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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

~ "La vita o si vive o si scrive" (Luigi Pirandello) – "Regnando Amicizia ogni cosa va ad unirsi" (Empedocle) – "Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano" (Leonardo Sciascia)

Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

Archivi Mensili: marzo 2008

31 lunedì Mar 2008

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ariosto, ceserani, cultura, dittatura, edimburgo, letteratura - articoli, libro, mafia, orcel, pavese, pirandello, pittura, politica, renda, riccobono rossella, saint andrew, sciamè, storia, travaglio

LIBRI & POLITICA 

MANI SPORCHE
di Marco Travaglio

Libro di Marco Travaglio

“Alla fine il reato più grave diventa quello di chi racconta certe cose, anziché di chi le fa. La colpa non è dello specchio, ma di chi ci sta davanti.”  Enzo Biagi, giornalista (1920-2007) (Esergo di Mani Sporche)

Marco Travaglio Sarebbe piaciuto a Pirandello, Marco Travaglio, per quel suo umorismo, con il quale connota le apparizioni in pubblico; per come racconta le vicende degli ultimi anni della vita politica italiana e degli scandali dal 2001 in poi, che hanno marchiato a fuoco questo nostro travagliato inizio del terzo millennio e lo continuano a caratterizzare. Marco Travaglio ha un suo stile: con il sorriso sulle labbra e una voce dolce e non declamatoria affonda il bisturi e non lo dà neanche a vedere. E nella terra  di Pirandello ha presentato, con tono adeguato alla sua fama, “MANI SPORCHE”, l’ultima fatica realizzata in collaborazione con i colleghi Gianni Barbacetto e Peter Gomez, ponderoso libro-pamphlet-inchiesta sul caso politico italiano. 
Promoter della serata è stata la libreria Capalunga, diretta da Amedeo Bruccoleri (vedi foto sotto), che può vantare al suo attivo una lunga teoria di azzeccati eventi culturali, che hanno lo scopo di avvicinare ai libri e alla cultura molti proseliti, e in modo particolare i giovani. Per la speciale occasione è stato sfruttato il palcoscenico del Teatro della Posta Vecchia (vedi link sulla homepage), gremito in ogni ordine di posti.

Marco TravaglioNell’illustrare il suo libro, Travaglio è passato con suadente disinvoltura dall’indulto di Berlusconi agli scandali di Calciopoli e Vallettopoli, per poi esaminare il caso Previti, i crac Parmalat e Cirio e il resto dei fatti clamorosi, nonché le grandi vicende giudiziarie (tra cui il caso Mastella), non risparmiando nessuno e affrescando i singoli episodi con nutrite gags e taglienti calembours. Ne è uscita “una visione al vetriolo della politica”, quella che del resto sta inquietando tuttora la gente, chiamata al voto nelle giornate del 13 e 14 aprile.
L’uditorio è rimasto preso dalla lucida e sottile ironia, dalla singolare capacità di Travaglio di sviscerare i fatti, noti e meno noti, e soprattutto dalla possibilità di sentire un’altra campana, che non sia quella dei diretti interessati o dei responsabili degli scandali. Sono stati messi sotto i riflettori furbi, furbastri e “furbettini” del sistema, in un libro di 914 pagine filate, dense di fatti e di personaggi, di indagini e di documenti, esaminati e passati al vaglio. C’è materiale sufficiente per toccare con mano, rilevare, interpretare e rendersi personalmente conto.

 

“C’è qualcuno che ride”
di Luigi Pirandello

Luigi Pirandello, con i fratelliDa che mondo è mondo, la satira politica non ha mai risparmiato niente e nessuno. La satira giornalistica talora è graffiante, talaltra ammiccante, è professionale e quasi scientifica,  anche se si consuma nella contingenza del momento. Ma assai spesso non si va a fondo, i fatti e le responsabilità restano nel limbo e i fatti vengono utilizzati ad usum delphini. La satira letteraria o saggistica, viceversa, viene sviluppata secondo canoni e modi del tutto diversi, perché il racconto, il romanzo, il pamphlet polemico o il singolo saggio, nella visione degli autori sono generi destinati a vivere e a perpetuarsi.
La satira principalmente vuol colpire e persuadere l’uditorio, che viene stimolato a recepire attraverso il taglio espressivo fondato sull’ironia polemica, mediante l’invettiva, l’aggressione violenta, i doppi sensi ecc. La satira umoristica, invece, si attua con una velata, sottintesa gradazione, che va da un temperato grottesco sarcasmo a un sorriso appena accennato, che si ammanta d’inquieta e pensosa amarezza. Un esempio di questo genere ce lo fornisce Luigi Pirandello nella novella “C’è qualcuno che ride”.  La novella fu pubblicata per la prima volta dal Corriere della  Sera il 7 novembre del 1934 e poi fece parte della raccolta “Una giornata” pubblicata postuma da Mondadori nel 1937.
Per darne la spiegazione, però, bisogna fare un piccolo passo indietro e risalire al 1924, data in cui lo scrittore diede a sorpresa la sua adesione al partito fascista con un telegramma diretto a  Mussolini in persona. Fu un’adesione eclatante imposta? Non lo sapremo mai. Certo Pirandello con la sua arte non poteva ritenersi funzionale al fascismo, anzi lo contraddiceva alquanto (così come d’altronde continuò ad avvenire con la poetica successiva). Potè trattarsi anche di un’illusoria e ingenua convinzione formatasi in Pirandello, alla stregua del filosofo Fichte, sul fatto che un uomo forte potesse cambiare l’individuo e la sua etica. Comunque, a riprova che non si fosse trattato di una sostanziale adesione ideologica sta il fatto che Mussolini e il fascismo non furono tanto teneri con Pirandello e neanche prodighi con il Teatro dell’arte da lui creato, il quale fu invece sempre vessato da tasse e imposizioni disparate, alle quali lo scrittore dovette sobbarcarsi con grandi sacrifici. Il duce tentò persino di opporsi al conferimento del Premio Nobel a Pirandello, mostrando sfacciatamente  di preferirgli D’Annunzio, ma dovette ingoiare il rospo. E’ ben noto inoltre che Mussolini il 24 marzo del 1934, data in cui si rappresentava all’Opera di Roma “La favola del figlio cambiato”, avesse lasciato lo spettacolo, dopo il primo atto, uscendosene visibilmente contrariato. Alla fine, la commedia fu contestata da una artata claque di fascisti e il duce ne “approfittò” per vietarne le repliche, perché il fascismo, “petestuosamente”, intravide nel re da burla della Favola (il rex stultorum delle feste carnascialesche di Bachtin) la controfigura di Hitler o di Vittorio Emanuele III. Però, la prima assoluta dell’opera, avvenuta  senza alcun problema nel gennaio del ’34 proprio in Germania, a Braunscheweug, lascia opinare che si sia trattato di un autentico boicottaggio inscenato contro Pirandello, già premio Nobel “in pectore” e “reo” di non voler piegare il suo “intelletto” al regime. Una testimonianza di Indro Montanelli getta chiara luce sul rapporto di Pirandello con il fascismo. Il 17 marzo del 2001, nella sua “Stanza” del Corriere della Sera, ricordando di aver conosciuto Pirandello, presentatogli da Massimo Bontempelli pochi mesi prima che lo scrittore morisse, Montanelli riportò un giudizio lapidario del premio Nobel sul fascismo, con una perentoria risposta a un suo quesito su come mai il fascismo fosse riuscito a sopravvivere così a lungo:

”Semplicissimo, ragazzo mio: questo regime è un tubo vuoto, che ognuno può riempire di ciò che più gli aggrada. I vecchi conservatoti ci vedono il ripristino dello Stato, i nazionalisti il culto della patria, i liberali l’ordine, i socialisti la corporazione, gli intellettuali la feluca e lo spadino dell’accademico, o alla  peggio il sussidio del Minculpop… Un simile regime, chi può aver interesse a buttarlo giù?”

Il testamento dello scrittore, che stabiliva che fosse portato all’ultima dimora senza accompagnamento di familiari e amici, in una cassa e in un carro dei poveri, impedì al regime di celebrare onoranze funebri solenni. Mussolini si vendicò mandando in esilio a Venezia Massimo Bontempelli che osò commemorare Pirandello ufficialmente nell’Accademia d’Italia, della quale il Premio Nobel faceva parte.
Luigi PirandelloNella raccolta poetica “Fuori di chiave” si ricava una sorta di premonizione pirandelliana, quasi inquietante, dell’acquisizione di una “tessera” sciagurata, che arieggia come preveggenza quella del 1924 del partito fascista:


Affondai la man tremante

in quel cavo enorme, oscuro,

e la sorte mia pescai;

poscia entrai… Ne ho visto tante,

che oramai più non mi curo

di saper qual male mai

rechi la  mia tessera.

 Un rapporto, invero, non idilliaco con un regime avaro e restio. La caratura intellettuale, le tematiche e l’ideologia di Pirandello non potevano essere imbrigliate in un qualsivoglia movimento e nella prassi nuocevano al fascismo, che avrebbe desiderato una cultura gregaria e sottomessa. Pirandello, quando seppe in anticipo di essere stato scrutinato favorevolmente per il premio Nobel, appena due giorni prima di riceverne la comunicazione, consumò la sua vendetta personale, pubblicando la novella satirica contro il regime “C’è qualcuno che ride”: racconto di sottile e sfumata parodia della dittatura, della sua censura, del conformismo, del lavaggio del cervello, della prevaricazione.

"Serpeggia una voce in mezzo alla riunione:

–          C’è qualcuno che ride.

Qua , là, dove la voce arriva, è come se si drizzi una vipera, o un grillo springhi, o sprazzi uno specchio a ferir gli occhi a tradimento.

–          Chi osa ridere?"

"La verità è che tutti questi invitati non sanno la ragione dell’invito. E’ sonato in città come l’appello a un’adunata."

A nessuno è lecito ridere, senza il consenso superiore, in un convegno ufficiale.

"Suscita un fierissimo sdegno, e proprio perché tutti sono in quest’animo; sdegno come per un’offesa personale, che si possa avere il coraggio di ridere apertamente… Se uno si mette a ridere e gli altri seguono l’esempio, se tutto quest’incubo frana d’improvviso in una risata generale, addio ogni cosa!"

E allora bisogna trovare il responsabile che potrebbe fomentare gli altri, metterlo con le spalle al muro.

"Ma c’è veramente questo qualcuno che seguita a ridere, nonostante la voce che serpeggia da un pezzo in mezzo alla riunione? Chi è? Dov’è?  Bisogna dargli la caccia, afferrarlo per il petto, sbatterlo al muro, e, tutti coi pugni protesi, domandargli perché ride e di chi ride."

