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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

~ "La vita o si vive o si scrive" (Luigi Pirandello) – "Regnando Amicizia ogni cosa va ad unirsi" (Empedocle) – "Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano" (Leonardo Sciascia)

Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

Archivi Mensili: luglio 2008

31 giovedì Lug 2008

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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cantina la torre, carbone, dalessandro, dialetto siciliano, letteratura - articoli, pirandello, poesia, racalmuto, sciascia, vino


VINO & LETTERATURA

Racalmuto, Cantina La Torre

Logo Cantina La TorreMai titolo è stato più indicato per l’evento culturale svoltosi la settimana scorsa all’interno della Cantina Sociale “La Torre” di Racalmuto, con la presentazione di due libri, una silloge poetica in dialetto di Piero Carbone, “Pensamenti” (Coppola editore, € 7,50) e un racconto lungo di Nicolò D’Alessandro, “Buagimi, un’estate” (Coppola editore, € 7,50), presentato dallo scrittore Alfonso Gueli con letture di Lia Rocco, attrice del Piccolo Teatro Pirandelliano. E’ stato un battesimo felice tra il vino e la letteratura, elementi che in Racalmuto trovano addentellati fortissimi. Non a caso Leonardo Sciascia, memore dei meriti agricoli del suo paese e della prolificità dei suoi vigneti, che danno  vini generosi, intitolò una delle opere più note: “Il mare colore del vino”. Ma un altro legame dello stesso segno esiste per la cantina La Torre, che sorge nella contrada Montagna, zona di miniere, una delle quali, in quota parte, Caterina Ricci Gramitto portò  in dote a Stefano Pirandello, padre dello scrittore premio Nobel, Luigi, con atto del 15 novembre del 1863.

Contratto di Dote genitori di PirandelloContratto di Dote genitori di PirandelloE’ un polo letterario di primo livello, quello di Racalmuto, arricchito da una cultura enologica di grande spessore, i cui vini sono ricordati da Sciascia in diverse opere (ad esempio Il contesto). Giustificata appare, quindi, la ferma volontà dell’ingegnere Angelo Cutaia, presidente de “La Torre”, di fare della cantina un luogo fisso d’incontro per eventi culturali, in un paese dove insistono il Parco Letterario e la Fondazione “Leonardo Sciascia, un Castello chiaramontano, completamente restaurato, un Teatro dell’Ottocento, chiese e conventi e altri monumenti notevoli. Tutto parla di Leonardo Sciascia in questa cittadina della Ragione, come giustamente è stata definita.

“PENSAMENTI”

di Piero Carbone

 Silloge in dialetto

Alla ricerca del dialetto perduto

 
Piero Carbone E’ toccato al sottoscritto l’onore di presentare la raccolta poetica, Pensamenti, di Piero Carbone (con letture dell’ottimo Giovanni Sardone, Presidente del Piccolo Teatro Pirandelliano): 60 poesie in dialetto racalmutese che abbracciano prevalentemente il periodo tra il 1980 e il 1990.. Ed è stata per me una fortuna, perché in prima battuta mi sono sentito trascinato nel crogiuolo della questione letteraria della lingua italiana. Piero Carbone, uno studioso e profondo conoscitore della sua Racalmuto, ha compiuto con l’ausilio del linguista Salvatore Trovato, ordinario di Linguistica generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, una grande operazione di recupero del dialetto racalmutese originario, che quasi s’identifica con il dialetto di Girgenti, definito da Pirandello nella sua tesi di Bonn (Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti) la parlata più pura, più ricca di suoni, più vicina alla lingua italiana.

