. L’egoismo, l’egocentrismo, l’interesse di bottega, finiscono per ottundere e spesso si ritorcono su noi stessi. A volte gli uomini si contentano di ottenere il minimo, magari prevaricando gli altri, ma alla fin fine scoprono che non è oro tutto quello che luce. Quindi il quadro non è idilliaco, ma bisogna trovare l’ottimismo della volontà, contemperandolo con il pessimismo dell’intelligenza. Il mio racconto conferma quanto tu hai osservato, perchè alla fine il figlio recepisce il discorso del padre, per quanto aspro e rigoroso possa essere stato. Già, il coraggio è una chiave di volta che può aprire molte porte: il coraggio delle nostre azioni e delle nostre responsabilità, il coraggio civico, il coraggio di amare gli altri, il nostro prossimo. Il coraggio non significa spregiudicatezza, imposizione della legge del più forte in quanto tale; il coraggio significa discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, non per il singolo, ma per la collettività. E’ un passaggio culturale, psicologico, un quid poco coltivato, che abbiamo disimparato ad utilizzare. Dobbiamo riscoprire, insomma, che la collettività e il suo benessere vengono prima del singolo, perchè se avremo applicato questi concetti il bene della collettività ricadrà a cascata sui singoli con effetti duraturi. Ci sarebbe da parlare all’infinito, ma stop, l’importante è parlarne e fare da passaparola. Ciao, cara Dilia.
Ubaldo 🙂
Yzma ha detto:
i genitori non parlano con i loro figli, non li ascoltano…
caffeina66 ha detto:
Questa è una pagina la cui bellezza si svela riga dopo riga. I tuoi ricordi hanno la forza degli insegnamenti che solo un padre amorevole può aver dato malgrado il temperamento rigido.
Ma hanno ancora una sorta di muta tristezza, una tristezza compita e dolcissima.
Riguardo alla prima parte è più complicato. Non attribuirei la sconsideratezza ,la cattiveria, la brutalità ad una incessante perdita di valori, piuttosto alla ricerca di valori nuovi e sicuramente più effimeri. Mi spiace che a doverne fare le spese siano proprio gli esseri che realmente non possono difendersi e per quanto poi si provveda ad una giusta detenzione per chi ha commesso il crimine, l’irrimediabile ormai è stato fatto ed ecco che i mostri generano altri mostri.
Ma la generazione che verrà sarà sempre peggiore di quella che la ha preceduta, perché ad ogni maleficio occorre porre rimedio insegnando ai nostri figli ad esser guardinghi, sospettosi, diffidenti.
La scuola ha i suoi difetti ma non sempre è imputabile di colpa. La scuola non può sopperire alle carenze di una famiglia fatta sempre più da tanti singles che vivono sotto lo stesso tetto, senza parlarsi, senza sedersi attorno al tavolo di cucina e raccontare. E raccontarsi.
La mia sofferenza è quella di costatare che viviamo tutti quanti in bilico.
Un saluto di cuore
ubaldoriccobono ha detto:
Yzma solare, hai focalizzato il problema. Oggi si è quasi obliterata la propensione all’ascolto, in una famiglia che non ha più il tempo di farlo. Ci sono moltissime famiglie, i cui componenti non s’incontrano neanche a pranzo. Tutti i rapporti sociali sono legati all’orologio, alla fretta, alla superficialità. Sì gli incontri non sono fondati su legami solidi, duraturi, stabili. “Incontrarsi e dirsi addio” disse Montale, dipingendo il problema del tempo e dello spazio che contrassegnano la nostra esistenza, in quel villaggio globale che è il mondo, votato alla fretta (jazz society) e al consumo materiale. Se la famiglia non riesce ad assolvere tali compiti e la scuola, per motivi di organizzazione, no riesce a sopperirvi, è giocoforza che il disagio cresca. Quello che mi meraviglia, ogni giorno, è vedere ad Agrigento frotte di studenti che non vanno metodicamente a scuola, senza che niente e nessuno alzi un dito. Di fronte a tali esempi quale futuro? Una buona notte.
ubaldoriccobono ha detto:
Cara Arietta, dici cose vere e sensate. La scuola non ha colpa, non ha responsabilità soprattutto il corpo docente, che deve prodigarsi diuturnamente a risolvere i problemi che la famiglia non riesce ad affrontare. Sì, è vero i giovani sono inquieti, vogliono vivere la loro vita, ne hanno sacrosanto diritto. Ma chi è che li manda al massacro del sabato sera, ad assumere la droga, a compiere atti di violenza gratuita?