Si sparge la voce: i responsabili sono tre, un padre e due figli. I “maggiorenti” si riuniscono in una sala appartata e decidono di intervenire, mettendosi a capo di tutta la folla che stringe i tre “trasgressori” che siedono in un divano.

"Appena sono davanti al divano, una enorme sardonica risata di tutta la folla degli invitati scoppia fracassante e rimbomba orribile più volte nella sala."

E’ la risata del conformismo, suscitata dai “tre maggiorenti” che si oppone alla risata “libera” dei “tre trasgressori”.
Il sentimento del contrario e le maschere pirandelliane sono evidenti. E come si evince dal bel quadro del maestro Vincenzo Sciamè, che ha saputo artisticamente rappresentare la maschera del sorriso e, nel suo stesso rovescio, quella del pianto, il dramma suscitato nella gente comune dalla apologia del fascismo (mangia e taci, obbedire e credere) con esasperante ed esasperata pazzia di tirannia autocratica è il tema focale della esemplare descrizione pirandelliana. Non una esilarante risata, quindi, ma il grottesco, come tragedia preannunciata della seconda guerra mondiale e dello schieramento sciagurato a  fianco del nazismo.

Maschera nudaMaschera che piangePirandello si stava preparando a consumare in silenzio un’altra vendetta, riproponendo La favola del figlio cambiato nel corpo dei Giganti della Montagna, ma il suo disegno fu spezzato dalla morte e il mito rimase incompiuto. Anche se egli, morente, tracciò lucidamente al figlio il finale, non sappiamo cosa avrebbe riservato contro il fascismo e il nazismo. Certo un messaggio contro l’uccisione dell’arte da parte della cultura del tempo è persino evidente nei primi due atti de “I giganti”.

 

GIOVANNI ORCEL (1887 – 1920)
VITA E MORTE PER MAFIA
DI UN SINDACALISTA SICILIANO

Giovanni Orcel
"Panormus Conca Aura suos devorat, alios nutrit"

(Palermo Conca d’oro divora i suoi figli, nutre gli stranieri)
Iscrizione sul monumento al genio di Palermo

 

"U Signuri, quannu voli futtiri a unu u fa nasciri ‘m Palermu"
(Il Signore quando vuole fare male a qualcuno, lo fa nascere a Palermo)
Voce del popolo

Libreria Capalunga di Agrigento
Giovanni Abbagnato è un giornalista  de La Repubblica, attivamente impegnato nell’azione sociale, nel sindacato e nel movimento antimafia; ha curato in collaborazione diverse pubblicazioni sulla mafia (La mafia al Cantiere Navale, 1997; Solidarietà ad personam, 2005; Nonviolenza e mafia, 2005; Lettere al caro estortore, 2006). Con la ricostruzione del caso di Giovanni Orcel, assassinato dalla mafia nel 1920, Abbagnato “restituisce alla storia” la figura di un sindacalista dimenticato, un socialista protagonista delle lotte operaie nei Cantieri di Palermo, pervicace assertore del legame tra città e campagna, assieme a Nicolò Alongi, altro dirigente sindacale ucciso nel 1920 da mano mafiosa. Il teatro della vicenda è la Palermo dei Cantieri Navali, forte di un notevole movimento operaio metalmeccanico, che per la sua forza fece definire la città, la Torino del Sud. Ma in quel torno di tempo le forze borghesi, padronali e mafiose, avevano interesse a spezzare un sindacato che dava fastidio a causa delle pervicaci rivendicazioni salariali, sociali e civili da parte dei lavoratori, nonchè per la presa di coscienza del movimento che avrebbe potuto portare a un riassetto determinante del potere politico. Con l’opera “Giovanni Orcel”, Giovanni Abbagnato restituisce inoltre giustizia alla figura di un sindacalista di spicco e d’un uomo di sinistra di notevole spessore politico, dopo inquietanti e colpevoli decenni di silenzio.  Nella presentazione del libro presso la libreria Capalunga di Agrigento, Giovanni Abbagnato e Umberto Santino, fondatore quest’ultimo del Centro siciliano “Giuseppe Impastato” di Palermo, hanno tracciato, oltre la vicenda di Orcel, la lotta contro la mafia e il malaffare, l’impegno civile e la volontà di riscatto dell’isola, che oggi vengono condotti nell’ “altra” Palermo con molto coraggio, dai lavoratori, dai giovani e dalle forze dell’ordine, e da tutte le altre forze sane della regione.    

 

Autobiografia politica
di Francesco Renda

Autobiografia politica

“Con parenti ed amici ho parlato spesso di quel mio passato che ben sintetizza lo spirito che si visse in Sicilia negli anni in cui la riscossa contadina sgretolava il millenario latifondo e il relativo potere baronale. Nello scrivere la mia biografia politica ho cercato il senso della mia vita: nato e cresciuto nel mondo contadino, sono poi divenuto testimone partecipe e dirigente della sua riscossa”

Francesco Renda, professore emerito di Storia Moderna presso l’Università di Palermo, in questo suo libro autobiografico e politico, si storicizza e storicizza la sua attività, raccontando con una visione, per così dire esterna,  il suo magistero di dirigente politico (PCI) e sindacale, filtrato attraverso  gli avvenimenti che hanno caratterizzato i fatti politici più importanti dell’isola, dal dopoguerra ad oggi. Il vissuto personale di Renda diventa storia e la storia dell’isola diventa vissuto personale, in un’osmosi singolare, interessante e coinvolgente, perché Renda, quale storico conclamato, non è immune da critiche e da sottolineature polemiche, sempre condotte da un’angolatura obiettiva. Non mancano i preziosi e corposi riferimenti ai precedenti,  dal Risorgimento alla seconda guerra mondiale, con una lucida, approfondita e graffiante analisi critica delle cause e delle concause degli avvenimenti politici, economici e sociali più salienti dell’Isola.
Non mancano inoltre i rimandi alla letteratura, in particolare a quella del Gattopardo, ritenuta dall’autore opera fondamentale per capire il trapasso di potere nel periodo risorgimentale, che impregnò anche  I vecchi  e i giovani di Pirandello e avrebbero avuto refluenze sul fenomeno dei Fasci siciliani dei lavoratori e della repressione crispina. 
Un richiamo importante appare quello relativo a Leonardo Sciascia, in rapporto affettuoso con Renda, che favorì l’incontro del Maestro di Regalpetra con Occhetto , il quale chiese allo scrittore la sua collaborazione alla rivista Quaderni Siciliani. La collaborazione si annunciò proficua, ma s’interruppe presto, perché lo scrittore era assai incisivo e suscitò la replica di Gerardo Chiaramonte, cui seguì una controreplica di Sciascia, con il risultato dell’instaurarsi di una sorta di guerra fredda tra PCI e Sciascia. Sciascia, invece, fece ingresso in Parlamento, ad opera dei radicali, mentre era entrato nel consiglio comunale di Palermo come indipendente di sinistra del PCI. Una spiacevole querelle con Enrico Berlinguer, culminata con una denuncia di diffamazione di quest’ultimo, tagliò definitivamente i ponti tra il PCI e lo scrittore.
Autobiografia politica
Ma non mancano, nel libro, altre interessanti tematiche di spessore nazionale ed internazionale, come hanno sottolineato in sede di presentazione dell’opera, il Viceministro alle Infrastrutture Angelo Capodicasa e il filosofo Maurizio Iacono, Preside della Facoltà di filosofia dell’Università di Pisa: in sintesi le ragioni storiche della teoria del centralismo democratico del PCI e del suo superamento, la visione del socialismo reale e del socialismo dal volto umano, le problematiche dell’autonomia siciliana in rapporto alla politica complessiva del Paese. Francesco Renda si conferma, anche in quest’opera autobiografica, uno storico di razza, in grado di passare al setaccio, con pertinenza e competenza, due secoli di storia siciliana, invitando perciò alla lettura dei suoi due testi fondamentali “Storia della Sicilia dal 1860 al 1970” in tre volumi, nonché “Storia della Sicilia dalle origini ai nostri giorni”, del pari in tre volumi.  
 


LIBRI E CULTURA ITALIANA
AD EDIMBURGO E SAINT ANDREWS

Università di Saint AndrewUniversità di Saint Andrew

Libro presentato ad EdimburgoL’italianistica non è una fede né una filosofia, ma è un metodo, un approccio nello studio della letteratura italiana, che spesso dichiarato morto e sepolto, riparte con nuova linfa sulla scorta dell’analisi dei testi, più che fondarsi sulla storia letteraria. La scelta di campo non può essere rinviata sine die, la scuola e l’Università devono attrezzarsi. La storia letteraria è fin troppo lunga perché si possa continuare ad insegnarla tutta dalle origini ai nostri giorni, mentre c’è l’esigenza dello studio delle altre letterature, perché ci muoviamo in contesti globalizzati e in un sistema di vasi comunicanti che interferiscono. E allora siamo chiamati a  non ragionare più in termini lineari e cronologici: la letteratura postmoderna è un contenitore amplissimo, che ingloba culture e letterature passate e presenti, che s’intersecano e si richiamano. Per capirne il senso non si può procedere con le forme, le periodizzazioni, gli stili o le etichette. Bisogna partire dai testi, confrontarli e compararli con altri testi, senza distinzione tra ciò che è estetico e ciò che non lo è. Il postmoderno non ha canoni, perché ha tanti canoni, proprio come diceva Pirandello: uno, nessuno, centomila. Studiare, ad esempio, Pirandello non ha più senso, se le sue opere vengono collocate in un preciso momento, nel tempo e nello spazio, in un preciso contesto storico. Conoscerne invece il pensiero, riproiettandolo nel presente e valutandolo in un’ottica postmoderna, è questa la didattica più valida per renderlo attuale e vivo e farlo capire.
Sulla scorta di tali principi, viene sviluppata la progettualità della cultura letteraria italiana in Scozia, da parte delle Università di Edimburgo e di Saint Andrews, in collaborazione  con l’Istituto Italiano di Cultura  di Edimburgo.