Diploma di laurea di PirandelloE’ vero che ogni dialetto, secondo il Premio Nobel, ha suoni e sviluppi di suoni, ma quello di Girgenti ( ed anche quello di Racalmuto quasi identico, salva qualche dittongazione con taluni strascichi) concorse più degli altri alla formazione  della lingua italiana. Il Professore di filologia Pirandello – è il caso di dirlo – non si sottrasse alla polemica sulla “vexata quaestio” della Lingua, chiamatovi obtorto collo per rivendicare inoppugnabilmente l’importanza, in quel contesto, della Lingua Siciliana. Avere restituito, quindi, al dialetto di Racalmuto la sua originalità e la sua primitiva purezza, costituisce un risultato di valore assoluto nell’ambito degli studi linguistici e si colloca, rinverdendoli, nel solco delle elaborazioni filologiche pirandelliane. Quanto alla sostanza, il titolo “Pensamenti” la dice lunga sul significato linguistico dell’opera. Pensamento è un termine plurisignificato, quasi filosofico-evocativo, usato spesso dai poeti eccelsi in varie accezioni. E Carbone lo usa “ex professo”, come lui stesso spiega nel Preambolo dell’opera: 

Trovo segnato nei manoscritti che questi pensamenti poetici, così detti per gli echi e i sentori cui alludono (“piensa el sentimiento, siente el pensamiento”), sono quasi tutti datati nel decennio che va dal 1980 al 1990, solo alcuni precedono o seguono tale periodo: A lu Castiddruzzu è il più antico, Era ura! il più recente. Quelli qui pubblicati esemplificano la scrematura, nel numero, e nella forma, di quattro potenziali raccolte inedite ritrovate. Parecchie poesie sono state pubblicate su periodici e hanno partecipato e vinto premi, sono state recitate in pubblici consessi. Poi me ne sono allontanato.

A distanza di anni, nel bel mezzo di occupazioni  – o distrazioni – pratiche, m’è venuta voglia di rileggerle, col vivo desiderio di rinfrancarmi l’animo rievocando antichi trasporti; solo in parte, ovviamente, mi sono ritrovato in sintonia con l’antico sentire, ma ho raggiunto ugualmente lo scopo.

Col senno di poi, riguardo ai contenuti, penso che così come il ghiotto prende a mani nude un favo e ne fa colare il miele in un barattolo, io ho preso da Seneca, da Unamuno, da Bequer, da Félipe, da Prévert e tentato di far trasmigrare il loro frutto nel musicale dialetto siciliano, racalmutese in particolare: nel leccarmi le dita ricolme di miele, il sentimento loro ho immaginato fosse il  mio. E continuo ad immaginarlo.

Riguardo alla forma linguistica, ho cercato di temperare le incertezze ortografiche di allora discutendone col mio amico Salvatore Trovato. Non volevo accodarmi alla riottosa schiera di coloro che incrementano l’anarchia ortografica spacciandola per libertà. Per venire incontro alle difficoltà che incontrano i poeti nella scrittura del dialetto, il prof. Trovato auspica da anni l’uniformità grafica del siciliano. Speriamo voglia darci al più presto un manualetto di ortografia. Intanto, seguendo il consiglio dell’amico linguista di non appesantire visivamente la pagina con formicolanti segni diacritici e apicetti vari non riconosciuti – tra l’altro – dal computer, accetto volentieri le seguenti sue proposte, che faccio volentieri mie, puntando su un tipo di trascrizione che dia rilievo alle singole parole del siciliano, su una trascrizione cioè di tipo morfematico, piuttosto che fonetico.

Il lettore, intanto, resti avvertito che la tavola qui di seguito riportata dà conto della pronuncia dei grafemi adoperati e rende conto di alcune alterazioni fonosintattiche:

<ddr> trascrive l’affricata prepalatale sonora forte, tipica di Racalmuto e di parecchi dialetti della Sicilia centroccidentale, come ad es. in cavaddru, beddru, iddru, gaddru ecc.;

<hi> seguito da vocale trascrive la fricativa postpalatale sorda, tipica dei dialetti della Sicilia centrale, come ad es. in hiatu ‘fiato’, hiuri ‘fiore’, hiascu ‘fiascu’ ecc.;

<j> si pronuncia quasi come una /i/, ma non è una vocale vera e propria, ma quasi una consonante. Essa, quando è preceduta da n o da elementi che provocano rafforzamento fonosintattico dà luogo ai seguenti processi fonologici: un juornu da leggere ugnuornu, un jitu da leggere ugnitu, un judici da leggere ugnùdici e ancora pi jucari da leggere pigghjucari, pi jiri da leggere pigghjiri e jiva ‘e andava’ da leggere egghjiva ecc.

