SICCITA’ & DESERTIFICAZIONE

La desertificazione costituisce una minaccia per le regioni aride, semi aride e sub umide secche presenti in tutti i continenti. Per desertificazione si intende il processo che porta ad una riduzione irreversibile della capacità del suolo di produrre risorse. In particolare, l’ aridità è una naturale caratteristica climatica che interessa con vari gradi di intensità il 47% delle terre emerse del Pianeta, le più a rischio. Ecco le coordinate del fenomeno a livello del Mediterraneo e nel Mondo:
Il protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici rappresenta l’impegno dei paesi industrializzati di ridurre del 5% le emissioni di alcuni gas ad effetto serra responsabili del riscaldamento del pianeta. Ma i risultati dell’applicazione sono dubbi e molti paesi, tra cui gli Stati Uniti, non l’hanno accettato. Le ambiguità dei governi rischia di condizionare l’equilibrio ambientale del pianeta. E’ un atteggiamento di cecità, che alberga in tutti noi. C’è la spinta da parte di tutti i popoli a concentrarsi in aree urbane, in metropoli e megalopoli, abbandonando le campagne e gli ambienti naturali, che peraltro vengono sottoposti a sfruttamenti intensivi. Su quest’atteggiamento scrissi di getto un racconto sul mensile Portadiponte, intitolato La siccità. E’ un atteggiamento psicologico, che ci porta all’abbandono della campagna e determina una scarsa presa di coscienza e il formarsi della personalità del far-west, dello sfruttamento per lo sfruttamento dell’ambiente, senza alcuna lungimiranza, convinti che, se vi sarà il disastro ecologico, questo non ci potrà riguardare.
La siccità
(racconto)
“Non piove ancora?” chiese il padre dalla cucina. Il figlio, uscendo, sbattè la porta: forse non aveva sentito, o forse era arrabbiato. Il vecchio era cieco e, almeno per questo, avrebbe meritato più rispetto. Non se ne faceva, però. In fondo, a conti fatti, bisognava riconoscere che il figlio era un bravo giovane. L’accudiva nella sua cecità, sopperendo ai suoi bisogni, meglio della madre, che se n’era scappata di casa.
Però, ecco!, non gli andava di stare in campagna: insegnava in città e tra poco avrebbe sposato.
“Vendiamo tutto!” era la litania del figlio. “Terra arsa è, terra amara, terra maledetta: la siccità se la sta mangiando tutta.”
Ma lui, neanche per inteso:
”Non ti saresti neanche permesso di pensarlo, se ci fosse stata tua madre!” lo rimproverava. “Lei sì, che di terra se n’intendeva.”
Sentendo nominare la madre, il figlio taceva, come se il padre avesse svegliato un nervo dolente.
Al vecchio, quella terra era più cara della luce degli occhi che aveva perduto: secondo lui, era la sola cosa al mondo che avrebbe potuto far ritornare la moglie.
Fin dalla prima volta, che vi aveva messo piede, da fidanzata, Ninfa aveva giurato e spergiurato, rapita:“In questa terra ci vorrei morire.”
Di nascosto, dietro le spalle di lei, lui aveva fatto le corna, mentre l’aveva abbracciata e baciata d’impeto. Poi, se n’erano andati per i prati, giurandosi eterno amore. La campagna, allora, era in pieno rigoglio; sembrava un oceano senza fine, con il vento che vi scorrazzava, formando velocissime onde verdi, che s’inseguivano di continuo.
“Sai che farei?” gli disse, alla vigilia delle nozze. “Laggiù, una fattoria modello, innanzitutto… Su quella collina, un bel boschetto… E poi una bella vigna, dietro la casa…“
E giù a descrivergli i suoi sogni, strani per una ragazza di città. Sembrava esser nata e vissuta in campagna.
Tutto le aveva permesso: ogni suo desiderio era un comando. Appena sposati, s’erano messi di buzzo buono, ma non credevano che con la terra si potesse diventare milionari.
La fortuna però è una banderuola, che va dove spira il vento. All’improvviso, il fulmine a ciel sereno: distacco della retina! e per lui era stato buio pesto. Che pena per Ninfa; si sentiva quasi in colpa; voleva cambiar vita, andarsene in città: ma lui inflessibile.