Edimburgo, Istituto italiano di culturaNel mese di dicembre 2007 è stato presentato ad Edimburgo il libro “Vested Voices II – Creating with Tranvestitism: from Bertolucci to Boccaccio”, un testo d’alto spessore accademico a più mani, che abbraccia tanti grandi autori italiani, studiati e filtrati in chiave post-moderna, attraverso l’analisi dei testi e mediante approfondimenti sociologico-culturali. Saggi scritti, parte in italiano e parte in inglese, sulle tematiche della creazione e del travestimento letterario in autori di rilievo assoluto: Balestrini, Calvino, Pavese, Elsa Morante, Manzoni, Verga, Gadda, Tebaldeo, Petrarca, Boccaccio.
Remo CeseraniRemo Ceserani, professore emerito di letteratura comparatistica all’Università di Bologna, che tiene un suggestivo corso di letteratura italiana sul postmoderno, in relazione anche al postmoderno impostosi in letterature di altre nazioni capitalistiche, ha dissertato in inglese sul tema “Disguise and travesty in Ariosto” (Finzione e travestimento in Ariosto) e ha dato luogo a una bella tavola rotonda con tutti gli autori del libro presentato. Ne è nata una discussione davvero interessante, per la profondità dei temi affrontati. Educare alla modernità è il concetto base del discorso di Remo Ceserani; e secondo lui questo non può avvenire se non si leggono le opere e i testi, in chiave postmoderna, perché la nostra epoca è caratterizzata dall’essere l’epoca di tutti gli stili e quindi di nessuno stile.
Nell’opera non vanno osservate soltanto l’impronta formale, stilistica, estetica, ma ilLudovico Ariosto significato di quello che di sé e del mondo l’artista dice, a volte nascosto da finzioni e travestimenti. Una concezione convincente, quella di Remo Ceserani, dimostrata con l’analisi dei testi dell’Ariosto. Una disamina la sua approfondita dalla lettura e dalla spiegazione dei testi che dimostrano, ad esempio, come in Bradamante dell’Orlando Furioso vi sia l’Ariosto stesso al femminile.

 
“La donna, cominciando a disarmarsi,
s’avea lo scudo e dipoi l’elmo tratto;
quando una cuffia d’oro, in che celarsi
soleano i capei lunghi e star di piatto,
uscì con l’elmo; onde caderon sparsi
giù per le spalle, e la scopriro a un tratto
e la feron conoscer per donzella,
non men che fiera in arme, in viso bella.
Quale al cader de le cortine suole
parer fra mille lampade la scena,
d’archi e di più d’una superba mole,
d’oro e di statue e di pitture piena;
o come suol fuor de la nube il sole
scoprir la faccia limpida e serena:
così, l’elmo levandosi dal viso,
mostrò la donna aprisse il paradiso”

Cesare Pavese Possiamo anche menzionare, al riguardo, l’esempio più moderno di Cesare Pavese, come afferma in Vested Voices II, la prof. Rossella Riccobono, docente d’Italiano, di narrativa e cinema all’Università di Saint Andrew. Nel saggio “Vestirsi, svestirsi, travestirsi: arte e gioco della voce pavesiana” la docente affronta la  tematica ex professo:

"La bella estate (1940), Cesare Pavese si traveste. Fenomeno eclatante nella scrittura di un autore che apertamente si dichiara da sempre misogino. E non è nemmeno la prima volta, né l’ultima. Esiste infatti un intero filone di scrittura pavesiana al femminile."

"Tre donne sole (1949): e Pavese si ritraveste, ma questa è l’ultima volta, il che sembra essere già preannunciato dal suicidio più volte tentato e poi riuscito di una delle amiche, ancora una volta un’esclusa, l’adolescente Rosetta…"

Poi, ad ulteriore riprova, viene citata la poesia censurata e pubblicata per la prima volta da Italo Calvino nel 1962 Pensieri di Dina (23 e 24 marzo 1933), di cui citiamo i versi più rappresentativi:

"E’ un piacere distendersi nuda sull’erba già calda
e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline
che sormontano i pioppi e mi vedono nuda
e nessuno di là se ne accorge. Quel vecchio in mutande
e cappello, che andava a pescare, mi ha vista tuffarmi,
ma ha creduto che fossi un ragazzo e nemmeno ha parlato."

Copertina in rumeno de LIl tema dell’esclusione come travestimento arieggia anche in Luigi Pirandello nel personaggio di Marta Ajala del romanzo L’esclusa. Pirandello trovò il titolo giusto dell’opera, proprio nel momento in cui s’era sentito escluso dal mondo letterario, a causa delle enormi difficoltà di pubblicare il romanzo. Sembra evidente che il disgusto di Marta Ajala per il suo corpo, che echeggia anche nell’Erma bifronte (“questa forma qui”) implicitamente riconosce il travestimento. Marta con impeto maschile risponde all’accusa del collega Falcone che aveva affermato improvvidamente che la donna è per sua natura conservatrice:

"-Conservatrice? Per me, ferro e fuoco."

Ma anche in Suo marito, nel personaggio tormentato di Silvia Roncella, più che Grazia Deledda, s’intravede lo stesso autore che si esilia confinandosi nel mondo dell’arte, finendo per rendere verosimile l’adombramento un caso di travestimento.

23 domenica Mar 2008

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bonn, letteratura - articoli, pasticceria pasquale, pirandello, poesia, sciascia, sicilia, tolstoj, tomasi di lampedusa

GIORNI DI PASQUA

Giuseppe Forte, Resurrezione  

Comu rè già triunfanti

scarzarau li Patri Santi

O gran Virgini Maria

mirrallegru assai cu tia

(Rosario siciliano, manoscritto inizio XX secolo)

Il significato della Pasqua non ha soltanto una valenza religiosa, ma anche un valore etico indiscutibile, come rinascita dell’uomo, passaggio da uno stato d’incoscienza ad una condizione di vita consapevole e vera, così come dimostrò Lev Nikolaevič Tolstoj nel suo ultimo grande romanzo, Resurrezione.

Leone Tolstoj

Tolstoj si rese conto che non era facile realizzare tali principi e, vedendo le contraddizioni sociali, scrisse: "L’attuale struttura della società alimenta l’egoismo della gente, pronta a vendere la propria libertà e il proprio onore per un piccolo vantaggio economico". Parole di un’attualità impressionante.

 

LA CORDA PAZZA

 Leonardo Sciascia

Alla ricerca degli autentici valori delle festività, e in particolare di quelli relativi alla Pasqua, va Leonardo Sciascia in Feste religiose in Sicilia, ne La corda pazza, una raccolta di saggi che vanno dal 1963 al 1970 (anno di pubblicazione), che prese il nome dal saggio intitolato appunto La Corda pazza.

 

 “Ma una festa religiosa – che cosa è una festa religiosa  in Sicilia?

Sarebbe facile  rispondere che è tutto, tranne che una festa religiosa… E’, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io, per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città. In questo senso, oggi, ha valore di festa il periodo che immediatamente precede la consultazione elettorale, e la giornata elettorale stessa (ma venata di quella malinconia che si insinua nel disfarsi e spegnersi di una festa): che è il momento in cui il partito politico effettualmente esiste; così come un tempo, nelle feste patronali e liturgiche, veniva a configurarsi, anche attraverso una eccezionale esplicazione di poteri (la liberazione di condannati, la licenza di potere insultare o colpire persone di più alto ceto)”

 

“Ma è davvero il dramma del figlio di Dio fatto uomo che rivive, nei paesi siciliani, il Venerdì Santo?

 Giuseppe Forte, Crocifissione

Sutta un lignu trascinatu

Gesù a morti era purtatu

e vui matri Addulurata

lu ‘ncuntrastiru pi la strata

Vi cunsiddiru Gran Signura

‘ntra ddi spasimi e dulura

(coroncina un onore dell’Addolorata

Chiesa S.Oliva – Cefalù)

 
O non è invece il dramma dell’uomo, semplicemente uomo, tradito del suo vicino, assassinato dalla legge? O, in definitiva, non è nemmeno questo, ed è soltanto il dramma di una madre, il dramma dell’Addolorata?”
(Leonardo Sciascia, Feste religiose in Sicilia, da La corda pazza)

 L

Davanti lu ritrattu li puttò:

Chianciemu tutti me’ figghiu muriu

chiamatimi a Giuvanni, cca lu vogghiu

quantu m’ajuta a chianciri me’ figghiu

(Rosario siciliano, manoscritto inizio XX secolo)

 

Non siamo tanto lontani dalla concezione di Tolstoj: il processo d’identificazione della festa religiosa con la vicenda prettamente umana appare evidente.
Per Sciascia il vero dramma è quello dell’Addolorata.  Una volta catturato, Cristo è nella morte, il morto è morto. Ma la madre è viva, dolente, immagine e simbolo di tutte le madri.

“Il vero dramma è suo: terreno, carnale. Non il dramma, dunque, del divino; ma quello del male di vivere, dell’oscuro viscerale sgomento di fronte alla morte, del chiuso e del perenne lutto dei viventi” ?” (Leonardo Sciascia, Feste religiose in Sicilia, da La corda pazza)

E di fronte a questo dramma che si ripete l’uomo si sente scoperto, nudo, refrattario ad ogni giustificazione, impotente: mai la contemplazione della morte fu più terrena e il siciliano si sentì più solo. Ne La corda pazza (scrittori e cose della Sicilia) Leonardo Sciascia quindi indugia nel ritrarre la sicilitudine, quel modo di essere che si traduce anche in una sorta di alienazione, di follia, sul piano della psicologia e anche del costume. E proprio nel primo breve brano critico del libro, Sicilia e sicilitudine, Sciascia traccia quasi il programma dell’opera, scritta in un lungo arco di tempo, ma con un unico filo conduttore. Nel preambolo, non a caso, ricorda il discorso che Don Fabrizio, nel Gattopardo, fa al piemontese Chevalley:

“i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla”

Sciascia è la ragione che vuole capire, la ragione che vuole spiegare quel processo mentale che è insito nell’uomo: la pazzia. Non si tratta della mentalità del mentecatto, ma della posizione dialettica che postula l’essere e il non essere. La luce presuppone l’ombra, e il giorno la notte. Ma i passaggi di stato, pur rientrando nell’ordine naturale di tutte le cose, per il siciliano assumono una dimensione tutta particolare, in una terra sempre dominata, ieri e oggi anche da un potere che trascende il popolo.
Ne La corda pazza si salda il pensiero di tre grandi autori. Sciascia segue fondamentalmente un canovaccio pirandelliano, nel solco della pazzia del Berretto a sonagli (il tema della follia nella “tipicità” della vita siciliana, delle sue regole) e dell’Enrico IV (in cui il tema trascorre dal caso clinico all’esistenza stessa). E in questo suo itinerario incontra Giuseppe Tomasi di Lampedusa, coevo a lui.