Quale lingua si scrive esattamente come si pronuncia e non presenta regole per una corretta lettura del suo sistema ortografico?

Pensamento è, intanto, il cogitamen latino, come lo intese Dante in chiusura del Canto XVIII del Purgatorio:

“Che gli occhi di vaghezza ricopersi

e il pensamento in sogno trasmutai”

Pensieri vaghi e vani che fanno passare dalla veglia al sonno. Ma pensamento significa anche: “contemplazione, meditazione” (Collazione dei Santi Padri); “divisamento, accordo, trattato” (Guido Giudice delle Colonne, messinese, 1200); “affanno, cordoglio, travaglio” (Pietro Bembo). Nel canto del poeta ci sta tutto questo, perché egli sa che limitata è la sua stagione poetica: chi canta non può essere certo che la sua voce sarà ascoltata:

 

Canta lu pueta

Canta lu pueta

– pirchì canta? –

si canta

unn arricampa nenti,

prima ca nascissi

un lu sintieru

e fra cent’anni

nuddru cchjù lu senti.

 

Questo dubbio, questo straniamento esistenziale, Carbone l’ha assimilato da un suo concittadino illustre, Giuseppe Pedalino  Di Rosa, genuino poeta dialettale racalmutese dimenticato e, soltanto di recente, accomunato a Ignazio Buttitta, nel gemellaggio Bagheria-Racalmuto. A lui Carbone, come rivalsa, dedica l’intera Silloge. Ma il dubbio è insito nella poesia dialettale, considerata spesso, a torto, figlia di un Dio minore? A fugare ogni equivoco sta, a mo’ di protasi, l’esergo che precede la prima parte della raccolta, un brano esplicito sulla rivendicazione della piena validità del dialetto, tratto da Gli anni perduti di Vitaliano Brancati:

 

“Ecco, bene, professore! Fateli convinti, una buona volta,

che l’essere autore di poesie dialettali

non è un disonore per nessun galantuomo”

 
Il dialetto, cantato, per secoli è stato memoria popolare e anche difesa civile nell’assumere certi atteggiamenti di fronte agli eventi storici. Esso ha impregnato di sé la vita familiare, i rapporti civili, commerciali, sociali; il dialetto poetico è stato il giusto punto di riferimento del concetto di giustizia e di onestà. Il dialetto, all’origine, è una creatura in cui convergono i pensieri di tutti, che circolano e si diffondono per un mutuo scambio d’interessi umani.
Racalmuto Castello ChiaramontanoLa poesia dialettale, quindi, vuol dire ritrovare le radici, i luoghi, le persone e le memorie di un tempo, che mai possono essere cancellati. In tal senso, la poesia di Carbone è dialetto d’invenzione, alla maniera con cui Sciascia intendeva la parola invenzione (dal lat. invenio, trovare). Carbone, prima che in se stesso, ritrova, nei luoghi e negli altri, il suo canto. Egli è un “canta-storie” privilegiato ed eccellente delle cose della sua Racalmuto e della sua gente, che ritrova e racconta.

 

A lu paisi 

Ogni tantu tuornu a lu paisi

e viegnu a truovu sempri carti scritti,

mpiccicati n cantunèra di li casi,

Camìnu nni la chjazza, e cosa viju?

Sulu carti di muorti, e tiempi antichi.

Caminu, e l’uocchji sempri ddrà mi vannu:

unni cci su li nomi di l’amici.

Eramu na chenca burdillara.

Eramu na rocchja schiticchjara.

Ora sugnu

comu ntre dicièmmiri la nuci:

si lu vientu tanticchja l’arrimina

si scoddra di la rama

e si mpussuna.

 

 A lu Castiddruzzu

 
Bieddru castieddru miu ca ti scurdaru

n capu na muntagnola abbannunata

d’un circu russu lu suli a lu scurari

ti circunna e mpacci lu paisi po’ taliari.

Seculi, dimmi, quantu nn’ a’ sfidatu

cu ssi macigni di rocchi a sustintari,

supirchjarii quantu n’ a’ vidutu

nni ddru paisi ca ti voli scurdari

Sicuru e fermu, livatu ni l’antu,

tu sienti lu vientu hiuhhiari e quarchi

rocca chi ddra ssutta sempri cadi.