Valori effimeri, giusto. Ma come nascono e s’impongono? Dobbiamo chiedercelo tutti. Se si si tratta di caduta di valori, o di ricerca di valori effimeri, nell’un caso o nell’altro dobbiamo porci il problema come intervenire, senza nasconderci dietro un dito. E’ una società la nostra che somiglia al canto delle sirene, di fronte alle quali i giovani non riescono a sottrarsi. Purtroppo le sirene cantano una solfa accattivante, ma assai spesso vuota, effimera come tu giustamente dici. Se è così allora occorre aggredire i pericolosi gangli del malessere emozionale crescente, che parte dalla più giovane età e coinvolge bambini e giovani. Famiglia e scuola, non si scappa. Ma non è un problema immane che il singolo da solo non potrà mai risolvere, è un problema fondamentalmente collettivo. Ormai tutti ci siamo accorti che l’homo oeconomicus ha finito per soppiantare l’homo philosophicus, quello che pensa e colma il vuoto, soprattutto quello interiore ed emozionale (autentico), perchè come tu realisticamente affermi ci sono emozioni “indotte” molto pericolose (le sirene). Del diman non v’è certezza: hai ragione, i mostri creano altri mostri. Ne sentiamo parlare ogni giorno di queste problematiche, segno che abbiamo riavvolto il filo e abbiamo voglia d’incidere una nuova musica. Parlandone come facciamo noi, è già un modo di confrontarci e di andare alla ricerca del nuovo e del cambiamento. Nel giorno del family day non ha importanza chi abbia ragione o torto, l’importante è schierarsi dalla parte della famiglia, dei giovani e dei valori autentici. Buona notte e grazie dei tuoi giudizi calibrati, che invitano alle riflessioni. Buona notte
Dilia61 ha detto:
e’ vero uby… parlarne aiuta chi ga’ la pensa cosi’, che in tal modo si sente un po’ meno utopista e solo, e chi non ci ha ancora riflettuto su. Possiamo seminare, parlare, alscoltare, riflettere, agire…. e forse il risultato si vedra’ tra un paio di generazioni. C’e’ da dire che non tutti i giovani di adesso seguono le sirene, per fortuna ci sono quelli con una famiglia dietro che li segue, che sono alla ricerca dei veri valori che possano colmare il vuoto del consumismo. Sono la nostra speranza, e vanno ascoltati
dalloway66 ha detto:
Caro Ubaldo, fra te, Rosalba, Dilla61 e Caffeina, che avete qui pubblicato un romanzo a puntate, il povero malcapitato che arriva solo adesso, cosa mai può aggiungere?
Conosco un bambino che vive questa situazione: la madre e il padre sono separati, lei vive con un altro (non so dove l’abbia pescato, ma avrebbe fatto meglio a rimanere da sola), violento, che picchia il bambino con il tubo di gomma, gli lascia le famose cinque dita di violenza, per giorni, sul viso, quando viene a parlarti non ti guarda mai negli occhi ecc. Il padre naturale è più immaturo del figlio, quando se ne occupa gli fa fare tutto ciò che vuole e spaccia hashish davanti a lui. Il bambino è ipercinetico, indemoniato a volte, usa il turpiloquio in continuazione, ovviamente non studia e i compagni tendono ad isolarlo per i motivi precedenti ed anche perché spesso usa la violenza come unico linguaggio. Vorrei sapere, la scuola e gli insegnanti che responsabilità hanno in questi casi? Comunque vi dico cosa abbiamo fatto. Innanzitutto cerchiamo di inserirlo nel gruppo classe, poi abbiamo chiesto al Comune un aiuto per farlo studiare a casa e infatti c’è un ragazzo che lo segue. Abbiamo convocato la madre moltissime volte per cercare di indirizzarla, ma la sua risposta finale è stata: “basta! io lo spedisco dal padre! non lo sopporto più! solo a vederlo mi viene la nausea!”, ho citato le testuali parole urlate davanti al bambino. Da poco è venuto a scuola con altri lividi ecc. ecc. e così abbiamo chiesto l’intervento dell’assistente sociale. Immagino che vita d’inferno sia stata riservata a questo povero ragazzino che paga colpe non sue. E fare rimbalzare la palla delle responsabilità con il tipico balletto all’italiana, non servirà certo a farlo vivere meglio. un saluto a tutti
ubaldoriccobono ha detto:
Gli assenti hanno sempre torto, Cara Dalloway; ma per essere ultima alla manzoniana tavola, mica ti contenti delle briciole, ci proponi un caso limite tristissimo e amarissimo, che è la dimostrazione che occorrone sinergie e che bisogna operare sull’uomo. E come diceva Dilia, tentando e ritentando, chissà se tra un paio di generazioni non potremo vedere più luce. Dicevo di caso-limite, ma la verità è che i casi-limite sono tanti, tantissimi e, a livello atomistico, sfuggono al filtro del sistema. Voi avete operato benissimo e ritorno a dire che i professori sono encomiabili, ma assai spesso vengono mandati allo sbaraglio e la loro opera preziosa si disperde. Salutami Rosalba e un abbraccio.