Luigi Pirandello Giuseppe Tomasi di Lampedusa, diseg. di Vincenzo Sciamè

Sciascia ragiona sempre lucidamente,  a volte con un filo d’ironia, ma sviscera scrittori e cose della Sicilia con aderenza alla verità, senza lasciarsi coinvolgere dall’emotività e dal sentimento, mostrando i lati oscuri, traendoli dall’ombra, perché ciascuno li possa interpretare e giudicare, per ricostuire la Ragione.

La Beata Corbera Così, in relazione anche alle festività pasquali, riporta alla luce, quasi con spirito giornalistico, come si evidenzia nel titolo “Dal monastero di Palma”, la storia di Suor Maria Crocifissa della Concezione, dell’Ordine di San Benedetto, al secolo Isabella Tomasi, entrata a quattordici anni nel monastero di Palma di Montechiaro (a una ventina di chilometri da Agrigento), prendendone i voti a 17 anni.

Sciascia cita una pagina del volume delle sue lettere spirituali, pubblicato a Venezia nel 1711, che secondo lui “sui monasteri dice più di quello che potevano immaginare o intravedere Diderot e Manzoni”.

 

“Qui si svegliò il Leone ferocissimo del mio cuore, e per miracolo di Dio si compunse alquanto proponendo lasciar la sua ferocia con divenire Agnello, cambiando il suo ruggito in muto silenzio, portando il mio cuore ove Iddio lo vuole, che se egli mi meni al macello paziente vi andrò, sicut agnus ad occisionem”

“Così in santo fervore si diede principio alla nostra quaresima… trovammo in un devotissimo luogo nostro Signore in età di anni trenta, vestito come appunto andava per il mondo, stando sotto un albero mestissimo…”

La cella di Suor Crocifissa (Beata Corbera)La lettera del marzo 1675 è diretta al fratello Giuseppe Maria, chierico regolare dell’Ordine dei Teatini, poi elevato santo da Giovanni Paolo II.
Il padre, che fu poi detto il duca santo, aveva fatto edificare il monastero per lei, e vi entrarono poi altre tre sorelle e la madre.

Vincenzo SciamèPalma di MontechiaroTomasi al monastero di Palma Montechiaro

Dice Sciascia:

 

“Per due generazioni, in quella loro remota terra di Palma, i Tomasi sono stati segnati da una vocazione mistica i cui effetti – sui loro corpi, sulle loro anime – ci riempiono di spavento e di orrore più che le pagine di Sade e di Masoch. E, insieme a un sentimento di rispetto, di venerazione, un senso di orrore misto a pietà dovevano provare quei loro poveri vassalli di Palma… E tuttavia, dal loro cupo e torbido misticismo si leva un’ansiosa umiltà, una dedizione alla miseria e al dolore degli altri, una volontà d’alleviare e di servire. Il duca si scopriva il capo quando parlava con qualsiasi persona, “ancorchè menoma servente o fameglio della sua corte”. Non gradiva gli atti d’ossequio e, per dimostrarlo, una volta si mise in ginocchio di fronte a un vassallo che gli si era inginocchiato”

Lettera del diavolo La famiglia era generosissima e faceva della carità una prerogativa. Il fervore mistico di servire fu spiccato in Suor Maria Crocifissa, la quale dormiva sui sarmenti, si flagellava a sangue nella sua cella, incidendosi a sangue le carni coi nomi di Cristo e di Maria, aveva delle estasi. La visione del diavolo che la bastonava e voleva tentarla era ricorrente. Nel Monastero di Palma, dove la venerabile suora, è custodita “La lettera del diavolo”, in caratteri incomprensibili, alle cui tentazioni lei annouò di suo pugno soltanto “ohimè”. Ma quella di Palma pare proprio che sia una copia, perché l’originale si trova nell’archivio della Cattedrale, come attesta un viaggiatore francese di fine ‘800, Gastone Vuiller, il quale dice che gli fu  mostrata nella sagrestia della Cattedrale. Nel suo libro sulla Sicilia, dedicato a Giuseppe Pitrè che gliela rivelò, Vuiller  ricorda un’antica usanza di Girgenti, tramandatasi fino a non molto tempo fa:

 

“La domenica di Pasqua, mentre si celebrano gli uffizi divini, il diavolo è cacciato fuori delle case con esorcismi. I ragazzi armati d’un tralcio secco di vite, con sette nodi, battono sulle porte, sui mobili, su tutti gli utensili domestici e si picchiano anche fra di loro gridando: nesci fora, tentazioni, e trsissi Nostru Signuri”

Suor Maria Crocifissa fu dichiarata Venerabile da Pio VI, e immortalata da Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il nome di Beata Corbera nel Gattopardo. Sciascia cerca di chiarire questo cambiamento di nome da parte dello scrittore, anche con una certa similitudine ironica. Ma ci sembra che nel Gattopardo tutti i personaggi appartenenti alla sua famiglia, Tomasi li tenga ben mimetizzati, a cominciare dal Principe Fabrizio, che s’identifica nell’avo Giulio IV Lampedusa, astronomo e protagonista – come Don Fabrizio – del gran rifiuto a senatore del regno. Tomasi di Lampedusa non volle fare un romanzo di storia né un panegirico della propria famiglia. Se avesse ceduto a simile tentazione, l’opera ne avrebbe risentito alquanto e non sarebbe stata il capolavoro che è..

Giulio IV Lampedusa

PASQUA DI GEA

Taccuino di Bonn Ne La corda Pazza, in Note Pirandelliane, Leonardo Sciascia ricorda i motivi per i quali Pirandello lasciò l’Università di Roma per approdare a quella di Bonn. Nel tradurre il Miles gloriosus di Plauto, il professore di Pirandello, Onorato Occioni, rettore dell’Università, commise un errore. Luigi si diede di gomito con un prete vicino il quale ebbe l’ardire di sorridere, investito subito di vituperi dall’accademico. Pirandello si alzò in piedi e diede la spiegazione dei fatti. Lo scrittore, deferito, fu costretto a lasciare Roma e, su consiglio del professore Ernesto Monaci, che lo aveva a cuore, andò a Bonn, dove la cattedra di filologia romanza era tenuta da Foerster, amico di Monaci.

Abitazione di Pirandello a Bonn
Luigi giunse a Bonn da Roma il 10 ottobre 1889 e conseguì la laurea il 21 marzo 1891, ottenendo “summos in philosophia honores, jura et privilegia”, dissertando sul dialetto agrigentino con la tesi Laute und Lautentwichelund der Mundart von Girgenti. Gli studi a Bonn furono decisivi per Luigi Pirandello.

Università di Bonn

Diploma di laurea di PirandelloLibretto iscrizione Università
Pirandello studente a Bonn

Nella città assimilò la grande filosofia tedesca e la letteratura, in special modo Goethe, di cui tradusse l’Elegie romane (pubblicate a Roma nel 1896). A Bonn Pirandello continuò a coltivare la poesia e molti componimenti li riportava sulle lettere che inviava ai familiari. Una raccolta, composta nel periodo 1889-1890, con il nome Pasqua di Gea, pubblicata a Milano nel 1891, è dedicata a Jenny Schultz-Lander, la giovane tedesca amata nel periodo del suo soggiorno nella città tedesca.

Jenny Schultz Lander JENNY SCHULZ-LANDER, Meine liebe, süsse Freundin

Ma la Else cantata nella raccolta è una giovane amica tedesca, Anny Johanna Rissmann, morta ad appena diciotto anni di polmonite il 10 dicembre del 1889. Pirandello frequentò le due sorelle Rissmann, Mary e Anny, e la loro famiglia, una delle più ricche e rispettabili famiglie di Bonn. Le giovani erano due ragazze piene di vita, “due diavolette tutte fuoco, che mi mettono a soqquadro la mia aristocratica stanza”. La morte di Anny, come un fulmine a ciel sereno, colpì molto Pirandello, tanto da concepire un poema in suo onore. L’ispirazione e il tono della silloge sono la caducità della vita, l’invito a godere la primavera e la stagione più bella della gioventù, che si apre ai primi amori. La Pasqua è vista come periodo di transizione, come passaggio e come primavera (Gea, la terra feconda) che sempre però ritorna per continuare a vivere.

La Pasqua alma di Gea,

di Gea, unica Dea,

agli uomini risorta,

la Primavera io canto

E’ evidente la similitudine della bellezza della giovane amata con la bellezza della natura a primavera.

Chi ti vedrà passare

dirà: «Che bimba bella!

che bimba bella! pare

dei fiori la sorella…»

Una natura sacra nel suo splendore:

O glorïosa pace

de la terra, nel sole;

pace di primavera,

sacro silenzio pieno

di palpitanti foglie

Else, come Gea, è amore e sente l’amore, mentre l’innamorato capta il suo cuore:

sente la terra amore;

il palpito immortale

io sento del suo cuore.

Ma la vita umana è caduca:

La vita ha i suoi dolori,

ma nel tempo è l’oblio.

Nutrir lungo desio,

mortali, non conviene;

corta è la vita, e solo,

sol per un fil si tiene.

E proprio per questo bisogna ricordare il bello, come la genuinità del primo amore:

Ricordi quelle sere

d’aprile, e i dolci accordi

al lume de la luna,

i balli e il primo amore?

…………………

Ricordi il lieto giorno,

in cui la tua figliuola,

bella come una rosa,

venuta grande e sposa,

il genero rapí?

Il poeta invita quindi al carpe diem, prima che sopravvengano giorni tristi.

Prima che il tempo volga,

o giovini, si colga

il fior, che vivo odora.

Prima che muta e spoglia

a dormir sonni tristi

la terra si ritorni

Ma la sorte non può spezzare del tutto il legame con la primavera:

Su te, morta, e tra loro,

gli augelletti canori

s’accoglieran le sere

a riposar le penne,

e del lor mesto coro

empiran la quïete;

e di te canteranno

a le vigili stelle,

a le piante sorelle,

cui fosti sempre cara.

E tu gli augelli i fiori

cosí, penso, sarete

in una a noi non chiara

comunïon perenne.

Non gemiti, non pianti:

bella è cosí la morte.

Chi va piú a lungo avanti

esposto è sempre ai danni

d’una maligna sorte.

O tu, morta a vent’anni,

morta di primavera,

odi tu i dolci canti

degli augelli, ogni sera?

 

La morte dell’innamorata coincide con la morte della primavera:

 

I fiori

qui muojon tutti or mai;

son morti i mesi gaj,

scende fredda la sera,

ed anche tu mi muori,

estro di primavera.

 

Pirandello, a rimarcare l’eternità dell’arte e della vita, aggiunse in appendice questa chiusa. E il gran Segreto Pirandello lo conobbe, proprio nello stesso giorno e per la stessa malattia di Anny Rissmann, l’Else del poema.