Ancora, bieddru miu, ca ncapu a’ stari

comu n’aquila cu l’uocchji grifagni

chi accuvacciata ncapu lova av’ a cuvari.

 1975

 

Luna e scrusciu di carrettu

 
Nni la notti na lanterna

s’arrimina di luntanu.

Canta un cori vacabunnu

na canzuna senza suonu.

Nni la coffa cc’ è attaccatu

un canazzu e va abbajannu.

Canta, penza, avi pi liettu

luna e… scrusciu di carrettu.

 

 Cantava lu minaturi

 Cantava lu minaturi,

lu so cantu

si pirdiva

nni li vudeddra di la terra.

 

La seconda parte della silloge, Carbone la intitola “Malapinsera”, ma non nel significato riduttivo di cattivi pensieri, ma piuttosto nel senso di pensieri di un male sociale diffuso, del quale il poeta non può non prendere atto. La dedica all’abate Giovanni Meli, il sistematore della lingua siciliana eccellente, testimonia la consapevolezza  delle cose come stanno e del male dell’Isola, ma rappresenta anche il coraggio del poeta di voler attingere l’esempio da chi, prima di lui, ha lottato e ha fatto grande il dialetto siciliano con sentimento e verità.

 Oh, Meli, Meli!

 E l’Abbatuzzu

rigorda e amminazza

la so palora è chjù forti di na mazza:

riji lu jtu, ccu iddru un ci la puonnu

pirchì scrivi li cosi comu stannu.

Oh, Meli, Meli!

di seculu sbagliasti:

lu to giudiziu ci vurrissi ancora.

Oh, Meli, Meli!

scunzulati siemmu

pirchì sbagliammu e mancu lu sapiemmu.

 

 

Li cosi comu stannu

 
Scrivu li cosi chi viju comu stannu,

curpa nun aju si sunnu comu sunnu.

Chissa è la zita, sutta nun cc’è ngannu,

spissu lu dicu dispostu a jiri n funnu.

Sciancata, senza dota, ngrasciatuna.

Mischinu ddr’ omu chi scunta  ssa pena:

nguaiànnusi na ciavula e la mprena.

 

L’arrivo del Papa Giovanni Paolo II in Sicilia (20 e 21 novembre 1982) è un momento di riflessione umoristica.

Vinni lu Papa

 Vinni lu Papa e fici un gran casinu,

vinni lu Papa e fu gran pompa magna,

vinni lu Papa duoppo tanti inviti,

mièritu nn’appi Totò lu Cardinali.

Vinni lu Papa e vinni vulannu,

di l’alicottiru jiva binidiciènnu,

e ppi li strati strati di Palermu

cci fu na fuddra enormi a mari magnu.

“Si vidi” “Nun si vidi” “Unn’ammuttati”

“Figli di… bona matri, lu mè caddru”

“Viva lu Papa!” “Cumpari n cantunera”.

Lu Cardinali, ncapu a la Land Rover,

secunnu mia avia sti pinzera,

stannu a la dritta a hiancu di lu Papa

(di cuntintizza lu cori ci scuppiava):

“Tal’è chi fuddra, nun mi l’aspittava!

Parinu surdi comu li campani

quannu ci dicu:’Fratelli, jiti in chjesa’,

e ora sunnu ccà a battiri mani.

A’iu fussi Papa, ssa festa fussi mia,

e a latu avissi stu babbu di Woitila”.

La festa durà un juòrnu, cchjù o menu,

ma duoppu tanti applausi e fistini,

iu m’addrumannu:”E ora chi nn’arresta?”

Sulu li marciapeda senza crusti,

barcuna rutti vistuti di stoffa

e quarchi strata secunnaria senza scaffa.

Un disidderiu mi resta ancora a fari:

ca, si per casu, Santità, scinniti arrieri,

e passiriti lu Strittu ncapu un Ponti,

ssst! un lu diciti, scinniti a l’ammucciuni,

ccussì viditi, senza suonu e banna,

n mani a cu sièmmu.