Ubaldo
ubaldoriccobono ha detto:
Gli assenti hanno sempre torto, Cara Dalloway; ma per essere ultima alla manzoniana tavola, mica ti contenti delle briciole, ci proponi un caso limite tristissimo e amarissimo, che è la dimostrazione che occorrone sinergie e che bisogna operare sull’uomo. E come diceva Dilia, tentando e ritentando, chissà se tra un paio di generazioni non potremo vedere più luce. Dicevo di caso-limite, ma la verità è che i casi-limite sono tanti, tantissimi e, a livello atomistico, sfuggono al filtro del sistema. Voi avete operato benissimo e ritorno a dire che i professori sono encomiabili, ma assai spesso vengono mandati allo sbaraglio e la loro opera preziosa si disperde. Salutami Rosalba e un abbraccio.
Ubaldo
ubaldoriccobono ha detto:
Dulcis in fundo a Dilia, che ama il latino. Concordo con quanto sostieni. Il nostro cammino è lunghissimo, ma non per questo non dobbiamo rimboccarci le maniche, agendo con l’ottimismo della volontà, a tutti i livelli. I frutti non vengono se non si piantano i semi. Una parte si potranno pur perdere ma qualcosa dovrà pur rimanere. E’ una battaglia di lungo percorso. Ciao, ma chére.
simonettabumbi ha detto:
Fuori da ogni coro. E’ vero, se si vuole arrivare a fine mese occorre lavorare in due, e allora questi figli sono sbandati a dx e a sx, e ce la prendiamo con la scuola, ché a loro chiediamo supporto di ciò che noi, come genitori, non diamo.
No, io non la vedo proprio così. Credo che la base fondamentale sia la nostra insoddisfazione. Noi vogliamo sempre di più, e l’erba del vicino è sempre più verde. Nessuno si accontenta più di nulla e questa bramosia la trasmettiamo ai figli, che già all’asilo stanno col cellulare in mano! Sono frastornata su come procede la vita oggigiorno. Non ci sono più valori, non c’è umiltà, non c’è responsabilità, e non ci sono più tante altre cose.
La colpa è nostra, di noi genitori, la colpa è mia che per lavorare non ho seguito mia figlia come dovevo e gli ho tolto la parte più bella alla sua crescita: la mia presenza.
Ora che ho una certa età sono consapevole dei miei errori e me la prendo solo con me stessa, e mi rammarico di non essere stata capace di comprendere prima il grande errore che stavo facendo. Gli ho dato il benessere, è vero, ma forse l’ho dato prima a me ed è come se l’avessi condannata a morte, se i risultati sono quelli che vedo girandomi attorno.
Riflessioni e testo molto buoni, su cui continuerò a riflettere.
Chiedo scusa se ho detto sciocchezze.
simy
colfavoredellenebbie ha detto:
🙂 … permesso?
(alcuni colpetti nell’aria per chiederlo)
Questo è soltanto un saluto e un grazie di cuore, per gli auguri e la gentilezza. Poi tornerò a leggere con calma e attenzione.
Intanto, buona giornata.
z.
colfavoredellenebbie ha detto:
🙂 … permesso?
(alcuni colpetti nell’aria per chiederlo)
Questo è soltanto un saluto e un grazie di cuore, per gli auguri e la gentilezza. Poi tornerò a leggere con calma e attenzione.
Intanto, buona giornata.
z.
ubaldoriccobono ha detto:
Grazie Simy del passaggio, hai detto cose giuste, sacrosante. Gli è che tutti abbiamo ragione e riusciamo a decifrare quali sono i punti dolenti, ma purtroppo non riusciamo a convogliare le nostre istanze facendoci sentire ai vari livelli e/o ad operare il cambiamento percepito. Io non criminalizzerei i nostri figli che rincorrono i beni materiali, così come avveniva per noi, a patto che venga fatto capire a chiare lettere che i beni materiali sono strumenti e non fini. Fine di tutte le cose è l’uomo e la sua umanità. Non criminalizzerei neanche i genitori, a meno che essi siano in malafede. A volte anche una presenza breve, ma qualitativamente importante è decisiva per la crescita dei nostri figli. I tempi di dialogo tra genitori e figli, i tempi d’ascolto, si vanno sempre più riducendo e non è colpa nè nostra nè loro. E’ impossibile arrestare la società in marcia, scheggia quasi impazzita dell’universo, ci vorranno molti anni per poter risalire la china, con quali risultati non è lecito arguire, ma una cosa è certa bisogna riappropriarsi dei valori, quelli effettivi che fanno sentire esseri di un universo e di un ordine finalistico fatto per noi. Grazie ancora dell’attenzione e un caro saluto.
ubaldoriccobono ha detto:
Avanti col favore delle nebbie, la mia porta è sempre aperta agli amici e tu sei già tra gli amici miei ufficiali. Torna quindi quando vuoi, liberamente. Nel ringraziarti per la visita, ti auguro una buona serata.