 

«Eterno eterno eterno!»

susurran l’aure in torno,

quasi oppressanti. «Eterno!»

ripete il vasto Reno

fluendo senza posa.

«Eterno eterno eterno!»

chiede ogni viva cosa.

Io vo, sconvolto il seno

da un rompere improvviso

d’affetti novi, pieno

d’accese idee la mente;

non lieto, e pur ridente

di strani sogni il viso.

Dove? io non so, ma avanti –

verso la morte, forse;

forse in braccio a l’amore;

saprò forse tra poco

il gran Segreto.

 

15 sabato Mar 2008

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QUANDO LA PRIMAVERA S’AVVICINA…

PRIMAVERA Flora Non è ancora primavera conclamata, ma già si sente nell’aria l’incipiente stagione,  che Salvatore Quasimodo sapeva captare da queste parti, quand’era ragazzo – il padre era capostazione di Comitini, poco distante da Agrigento -.

 Maestro Vincenzo Sciamè

Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul fosso.
E tutto sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.

 
Accenti d’autentica effusione lirica, che gli fecero anche dire in “Quasi un madrigale”:

…………………………………………….

Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.

…………………………………………….

Riccobono2Questa vena introspettiva riesce ad evidenziare la stupefatta meraviglia dell’io, di fronte alla bellezza della natura e all’amore per la vita, con la constatazione però che tutto ha un epilogo. Lo stesso atteggiamento ambivalente echeggia nella quarta ode – libro primo – di Orazio, laddove il poeta latino nota questo passaggio “prodigioso” di stagione:

Solvitur hiems grata vice veris et Favoni
(Si scioglie l’aspro inverno alla grata vicenda della primavera)

 

Orazio, poeta LatinoLa gioia e l’apprezzamento della nuova stagione è occasione anche per il cambiamento esteriore:

 

Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto
aut flore, terrae quem ferunt solutae;

(Ora è bello cingere il capo nitido di verde
mirto o di fiori sbocciati dalle chiuse zolle😉

 

Ma Orazio avverte il felice Sestio che breve è la stagione umana e che di fronte alla morte si è tutti uguali:

 

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas
regumque turris. O beate Sesti,
vitae summa brevis spem noc vetat inchoare longam;

(La pallida Morte batte con piede uguale le povere capanne
e le torri dei re. O mio felice Sestio,
il breve corso della vita vieta lunghe speranze.
)

Questo contrasto, forse categoria dell’animo umano, sembra un modo di sentire comune a tutti gli uomini. Negli artisti e nei poeti diventa gioia incontenibile celebrare sempre la “creazione” artistica, come momento irripetibile e per ciascuno eterno, ma c’è anche una sorta di chiaroveggenza della limitatezza del viaggio umano, così come cantò Empedocle on versi sublimi:

Solo una parte della vita
che non è vita
vedono gli uomini:
condannati a pronta morte
si dileguano come fumo.

Però la regressione all’infanzia, le piccole cose dell’esistenza quotidiana, i nonnulla della vita, a volte possono ispirare i pittori, i quali sono sognatori per eccellenza.
Per il neo espressionista pittore agrigentino, Rino Pony  – anche musicista di blues e da poco riscoperto attore – la vita assomiglia a un veliero, che non si sa se stia partendo, sia in navigazione o se ne stia ancorato in un porto. La vita è un viaggio – questo solo si può cogliere da questo quadro – e la vicenda umana, per quanto felice, è destinata ineluttabilmente a concludersi.

Rino Pony, pittore naifTuttavia, la vita merita di essere vissuta fino in fondo, assaporandola in pieno, anche se con il rammarico di dover lasciare tutto, così come Pony rappresenta in questa pensosa poesia.

                

Rino Pony, pittore NaifM ´ ASSETTU E PENSU
          

M´ assettu e pensu
`ncapu a na petra russa do me` paisi.

m ´assettu e sentu
u ciavuru da me` terra comu na vota,

m´ assettu e dicu
chi biddizzi ca avi stu mari,
chi splinduri ca avi stu suli .

M´ assettu e pensu
accussi` senza sensu,

m´assettu stancu
cu u cori `nmanu rammaricatu,
picchi` sacciu ca sta petra haia a lassari
e n´ avutra mi n´haia ghiri a truvari.

  


SIEDO E PENSO

Siedo e penso
sopra una pietra rossa del mio paese.

 Siedo e sento
il profumo della mia terra come una volta

 Siedo e dico
che bellezze ha questo mare
che splendore ha questo sole

 Siedo e penso
così, senza senso
con il cuore in mano, rammaricato
perché so che questa pietra devo lasciare
e un’altra me ne devo andare a trovare.

 Rino Pony

 

 PIRANDELLO E LA PRIMAVERA

Pirandello nel suo studio
Nello studio in cui se ne stava rintanato, Luigi Pirandello sentiva sempre irrompere la primavera. Dopo aver aperto le finestre e indugiato a dare un lungo sguardo al panorama che aveva di fronte, ritornava al lavoro consueto. La sua natura solitaria e schiva, ma introspettiva, gli permetteva di catturare tutte le sottigliezze: le cose che si fanno istintivamente, i minimi cambiamenti, i cicli, i mutamenti e i ritmi della natura. L’arrivo della primavera, un evento che si ripete ogni anno, che passa ai più inosservato pur consumandosi in un arco di diversi giorni, più o meno lunghi, gli fece concepire una novella, intitolata “Filo d’aria”.

Maestro Toto Cacciato, AgrigentoEssere nella vita e non accorgersene è questo il tema essenziale del racconto, in cui i protagonisti vivono la loro vita inconsapevolmente, con il ritmo e le abitudini routinarie di tutti i giorni, senza porre mente ai piccoli eventi, anche impercettibili, che si verificano. Una nipotina, il padre e la madre, e una servetta, che assiste un vecchio, ammalato di idropisia e quasi moribondo, costretto all’immobilità in un seggiolone, si preoccupano di organizzare e standardizzare la sua vita. Loro, “che sono dentro la vita”, non si rendono conto dei minimi particolari, che invece possono essere importanti e determinanti per chi, come il nonno, dalla vita, dalla loro vita, è escluso.

“Soltanto, ma proprio appena, egli poteva ancora tentare di muovere una mano, la sinistra, dopo essersela guardata a lungo, con quegli occhi, quasi a infonderle il movimento. Lo sforzo di volontà, arrivato al polso, riusciva a stento a sollevare un poco dalle coperte quella mano; ma durava un attimo;  la mano ricadeva inerte. Il vecchio s’ostinava di continuo in quell’esercizio di volontà, perché quel lieve moto momentaneo, ch’egli poteva ancor trarre dal corpo, era per lui la vita, tutta quanta la vita, in cui tutti gli altri si muovevano liberamente, a cui gli altri partecipavano interi, a cui ancora poteva partecipare anche lui, ma ecco: per quel tanto e non più.”

 Questa situazione determina un’incomunicabilità radicale e un odio viscerale del vecchio nei confronti dei familiari, che, presi dalle loro occupazioni e dal fluire della vita, non ne rilevano i bisogni.

 Qualche cosa era accaduta, o doveva accadere quel giorno, che volevano tenergli nascosta. Ma che cosa?

S’erano appropriato il mondo, figlio, nuora e nipotina; il mondo  creato da lui, in cui li aveva messi. Non solo; ma anche il tempo s’erano appropriati, come se ancora nel tempo non ci fosse anche lui! Come se non fosse anche suo, il tempo, non lo vedesse, non lo respirasse, non lo pensasse anche lui! Egli respirava ancora, vedeva tutto e più, più di loro vedeva, e pensava tutto!

L’impotenza e l’isolamento fanno credere al vecchio che non vi sia comunione di vita, di pensieri, di sentimenti con quell’unico figlio. Il vecchio non riesce neanche a spiegarsi il sospiro inconsapevole della servetta che lo accudisce e il compiacimento per i suoi capelli della nuora, fatti che per lui sottendono una novità, che gli altri gli vogliono celare. La risposta però gli arriva tutt’a un tratto dal balcone, che si schiude piano piano, un poco, a un filo d’aria, perché la nipotina, in mattinata, aveva lasciato la maniglia girata.
Il vecchio sente, improvvisamente, tutta la stanza riempirsi di un delizioso inebriante profumo che sale dai giardini. E’ allora che il vecchio si spiega perché la sua vita non può saldarsi a quella degli altri, che scorre su altri binari.

 Maestro Toto Cacciato, Agrigento

“Gli altri non potevano vederlo, non potevano sentirlo in sé, gli altri, perché erano ancora dentro la vita. Egli, che ormai n’era quasi fuori, egli lo aveva veduto, egli lo aveva sentito in loro. Ecco, ecco perché, quella mattina, la bimba non tremava soltanto, ma fremeva tutta; ecco perché la nuora rideva e si compiaceva tanto dei suoi capelli; ecco perché sospirava quella servetta; ecco perché tutti avevano quell’aria insolita e nuova, senza saperlo. Era entrata la primavera.”

Un filo d’aria, muovere un dito, per lui è tutto; è sentirsi agganciato alla vita, anche se per poco: cose che si possono soltanto sentire quando si è ormai all’uscita.

 

 

 

 

 

08 sabato Mar 2008

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8 MARZO

 L’URLO DI LIBERTA’ DELLE DONNE Sebastiano Liistro, L

L’ESEMPIO DI SAN GIOVANNI DI DIO

San Giovanni di Dio Ricorrono oggi due celebrazioni: la Festa delle donne e l’anniversario della morte di San Giovanni di Dio, il Santo portoghese, famoso in tutto il mondo, celebrato nel calendario della Chiesa. Due eventi di natura diversa, il primo diventato festa di massa (ma da ricordare adeguatamente e diversamente per non inquinarne il valore), il secondo meno popolare, eppure di largo impatto, se si pensa alla Regola dei Fatebenefratelli, fondata dal santo portoghese, e alla istituzione di Ospedali e di altre strutture di solidarietà esistenti in tutto il mondo. La solidarietà nei confronti delle donne e delle loro lotte, per l’effettiva acquisizione della parità nella odierna società, impongono riflessioni e ripensamenti profondi nell’organizzazione sociale, votata più che mai alla conservazione entropica deIle istituzioni e delle strutture manageriali, a tutti i livelli.
Viviamo nell’era dell’incertezza e della complessità, fomentata dalla paura di un potere, che sempre più si arrocca, che si riproduce ineluttabilmente, malgrado l’apparenza del cambiamento, dove l’inserimento e la libertà piena della donna sembrano lungi dall’essere realizzati. La donna è ancora oggetto di discriminazione, di sfruttamento, di strumentalizzazione e la caccia alle streghe è ancora immanente, pervicace, assai più pericolosa, perché strisciante. E’ una società che ha ancora paura della forza dirompente che la donna rappresenta per una società che vuole mantenere “il governo delle operazioni” e la logica disumana del mercantilismo più dispotico. Ci sono ancora margini di costruzione di libertà effettive, di senso, di comunicazione, di comunità, di tolleranza?