 E comu nni cumanna.

 

(Versi composti in occasione della storica venuta di Papa Giovanni Paolo II a Palermo il 20 e 21 novembre 1982. Grande fu l’aspettativa. Si acrisse sui giornali, ci furono convegni, le strade vennero transennate. Ho immaginato subito una seconda venuta perché la prima non svanisse come una folata, come svanirono le chilometriche transenne, rastrellate dai magri rivenditori di ferro vecchio, nella stessa notte della sua partenza.)

 
Ma il poeta non deve demordere, il poeta ha un ruolo importante, decisivo e non deve mai abdicare, anzi deve stimolare e sollecitare. E’ questo il messaggio conclusivo ed esaustivo di Piero Carbone, in tempi contrassegnati dall’impoeticità della società.

 

Forza, Pueta, nun t’arritirari

 
Forza, Pueta, nun t’arritirari,

dìcila la palora ca ci voli,

jùdici un sì e ti tocca giudicari:

cu unn’è pueta, mancu na vota

voli scanciari vinu ppi cicuta.

Cunnanna a tutti, si tu sì Pueta:

lu culuri d’un partitu o di na chjesa

nun esisti prima di spintari

o si spìccica duoppo ca si mori,

e resta sulu l’omu, tali e quali.

Cunnanna a tutti l’uomini birbanti

chi scancianu putiri ppi putìa,

lu travagliu ncapu l’antri ppi passìu

e li spirpanu puliti comu pira.

Scìppali li zzicchi di li cani.

Cunnanna a chiddri, tu, ccu du’ palori,

ma palori di chiddri scucìvuli,

chi fannu nvirdicari tanti uòmini

o li stravijanu ppi terra e ppi mari

comu un paraccu na tana di furmiculi.

Cumanna a tutti, Pueta di la terra,

cunnanna a tutti, Pueta di l’uomini,

l’uocchji un t’attuppari.

La virità è di cu la voli vidiri.

A cu sbaglia pùddracci la frunti,

spàragna sulu cu ppi l’antru mori.

 

BIOGRAFIA
Piero Carbone è nato nel 1958 a Racalmuto. Vive a Palermo dove insegna nella scuola media. Tra il 1985 e il 1987 ha ideato e realizzato Zmaragdos e nivuretta, due spettacoli di cultura etnografica. Ha curato una serie di mostre di artisti siciliani e i suoi testi figurano in numerose edizioni d’arte. Collabora con giornali e riviste. Nel 1996 a Pierrefeu du Var, in Provenza, è stata realizzata la mostra fotografica Lune sicilienne, ispirata al suo libro di poesie La luna. Nell’ambito del “Festival Italia 1997” ha tenuto a Stuttgart un recital di brani tratti dalle sue opere. Con il racconto breve “Dieci passi avanti, dieci passi indietro” ha vinto nel 2001 il premio di narrativa inedita “pordenonelegge.it”. Tra le sue opere: A lu raffu e Saracinu, Storia pi cantastorii (lavoro e altro nei luoghi d’acqia racalmutesi), Sicilia che brucia, Il mio Sciascia, Notturno in via Atenea, Il giardino della discordia – Racalmuto nella Sicilia dei Whitaker.

 

“A Buagimi un’estate”

Racconto di Nicolò Dalessandro

 Nicolò D’Alessandro, ritorno alle origini

 

Nicolò DI ricordi affiorano a sprazzi, ad ondate successive, sono immagini concrete che balzano dalle parole, fanno vedere e s’impressionano sulla retina. Così comincia un’estate di fanciullo, rivista attraverso l’adulto, che racconta e si racconta e fa scoprire un mondo sommerso nell’anima, un mondo che riemerge imperioso, conosciuto da ogni fanciullezza. Sono tanti quadri, come finestre aperte nel passato di ognuno, quelli ricostruiti da Nicolò D’Alessandro, non a caso pittore e grafico di talento.
Gìà dall’incipit si evince quella che l’Editore-Prefatore Salvatore Coppola definisce “il richiamo della memoria”: in senso sciasciano oseremmo dire, perché la scrittura per Sciascia era essenzialmente memoria, dei primi dieci-dodici anni di vita.