Basta! con l’onda dei ricordi. A che serviva rivangare, ora? Erano passati troppi anni e lui non si commuoveva più. Del resto, che lacrime avrebbero potuto spremere, i suoi occhi spenti? Da vent’anni se n’era andata, Ninfa, sconvolta da quella sua cecità traditora.
Nei primi tempi aveva resistito: dirigeva l’azienda, dando l’esempio: sempre in prima linea, tra gli operai, lei ch’era padrona assoluta. Era stata l’artefice della loro prosperità. Se avesse voluto, lui l’incoraggiava, avrebbe potuto trasformare i sassi in pietre preziose.
“Storie!” rispondeva lei. “Contano il lavoro e la volontà, e la costanza: tanti non ce l’hanno, ecco tutto.”
Alla fine, però, aveva mollato: non sopportava che tutto quel ben di Dio, che vedeva stupefatta davanti agli occhi, non potesse essere condiviso dal marito.
“Quello che tu vedi, non lo leggo dalle tue parole?” rispondeva il cieco.
“Affittiamola, la terra!” insisteva lei, con rabbia sorda. “Non è vita che fa per te. Ti stai abbrutendo, relegato in questa cucina, dalla mattina alla sera.”
Abbrutito? Bastava che s’affacciasse appena dalla finestra, per annusare l’aria; o facesse qualche passo sull’ aia, chè già sentiva il cuore spalancarsi.
Come credeva, lei, ch’egli avesse superata la cecità? Quella era la terra di suo padre e dei suoi avi, era suolo sacro, calpestato per generazioni e generazioni dalla sua famiglia. La sentiva propria, la terra, come non mai, con tutti i sensi e nessuno avrebbe potuto togliergliela, mai. Solo la morte.
Così, all’improvviso, senza lasciare un rigo, Ninfa se n’era scappata.
“E’ colpa tua!” aveva detto un giorno la fidanzata al figlio. “Perché non gli hai detto la verità?”
Il figlio l’aveva guardata con stupore, poi aveva risposto:“Ormai è troppo tardi. Quando tutto accadde, avevo appena dieci anni. Ma è stato un bene: vedi come si attacca ancora alla vita e spera sempre che lei ritorni?”
“Tu sai che gli voglio bene, come a un padre. Ma finirà per renderci la vita impossibile. Si convincesse almeno a venire a vivere con noi, in città!”
“Non dire così… non porta bene. Una soluzione la troveremo. Sarà una rivoluzione, la vita mia. Ma glielo debbo. L’affetto che mi ha dato non è paragonabile nemmeno a quello che mi dava mia madre.”
“Io ti capisco, ma non me la sento di viaggiare, dalla campagna in città e dalla città in campagna, tutti i giorni.”
“Viaggerò io. Verrò a trovarlo ogni giorno. Poi, quando verranno i bambini, si vedrà.”
“E se tu provassi a dirgli la verità?”
“La verità? Sei pazza? Sarebbe una crudeltà, sarebbe come ucciderlo!”
“Vuoi che ti aiuti, io?”
“Mai! Non me lo perdonerei e non te lo perdonerei. E poi che cosa gli direi?… Papà, senti… sai… vent’anni fa, quando la mamma … Lui m’interromperebbe subito. Non pensarci, figlio mio, direbbe. Tua madre è sacra per me, anche se ci ha lasciati. Quando ritornerà, non ci sarà bisogno di perdono, sarà una vita nuova. Vedrai, ci porterà fortuna. Con il suo ritorno, finirà questa maledetta siccità e tutto sarà come prima, anzi più bello di prima. Dopo queste sue parole, tu pensi che io potrei avere cuore di dirgli: papà, papà… no, lei… tua moglie, mia madre, non tornerà più. Non può tornare, papà: capisci? La mamma è morta, in un incidente… Morta, morta! Il trattore, sai, impazzito… s’era rovesciato, con lei sopra.”
(racconto di Ubaldo Riccobono, tutti i diritti riservati)