Siamo in pieno conflitto per l’avvento di una nuova era, in cui possa prevalere la bellezza dell’ “anima mundi”, come espressione naturale da assecondare e quale realizzazione di umanità. Il cambiamento non è mai quello preconizzato dal potere, di alternanza delle persone alla guida dell’organizzazione, ma deve costituire un nuovo modo epocale di essere, un ripensamento di mentalità nel dare nuovi assetti all’organizzazione, nel cogliere e soddisfare i bisogni autentici dell’uomo: insomma un nuovo rinascimento o un nuovo illuminismo. La donna, in tal senso, forse è la prima che potrà dare un contributo essenziale e determinante.

 

ISPIRAZIONI FEMMINILI:
LE DONNE E PIRANDELLO

Pirandello L’opera di Pirandello esalta assai spesso il ruolo e la condizione della donna. C’è già in Pirandello, allo stato nascente della sua arte, un’ispirazione profonda ad informarsi al basilare rapporto uomo-donna, nascita-morte, essere-divenire, che si sottende e si stende secondo un canovaccio ben collaudato. Basti pensare ai romanzi L’esclusa e a Suo marito. In effetti, sembra proprio che le concezioni pirandelliane sembrano scaturire da un’anima femminile, come se lo scrittore avesse trovato linfa e spessore in un vissuto ben assimilato. Nei personaggi femminili pirandelliani emergono caratteri, espressioni, modi di essere delle donne che lo hanno circondato. In primo luogo, la madre Caterina Ricci Gramitto con le sue storie, i suoi racconti, la sua fantasia, la pervicacia, il suo orgoglio patriottico e quasi viscerale, inculcò e suscitò in lui la voglia di esprimersi artisticamente. Leggendo l’epistolario pirandelliano (da Palermo, da Roma, da Bonn), si evidenzia il rapporto costante dello scrittore con la famiglia, che viene  informata quasi con metodo sulle sue aspirazioni, sul suo itinerario, mediante invio di composizioni, tracciando idee di opere e fornendo interessanti indicazioni del suo ricco laboratorio artistico.
Tale partecipazione spinse lo scrittore a concepire, quasi gli fossero stati caldeggiati,  carmi dedicati alle sorelle, in occasione del loro matrimonio. Rosolina, primogenita, era un preciso punto di riferimento e, addirittura, avrebbe voluto seguire il fratello a Roma, per potere sviluppare le sue doti di pittrice e inserirsi nel mondo culturale della capitale del Regno, impeditane però dal padre. La sorella più piccola, Annetta, era quella alla quale lo scrittore inviava dettagliati resoconti di opere e di scrittori. Annetta partecipava a riunioni e salotti letterari femminili di Girgenti, dove relazionava sugli scrittori e poeti europei. Per certi versi, l’interesse di Annetta costituì per Pirandello uno stimolo non indifferente per costruire il personaggio femminile di Silvia Roncella. Vero è che nel personaggio di Silvia viene rappresentata Grazia Deledda, ma il sorgere del suo magistero artistico è da rinvenire nelle aspirazioni di una donna che si accosta al mondo letterario per caso, dall’esterno e ne rimane presa, così come avvenne per Annetta, anche se il suo sogno non si realizzò mai.

Jenny Schultz Lander

L’amore di Jenny Schultz Lander, conosciuta a Bonn in un ballo di Carnevale, fu di grande stimolo allo scrittore. Durante il periodo della sua formazione tedesca, decisiva per la sua vocazione letteraria, Pirandello era ancora legato come promesso sposo alla cugina Rosalia, chiamata Linuccia, per distinguerla dalla sorella Rosolina, chiamata in famiglia Lina. Diversamente dalla cugina, Jenny era una donna magnanima, che non ebbe eccessive pretese sul cuore di Pirandello; lo lasciò libero di scegliere, perché capì che il genio non si può imbrigliare. Questo rapporto intenso e così spirituale diede allo scrittore linfa ulteriore ad approfondire le sue tematiche, soprattutto a contatto con la grande filosofia tedesca, in un ambiente cosmopolita e in una città a misura d’uomo.

Antonietta Portulano, moglie di PirandelloLa moglie Antonietta Portulano credeva nella grandezza letteraria di Luigi Pirandello. Nei primi tempi si sacrificò moltissimo, permettendo allo scrittore di isolarsi nel suo laboratorio e di dedicarsi ai rapporti esterni nei salotti letterari, dai quali lei si sentiva irrimediabilmente tagliata fuori. Ma il peso della cura di tre figli e la malattia di nervi, che sarebbe poi esplosa in maniera conclamata, la portarono successivamente a recriminazioni, che incancrenirono il rapporto di coppia, cui diede il colpo di grazia il tracollo della miniera, nella quale il padre dello scrittore aveva investito tutta la dote della nuora.

Pirandello e la figlia lietta
L’amore per la sfortunata figlia Lietta, che tentò il suicidio a seguito di pesanti accuse della madre e che successivamente pagò il prezzo della lontananza e il peso di un matrimonio infelice, fecero tratteggiare a Pirandello personaggi femminili delicati, venati da inquietudine interiore di fondo. Così scriveva Pirandello alla figlia, a Buenos Ayres:

 
“La casa mi par vuota come la vita mia. Bisogna che tu ritorni, che tu ritorni presto Lillinetta mia piccola bella; se no, Papà tuo morrà d’angoscia.”

 

Marta AbbaL’incontro tra Pirandello e Marta Abba avvenne nel febbraio del 1925 al Teatro Odescalchi, teatro dell’Arte, per il quale l’attrice firmò il contratto, instaurando un rapporto fecondo, tale da farla divenire la migliore interprete della drammaturgia pirandelliana.

“E’ giovanissima e di meravigliosa bellezza. Capelli fulvi, ricciuti, pettinati alla greca. La bocca ha spesso un atteggiamento doloroso, come se la vita di solito le desse una sdegnosa amarezza…”

Molte commedie furono scritte dal drammaturgo appositamente per lei. Molto si è parlato del rapporto d’amore tra Pirandello e Abba. Sono fiorite molte fantasie, illazioni, forse leggende. Certamente c’era un rapporto molto intenso e l’arte ne era un legame profondo. Il sodalizio Pirandello-Abba fu irripetibile e il più fecondo per il teatro italiano, anzi mondiale, del novecento.

Marta Abba al Tempio della Concordia 

LE FIGLIE DELLA CARITA’

Le figlie della Carità Una novella di Pirandello, intitolata “Ignare”, esalta il sacrificio delle Figlie della Carità, la congregazione di suore che vennero a Girgenti da Napoli, nel 1867, proprio nell’anno in cui nacque lo scrittore. Il padre di Pirandello, Stefano, s’era ammalato di colera ed era stato curato e salvato dal male presso l’Ospedale di Agrigento, dove operavano le suore, chiamate “Cornette”, per via del copricapo caratteristico che portavano.

“Sotto le ampie cornette oscillanti erano vestite tutte e tre d’abiti nuovi, ma troppo larghi per il loro corpo già esile e ora più che mai assottigliato dalle sofferenze” (Ignare, Luigi Pirandello, novella).

Nel racconto, si narra la vicenda di tre suore, stuprate durante l’insurrezione di Candia (Creta), contro i turchi nel 1867,  evento che tanto scalpore destò allora nel mondo e armò aiuti militari.
L’episodio narrato da Pirandello è probabile che gli sia stato riferito dai genitori o dagli zii ed è documentato dall’appello del 10 febbraio del 1867 (sul giornale “Il rompicollo”) da parte dei “Discepoli di Dante” di Girgenti, ai concittadini ad inviare aiuti e contributi per sostenere la lotta contro i Turchi. Pirandello si dimostra un grande maestro nel narrare le violenze all’innocenza delle tre suore e la loro vicenda umana e psicologica nel dover scoprire che partoriranno il frutto di tale violenza.

Maria Ventura, L

“All’orrore delle ferite aperte dal ferro nelle loro carni rispondeva l’orrore più grande di un’altra ferita insanabile, per cui più del corpo la loro anima aveva sanguinato.”

“Prima di partire, avevano veduti i vecchi abiti, coi quali erano arrivate, ferite e morenti, da Candia. Stinti, strappati, macchiati di sangue, avevano suscitato in loro quello sgomento e quel ribrezzo che si prova per gli oggetti appartenuti a qualcuno tragicamente morto”

Una delle tre suore muore di parto e un’altra decide di tenere il figlio della consorella e di allevarlo insieme con il proprio. E’ una novella modernissima, antesignana della realtà attuale, più o meno recente, che fa riflettere per l’alto tasso di drammaticità: solo la penna di Pirandello poteva riuscirci.
Le Figlie della Carità – risulta  dai documenti – si distinsero per la loro abnegazione, a Girgenti e in tutta la Sicilia, durante l’imperversare del colera, sicuramente importato da una nave proveniente dall’Oriente. La presenza della Casa Provinciale di Agrigento è attestata in documenti autentici e, addirittura, in una nota si parla pure di un Ospedale di San Giovanni di Dio, fondato nel 1869. Un’intitolazione che fu attuata stranamente soltanto cento anni dopo.