“Bagascia, gridò con quanto fiato aveva in gola. Sei una lurida bagascia! Faceva sempre così, quando non aveva a portata di mano soluzioni ai problemi che non poteva risolvere. S’accalorava improvvisamente e sputava fuori tutto il contrario di ciò che realmente pensava. E lo tirava fuori con rabbia. Una violenza così sprezzante e spropositata, da far paura. Proprio così: paura.

Bagascia, continuò a gridare a squarciagola, paonazzo e sudato. Gesticolava e sudava e l’impressione più immediata, per chi gli stava accanto, era che stesse lì lì per esplodere.

E’ proprio riandando a quel lontano giorno in cui G. gridava come un ossesso che gli sovvenne il volto di quella dolcissima ragazzina, l’oggetto di tanto accalorato furore giovanile, di così disperata rabbia. Gli tornò in mente anche lo stupore di quella ragazzina e di quegli occhi che esprimevano tutto. Timore, anche.

Trascorse quell’estate caldissima ed assolata nella campagna di Buagimi. Legato all’immenso carrubbo, vicino al grande casotto, chiamavano l’asino. Camillo alzava la testa, muovendo sempre la coda per allontanare le mosche che lo assediavano, rispondendo al loro petulante richiamo.”

Luigi Pirandello Nicolò D’Alessandro si muove in questo suo agile racconto tra Pirandello e Sciascia. E’ al Pirandello, scrittore di cose e non di parole, cui egli s’ispira. Le sue parole sono piene, concrete come pennellate di una tela, a dipingere in modo variegato una lunga estate, tra timori e tremori, desideri e paure, sogni e realtà, in una campagna che si apre alle prime insidie della vita, all’aspirazione del fanciullo a fare cose d’adulto, illudendosi così di diventare adulto. I ricordi di un’estate che si allargano a tutta una fanciullezza, arrivata a un punto di snodo, con l’illusione di poter diventare ricchi con il tesoro di Businè.

“Qualcuno sosteneva che dentro la collina da sempre fosse nascosto un tesoro, così grande che sarebbe bastato da solo a rendere l’isola ricca per sempre. Ed ancora le nonne ai nipoti, in paese, dicono che ogni sette anni la montagna si apre e chi, per caso, si trova a passare vede una grande luminosa fiera dove il fortunato può acquistare con pochissimi centesimi immense ricchezze poiché tutto ciò che si vende è in oro puro. Preziosissimo.”

Sono i sogni dell’infanzia dei popoli di vichiana memoria, la fantasia che trasforma la dura realtà del mondo contadino, fatto di lavoro e di fatica, di povertà e di aridità, dove però tutto può apparire magico agli occhi dei ragazzi, per i quali nulla è proibito, giacchè vanno alla ricerca di sensazioni forti, e perfino di scherzi crudeli.
Non manca, come saldatura dei vecchi e dei giovani, la sentenziosa saggezza popolare che trapassa di padre in figlio in modi proverbiali.

 

“Nenti fari ca nenti si sapi"  (Non fare niente, che niente si saprà)

 

"Calati juncu, chi passa la china" (Calati giunco che passa la piena)

 

"Si vo’ passari la vita cuntenti statti luntanu di li tò parenti" (Se vuoi passare la vita contento stai lontano dai tuoi parenti).

 

"Ccu amici e ccu parenti ‘unn’accattari e ‘un vinniri nenti" (Con amici e con parenti non comprare e non vendere niente)

 

"Lu tempu assicuta lu tempu" (Il tempo insegue il tempo)

 

"Prestu, prestu, ca la cira squagghia" (Presto, presto, che la cera squaglia)

 

"Dissi lu surci alla nuci: dunami tempu quantu ti perciu" (Disse il sorcio alla noce: dammi tempo che ti buco)

 

"L’anni passanu supra di nui" (Gli anni passano sopra di noi)

 

"Bonu tempu e malu tempu nun dura tuttu u tempu" (Buon tempo e mal tempo non durano per sempre)

 

"Ogni beni di la campagna veni" (Ogni bene viene dalla campagna)

 

E’ un mondo  di suoni, di rumori, di canti, di versi, di odori, di sapori, di paure e di allegrie.