 Nota archivio Figlie della Carità


SAN GIOVANNI DIO
DA MERCENARIO A SOLDATO DI CRISTO

 

San Giovanni di Dio“Ch’io fossi e chi fossero i miei genitori nessuno lo sapeva e quei pochi, che conoscevano il mio nome, mi chiamarono  Giovanni di Dio.” (Ubaldo Riccobono, Una contrada chiamata Consolida, romanzo)

Il portoghese Juan Ciudad (1495-1550), prima di dedicarsi ad opere di solidarietà e di procedere alla fondazione dell’ospedale di Granada, fu avventuriero e viaggiatore senza fissa dimora. A otto anni scappò di casa per seguire dei nomadi; poi fu al servizio nella guardia di Fuenterrabia, agli ordini di un certo Francisco Majoral, che lo trattò come un figlio. Divenne soldato di ventura e girò l’Europa: combattè contro i francesi e, in Austria, contro i turchi. Rientrato in Spagna a La Coruña, “dopo anni di ottundimento del cuore e della mente”, sentì forte nostalgia della casa paterna, facendo ritorno al paese natio. Ma i genitori erano già morti entrambi, per il dolore della sua fuga. Quindi riprese a viaggiare, facendo vari mestieri, prima di stabilirsi a Granada, dove impiantò una libreria. Fu folgorato dalle prediche di Giovanni d’Avila, vendè tutto e se ne andò a mendicare per le strade di Granada. Avendolo preso per pazzo e visionario. le autorità lo rinchiusero in manicomio. Ebbe a scoprire, così, cosa significasse un ospedale per dementi e, uscitone fuori, decise di fondarne uno con criteri di gestione e di organizzazione moderni. I finanziamenti iniziali furono le questue che egli e i suoi confratelli chiedevano ai passanti con voce cortese, con queste parole:”Fate bene fratelli, a voi stessi per amor di Dio.”

In seguito, lasciato il primo ospedale, ne fondò un altro molto più grande, che fu distrutto  da un grandissimo incendio. A rischio della vita, riuscì a salvare, con i suoi confratelli, tutti i degenti. Ricostruitolo, fondò l’Ordine mendicante dei Fatebenefratelli, che oggi conta nei cinque continenti circa 400 opere assistenziali. Caratteristiche dell’Ordine non monastico, oltre alla povertà, alla castità e all’obbedienza, sono l’ospitalità, l’accoglienza, l’umanizzazione dell’assistenza. Valori questi ultimi da sempre espressi e difesi, soprattutto dalla donna.
Non a caso San Giovanni di Dio aveva affermato:

 In quel manicomio, che assomigliava alla Geenna, ebbi nodo di scoprire che cosa volesse dire un ospedale di allora, specialmente quello in cui si curavano i dementi. Non vi era rispetto per l’uomo, le condizioni igieniche erano inverosimili, i malati erano considerati dei reclusi, persone abiette, da tenere in catene… Individuai i veri mali, che consistevano soprattutto nell’assenza di cura dello spirito, che doveva essere la premessa della cura del corpo.” (Una contrada chiamata Consolida, Ubaldo Riccobono, romanzo).

 Logo dellNon si conosce l’origine esatta del nome dato all’Ospedale di Agrigento, ma il nesso tra l’arrivo delle Figlie della Carità, provenienti originiaramente dalla Francia, e San Giovanni di Dio appare evidente. Questo vincolo di solidarietà assistenziale e umana è stato espresso nel Logo creato, in occasione dell’apertura recente del nuovo ospedale, da Vincenzo Peritore, un valente grafico, con la rappresentazione emblematica del fiore-pianta, la Consolida, che dà nome alla contrada, dove sorge la nuova struttura ospedaliera. In questo connubio si salda l’intreccio forte della pianta-fiore salutare con la sigla SGD (San Giovanni di Dio).
La solidarietà è un caposaldo del decalogo dei Fatebenefratelli, e nell’Ospedale di Agrigento tale concetto si è integrato con l’obiettivo di assistenza delle suore infermiere delle Figlie della Carità, che vi operano da oltre 140 anni ed hanno espresso, come valore simbolico, Suor Caterina Capitani, già Madre Superiora dell’Ospedale, miracolata da papa Giovanni Paolo II e testimone nel suo processo di canonizzazione. Suor Caterina si è spesa a costo della sua salute e si continua a spendere tuttora in un centro di assistenza per i malati di AIDS a Capodimonte.

Suor Caterina Capitani


RICORDO DI UNA CUGINA

Maria Troýa RiccobonoLa concretezza e la fantasia della donna  sono motori fondamentali per la vita di individui e gruppi, sono fonti di stimolazione e di consolazione, sono origine di speranze ed energie, sono stimolo per innovare e sostegno per continuare, a patto che non vengano soffocate, depistate, represse, strumentalizzate. A tutti i livelli la donna sta cercando di crearsi spazi ed opportunità, con grande fatica, ma con pervicacia. Bisogna valorizzarne e assecondarne lo sforzo, perché è soltanto con la donna che può essere operato il salto di qualità. Sarà forse un percorso lungo, perché le forze della reazione sono sempre in agguato, pronte a mascherarsi in mille modi. In questo giorno dedicato alla donna, desidero ricordare il piccolo contributo di una mia cugina, Maria Troýa Riccobono, venuta a mancare nel mese di febbraio. Una donna, la cui bellezza interiore traluceva nei suoi occhi chiari, una donna ricca di vitalità, pronta all’incoraggiamento dei suoi simili, che ha saputo stringere i denti nell’aiuto alla madre e ai fratelli e alla gente, soprattutto, quand’era ancora ragazza, nel periodo duro della seconda guerra mondiale. Non era una letterata, né aveva fatto studi superiori, ma era di pensieri trasparenti e cercava di donare le sue parole con umiltà, come tante donne fanno in silenzio, per comunicare e accogliere, comprendersi e comprendere. Aveva talora sottili accenni umoristici, e una fede incrollabile nei valori umani e femminili.


Chista è la fidi

Granni fidi è:
(Una grande fede è)

profumatu ciuri
(profumato fiore) 

ca si chiama primu amuri
(che si chiama primo amore) 

donu priziusu ca cuncedi lu Signuri
(dono prezioso che concede il Signore) 

pianta miravigghiusa e dilicata
(pianta meravigliosa e delicata)

 nun cridiri ca si trova a ogni angulu di strata.
(non credere di trovarla ad ogni angolo di strada).

 Sta’ pianta nun la teniri sulu pri tia, ‘nta lu to cori,
(Questa pianta non tenerla solo per te, nel tuo cuore,)

 falla atticchiri nu’ cori di li to frati,
(falla attecchire nel cuore del tuo fratello)

 unni ti trovi trovi.
(laddove ti trovi)

 Di principiu sta’ pianticedda pò siccari
(All’inizio la fragile pianta può appassire)

 isa l’occhi a lu celu e mettiti a priari.
(alza gli occhi al Cielo e mettiti a pregare)

 Si la travolgi lu ventu a tramuntana e s’annaculia
(Se un vento freddo  la travolge e oscilla,)

 abbivirala con acqua pura di surgenti,
(innaffiala con acqua pura di sorgente)

 chidda ca lu  Signuri detti puru a tia
  (quella che il Signore ha dato pure a te)

 acqua miraculusa ca fa crisciri a dismisura
(acqua miracolosa che fa crescere a dismisura)

 e quannu menu t’aspetti duna ciuritura.
(e, quando meno te l’aspetti, fiorisce.)

 Si la chiantasti in tirrenu aridu comu disertu
(Se l’hai interrata in terreno arido come deserto)

 e un filu d’erba nun si viri
(e non si vede filo d’erba)

 nun ti scuraggiari, curala, cu’ tempu pigghia forza  e crisci
(non ti scoraggiare, curala, con il tempo prenderà forza e crescerà.)

{Chista è la fidi.
(Questa è la fede.)

 
A me niputi

 Hàiu ‘na niputi tantu ‘ntelligenti e spiciusa
(Ho una nipote intelligente e speciale)

 bedda di facci e di cori amurusa
(di bella faccia e di cuore amorosa,)

 duci comu ’na picciridda
(dolce come una bambina)

 ma scattiusa comu ‘n’ancidda.
(ma riottosa come un’anguilla.)

 Fa’ milli cosi beddi e ama l’arti;
(Fa mille cose belle e ama l’arte;)

 nun è ‘mprissioni mia, è rialtà di fatti.
(non è impressione mia, è realtà di fatto.)

 Travagghia forti, fa la dintista,
(Lavora molto, fa la dentista:)

 conza li denti e puru qualchi testa.
(aggiusta i denti, ma pure qualche testa.)

 Fa turnari beddu lu surrisu
(Fa tornare bello il sorriso)

 pricchì, viditi, la dintatura hà lu so pisu:
(perché, vedete, la dentatura ha il suo peso:)

 a ‘na vecchia assai sdintata
(una vecchia sdentata)

 chidda la fa diventari ‘ggrazziata
(la fa diventare aggraziata.)

 Biniditti li ginituri ca ficiru sta’ figghia,
(Benedetti i genitori che hanno fatto questa figlia,)

 unni si metti metti, è ‘na miravigghia
(dove la metti metti è una meraviglia:)

 hà sfaccettaturi di la petra diamantina
(ha sfaccettature di pietra diamantina,)

 nun pri nnenti si chiama Caterina.
(non per niente si chiama Caterina.)

 
Il matrimonio

 Il matrimonio è come un bel vestito,
bello di colore e ben cucito;
può essere un po’ largo o un po’ stretto,
ma se ben portato, sarà perfetto

 Se lo teniamo lindo, non macchiato,
diran tutti: che matrimonio riuscito!
Ma non sanno che la polvere si tien lontano
tenendo costantemente la spazzola in mano.

 Se poi di proposito ci vien strappato
da noi vien tosto ricucito:
quando il lavoro ad arte vien fatto
con pazienza e con amor ritorna intatto

 Poi, se il tempo l’ha proprio logorato
come rimedio estremo va tutto rivoltato;
farà ancora la sua bella figura
e nessuno noterà i segni dell’usura

 Ma se è di stoffa buona e ben curato
per sempre ti darà buon risultato
chi cambia invece ad ogni batter di ciglio,
chiaramente fa: uno lascio e uno piglio.

 Tu, uomo, che non convinto mi ascolti
sappi che la vita ha i suoi risvolti
non scambiare il tuo vestito con uno pregiato
tieniti il tuo conosciuto, vecchio e amato
che con ogni tempo ti ha servito  e ti ha scaldato.

Non fantasticare, non cambiare look:
conserva il tuo, se puoi, è sempre chic.

Maria Troýa Riccobono


IL PAESE DELLE DONNE

 Il paese delle donne

Il paese delle donne è un libro assai singolare e autobiografico, scritto dalla cinese Yang Erche Namu con l’aiuto dell’antropologa parigina Christine Mathieu, che narra la vita dei Moso, una società matriarcale dell’estrema Cina, ai confini del mondo, nel cuore dell’Himalaya. Si tratta di una società che ha affidato da sempre le sorti del popolo alle donne, che lo reggono con criteri di comunione non codificata, ma basata sul carisma della discendenza femminile della famiglia. Un mondo diverso da quello patriarcale, senza le caratteristiche di esasperazione di “potere”. In questo mondo, ai margini del mondo, s’innesta il desiderio della scrittrice, che sogna di diventare cantante, riuscendovi e trasferendosi a Pechino. Dal 1990 a San Francisco, Namu ha fatto la cantante e la fotomodella e vive, con il marito diplomatico, tra San Francisco, Ginevra e Pechino.
Namu non rinnega le sue radici ed è orgogliosa di ritrovare nel rapporto con la madre quell’antica saggezza del popolo, ancora non contaminata dalla società del terzo millennio.

“I Moso dicono che il futuro è dietro di noi e che il passato ci sta di fronte. Con questo intendono dire che, poiché il passato è ciò che conosciamo, si trova sotto i nostri occhi, mentre il futuro che non può essere percepito si trova invece dietro le nostre spalle.”

(Ubaldo Riccobono, tutti i diritti riservati)

 

 

01 sabato Mar 2008

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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Tag

agrigento, akragas, arte e cultura, empedocle, letteratura - articoli, musei, pirandello, pittura, poesia, sciascia

ARTE E CULTURA
ALLA CASA NATALE DI PIRANDELLO

 Casa Natale di Pirandello oggi

La Casa Natale del Premio Nobel Luigi Pirandello è un contenitore d’arte eccezionale, che si presta moltissimo alla fruizione dei visitatori, inserita com’è in un contesto naturale unico.
Qui mosse i primi passi lo scrittore, come ricorda  nella sua poesia:

 

“Casa romita in mezzo a la natia

campagna, aerea qui, su l’altipiano

d’azzurre argille, a cui sommesso invia

fervor di spume il mare aspro africano,

te sempre vedo, sempre, da lontano,

se penso al punto in cui la vita mia

s’aprì piccola al mondo immenso e vano:

da qui – dico – da qui presi la via.

Da questo sentieruolo tra gli olivi,

di mentastro, di salvie profumato,

m’incamminai pe‘l mondo, ignaro e franco.

E tanto e tanto, o fiorellini schivi

tra l’erma siepe, tanto ho camminato

per ricondurmi a voi, deluso e stanco”

 
Qui Luigi, la sorella Rosolina e il fratello Innocenzo fecero le prime esperienze pittoriche e, a volte, Lina e Luigi gareggiavano. Rosolina amava riprendere il paesaggio del Caos e della marina di Porto Empedocle:

 Casa Natale di Pirandello

                                       Rosolina Pirandello, La casa Natale

La marina di P.Empedocle e il CaosRosolina Pirandello, Marina di P.Empedocle

Luigi Pirandello, non solo si cimentava nella pittura, ma si dilettava anche a disegnare familiari,  amici o personaggi del suo microcosmo che riuscivano ad ispirarne la scrittura, come nel caso di Gaetano Navarra, personaggio di Tano il Monaco nel romanzo I vecchi e i giovani.

 Caricamento dello zolfo

Luigi Pirandello, Caricamento dello zolfo a P.Empedocle

Lo zio Rocco Ricci GramittoPirandello, Foto dello zio Rocco

Luigi Pirandello,  Lo zio Rocco (a destra foto)

Pirandello Innocenzo

Pirandello Innocenzo, foto Luigi Pirandello, Il fratello Innocenzo (a destra foto)

Luigi Pirandello, pittoreLuigi Pirandello, Tano il Monaco e la luna

Aveva un tocco di mano rapido ed essenziale che gli fece eseguire interessanti autoritratti, che per certi versi ricordano quelli di Van Gogh.

 Pirandello autoritratto 1

Pirandello autoritratto 2 Luigi Pirandello, Autoritratti

Il fratello Innocenzo, che dipingeva episodicamente, affrescò una sopraporta, che tuttora si può ammirare all’interno della Casa Natale.

 Casa Natale Pirandello, sovraporta

                                             Innocenzo Pirandello, Affresco sovraporta Casa Natale

La casa Natale si poteva considerare un culto di tutta la famiglia Pirandello, che d’estate vi veniva sempre a soggiornare. Al Caos s’erano conosciuti lo scrittore e la moglie Antonietta Portulano, in un incontro suscitato dalle rispettive famiglie, così come rievoca uno schizzo di Calogero De Castro, il cognato di Pirandello, marito della sorella Rosolina. La carrozza con  Calogero Portulano e la figlia Antonietta era arrivata sullo stradone dove se ne stavano a passeggiare Luigi e il padre Stefano. Il matrimonio, però, si concluse con la pazzia della moglie Antonietta e il suo internamento in una casa di cura romana.

Casa Natale di Luigi Pirandello Calogero De Castro, disegno del Caos


Lo scrittore era legatissimo alla Casa Natale, dove peraltro aveva trascorso la luna di miele con Antonietta, e vi ritornava spesso.

Pirandello alla sua Casa Natale Pirandello alla Casa Natale


Ritorno
 

Ecco la casa antica, ecco il terrazzo,

cassero d’una nave a cui volgeva

prospera allora e lieta la fortuna.

Ero ragazzo,

e di lì m’affacciavo a rimirare,

con una vaga idea

del mondo e della vita, a lungo il mare

e questa dolce luna

che, come allora, un palpito v’accende

d’innumeri faville ed un solingo

grillo ne la scogliera

desta, il cui canto vince il borboglio

continuo di tutta la riviera…

 

Architetto Calogero CarboneL’architetto Calogero Carbone, Direttore della Biblioteca Museo Regionale “Luigi Pirandello”, in collaborazione  con il Centro studi Erato ha organizzato il progetto “Raccontare per immagini – Arte contemporanea nei luoghi di Pirandello”, allo scopo non solo di richiamare la vocazione pittorica di tutta la famiglia Pirandello  – anche Fausto, il figlio di Luigi, fu pittore apprezzatissimo in tutto il mondo e il più valente della famiglia -, ma anche per arricchire la fruizione dei visitatori che vengono da tutte le parti del mondo a visitare la Casa Natale del Premio Nobel. Lo scopo è quello di vivacizzare i luoghi pirandelliani con eventi di spessore, che possano durare tutto l’anno. Il vernissage di questa iniziativa, che sarà realizzata in sei momenti, si è tenuto ieri con la personale di Pasquale Vinciguerra, un artista autodidatta che opera da oltre trent’anni nel campo della pittura e che propone le sue opere più recenti, iniziando un nuovo ciclo pittorico, da lui definito “arte speculare”. Le opere rimarranno in mostra fino al 30 marzo.

 

PASQUALE VINCIGUERRA
DAL SIMULTANEISMO ANALITICO
ALLA PITTURA SPECULARE

Il pittore Pasquale Vinciguerra Pasquale Vinciguerra, nativo di Palma di Montechiaro, ma operante nel capoluogo, con la sua nuova proposta artistica lascia la sua prima esperienza pittorica, designata con il nome di “Simultaneismo Analitico”, per proporre un nuovo ciclo artistico, definito da alcuni critici “equilibri di forme inconsuete”  e dallo stesso autore “arte speculare”. In verità, anche se egli passa dal figurativo al più puro astrattismo, la tendenza al messaggio introspettivo, simbolico e “religioso” non viene meno. L’ordine, anche se dissecato, è pur sempre la sua impronta precipua, un ordine che vuol far meditare attraverso simmetrie, geometrie, distribuzioni volumetriche di forme, con variabilità cromatiche disparate, che però compongono un unicum gradevole come l’opera di un demiurgo. Nella prima fase del Simultaneismo Analitico, Vinciguerra riesce ad esprimere la scomposizione dell’io, evidenziando il lato psicologico della forma estetica. La psicologia del profondo emerge dal rapporto uomo-donna, sorriso-pianto, giovane-vecchio, essere-dover essere, in una dualità, la cui cifra artistica si esprime in una divisione di spazi e di colori nelle figurazioni.

 Modigliani

Pasquale Vinciguerra, Modigliani

Giorgio De chirico

Pasquale Vinciguerra,  De Chirico

Pablo Picasso

Pasquale Vinciguerra,  Pablo Picasso

La Gioconda e Freud

Pasquale Vinciguerra, Freud e Leonardo

Ritratto di Leonardo

Pasquale Vinciguerra,  La Gioconda-Leonardo

C. Koll e A. HopkinsLeonardo e Monet


                       C.Koll-A.Hopkins                                                                        Monet-Leonardo


In questo nuovo modo artistico, Vinciguerra, servendosi di oggetti di consumo o residuati industriali, riproduce forme, che destano ritmi e movimenti inconsueti, ma con tale alternanza spaziale da far percepire una visione concettuale e religiosa, se non metafisica. Un’arte nuova che si arricchisce di temi speculativi e speculari come muto linguaggio di comprensione carismatica tra artista e fruitore.

 Pasquale Vinciguerra

Pasquale VinciguerraPasquale VinciguerraPasquale VinciguerraPasquale VinciguerraPasquale Vinciguerra
AGRIGENTO TERRA DI PITTURA

Sembra causalità, ma la pittura fu un elemento comune ai tre grandi artisti della terra agrigentina: Empedocle, Pirandello e Sciascia.
Empedocle di Agrigento Il filosofo Empedocle, oltre ad essere un grande filosofo, fu un attento osservatore delle technai del mondo greco e della pittura, della quale si servì per immagini poetiche:

 

Come esperto pittore

sa i suoi quadri variar,

da appendere in dono ai numi

alle colonne del tempio

con mano alacre pigliando

ora questo or quel color,

mischiandoli con tale armonia

da ottener immagini simili agli oggetti:

uomini, donne, fiere, piante

e uccelli d’acqua nutriti

oppure i numi di secoli lunghissimi

celebri per gli inni

e di onori eccellenti;

così per certo la mente non s’inganna

se narra che ogni cosa mortale

è fonte soltanto di quegli elementi.

 Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)

Leonardo SciasciaAnche Leonardo Sciascia, al pari di Empedocle e come Pirandello, aveva una visione pittorica. Il caso più eclatante è il romanzo Todo Modo, dove viene descritta la dissoluzione della società moderna rievocando l’opera grandiosa di Théodore Gèricault, La zattera della Medusa.

La Zattera della Medusa Il personaggio, protagonista della vicenda, è un pittore, il quale, stanco esistenzialmente di una pittura ormai ridotta al rango di mestiere commerciale, cerca invano un nuovo modo di essere. L’opera fu ispirata a Sciascia da un secentesco dipinto del senese Rutilio Manetti, Sant’antonio abate tentato da un diavolo con gli occhiali.
Concludendo, quindi, con Kandinskji, la pittura non fa altro che produrre un effetto psichico, dovuto alla vibrazione spirituale, attraverso cui il colore raggiunge l’anima. E gli scrittori, che sono anime sensibili, non possono non essere sedotti dai messaggi della pittura.  

 

 

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