“Suoni, canti e latrati di cani festeggiavano la vita in campagna a Buagimi. Per tutto il pranzo. Sotto il grande carrubbo grosse angurie rosso acceso, gonfie d’acqua promettevano refrigerio e ulteriore allegria… La mandola, il violino e le chitarre segnarono, quel giorno, con genuina spensieratezza campagnola il canto di tutti i commensali…”

Un’estate trascorsa da fanciulli attraverso esperienze positive e negative, con la confusa percezione di diventare adulti, scoprendo la pubertà. Una parentesi di vita, che si apre e si chiude a comando come un sipario, ma sempre a disposizione e fruttuosa nel difficile percorso di crescita giovanile. Ma anche un mondo che non esiste più, sepolto da questi tempi avari e restii, e di cui sentiamo nostalgia. Un testo poetico – l’ha definito  lo scrittore Alfonso Gueli –  che si legge d’un fiato e si gusta come mille quadri di una mostra .

 Nicolò D

BIOGRAFIA
Nicolò D’Alessandro nasce a Tripoli da genitori siciliani nel 1944. Vive a Palermo. Partecipa alla vita artistica italiana dal 1961 esponendo per invito a numerose collettive nazionali ed internazionali in Italia e all’estero. Dal 1963 ha tenuto novanta mostre personali e oltre centottanta collettive su inviti di gallerie, enti ed istituzioni. Vastissima la bibliografia. Molto è stato scritto  sul suo lavoro in Italia e all’estero. Numerosissime le pubblicazioni, ricordiamo tra le più recenti: Tra etica ed estetica; Il gioco delle apparenze; Passeggiata nei territori immaginativi, Del perdere la testa, a proposito di alcune fotografie.


Ubaldo Riccobono

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

05 sabato Lug 2008

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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agrigento, feste religiose in sicilia, folklore, letteratura - articoli, pirandello, racalmuto, racconti, san calogero, san gerlando, sciascia, tradizioni popolari, verga, voltaire

FESTE RELIGIOSE IN SICILIA

Tabella votiva miracolo

 GUERRA DI SANTI

Leonardo SciasciaNell’episodio Feste religiose in Sicilia dell’opera La corda pazza, Leonardo Sciascia fornisce la spiegazione su che cosa sia da intendere per festa religiosa in Sicilia.

“E’, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’ es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io (stiamo impiegando con approssimazione i termini della psicanalisi), per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città.”

Sciascia non solo riferisce su innumerevoli esempi di santi che ne hanno soppiantati altri, ma cita anche la novella di Giovanni Verga relativa alla zuffa cruenta tra i devoti di san Rocco e di san Pasquale.

“Tutto ciò per l’invidia di que’ del quartiere di san Pasquale, perché quell’anno i devoti di san Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d’oro, che pesava più d’un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una spuma d’oro addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicchè uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile:’Viva san Pasquale’. Allora s’erano messe le legnate. Certo andare a dire viva san Pasquale sul mostaccio di san Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c’è più cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po’ di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt’una cosa. Se si è in chiesa, vanno all’aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.”

Qualche anno fa, sulla falsariga della novella verghiana, scrissi un racconto sulla guerra dei santi Calogero e Gerlando di Agrigento, trama che si fondava su un canovaccio realmente accaduto. Calogero era un eremita popolare, Gerlando, primo vescovo della chiesa agrigentina, era nato a Besancon, nella Franca Contea, da famiglia nobile. Nero, con una barba canuta, ma bello e gentile, Calogero. Alto di statura, bellissimo nella persona, oratore facondo, prudente e abile nel consiglio e nell’azione, Gerlando, che insegnò nelle scuole capitolari.

Tabella votiva miracoloSan Gerlando

 

La ribellione
(racconto breve)

di Ubaldo Riccobono 

– Non se ne vanno ancora! – disse il Vicario, dando uno sguardo dalla finestra sulla via del Duomo.

Malgrado si fosse a mezzogiorno in punto e il sole spaccasse le pietre di lava, c’era un popolo, e dai balconi e dalle finestre si sporgevano molti curiosi. Taluni giovinastri alzavano forconi, falci, bastoni, pugni e gridavano frasi minacciose all’indirizzo del vescovado, fischiando stridulamente, accompagnati dal rullo continuo dei tamburi.

– San Calò, viva san Calò! – vociavano le donne sotto il sole, coperte da grandi fazzoletti a fiorami sulle teste; e gli uomini,  bruni e arsicci dalla canicola,  urlavano di rimando:

– Viva lu santu di li grazzii, divoti! –

Il vescovo, bianco come un cencio lavato, senza andare a vedere, come se appena lo sguardo di quella gente “in arme” potesse ferirlo, si limitò a dire con un filo di voce:

– E le guardie?… Cosa fanno, le guardie?

– E cosa possono fare? – rispose il Vicario – Si godono lo spettacolo!

Il Vescovo sembrava aver perso la baldanza, che lo aveva animato a diramare, il giorno innanzi, la sua prima pastorale, che aboliva i festeggiamenti in onore di san Calogero.

– Festa pagana è! – aveva sentenziato davanti alla consulta diocesana – Non possiamo lasciare il fèrcolo in balia dei portatori avvinazzati, né giustificare il lancio di pane dai balconi e tutte le scene di superstizione e di strane credenze: il santo che suda, la statua che corre tra la folla, come se San Calogero fosse vivo e vegeto. E poi l’assalto della gente che vuol salire per baciare il Santo… San Gerlando è l’unico, vero patrono ufficiale della città… Facciamo un’unica e sola festa grande, restituiamo il culto dei santi alla vera religione. –

Spiazzati, i suoi immediati collaboratori s’erano guardati in viso, senza articolar parola. Poi il Vicario aveva osservato:

– Giusto! Però, per il popolo san Calogero è il santo della povera gente, il santo miracoloso, il Taumaturgo.  Non c’è famiglia che non abbia un Calogero.Gli agrigentini credono, e nessuno può levarglielo dalla testa, che il santo sia nato proprio qui, nella grotta sulla quale è stata edificata la chiesa. San Calogero, tutti, nessuno escluso, lo sentono proprio, mentre san Gerlando, per quanto dottore della chiesa, è visto come il santo dei forestieri. –

Il vescovo, però, non ne aveva voluto sentire e aveva ordinato perentoriamente:

– Soltanto Pontificale in chiesa, la prima domenica di luglio – Niente luminarie, né giuochi d’artificio, offerte votive, processione. Il santo non si doveva muovere dall’altare.

La notizia, impetuosa e travolgente come il vento di tramontana, era corsa per tutti i quartieri. Così, già prima che la pastorale giungesse a destinazione, l’indomani, centinaia e centinaia di fedeli erano saliti alla cattedrale di San Gerlando, invadendo la via principale e la grande piazza del Seminario arcivescovile. Era una folla furente: uomini e donne, che chiedevano conto e ragione, che schiumavano rabbia da tutte le parti, con gli occhi accesi e frenetici, che la guardia municipale s’era guardata bene dal contrariare.

– State tranquilli – diceva il brigadiere, che intendeva smussare gli angoli – Tutto si risolverà… state calmi, niente colpi di testa. Sono anch’io uno dei vostri, che credete. Il vescovo è nuovo, non conosce ancora uomini e cose. Un conto è la religione in diocesi, un conto è quella di piazza. Loro lo sanno quanto amate san Calogero… –

Pur dando ascolto alla voce della saggezza, la gente non ne aveva voluto sentire di sgombrare il campo. Se guerra doveva essere, guerra sia, pensavano.Guerra dei nervi, si sperava, perché qualche esagitato disposto al peggio era presente. Il ragionamento, comunque, non faceva una grinza: tu mi togli san Calogero e io ti delegittimo san Gerlando.

– Abbasso san Gerlando! – qualcuno aveva gridato, con impazienza.

A quel grido, l’urlo della folla s’era levato unanime da tutte le bocche, alto e furioso come il mugghio possente d’una mandria di bufali.

– Abbasso san Gerlando! Abbasso san Gerlando! Viva san Calò! Viva san Calò…

Sbigottito, il Vescovo aveva rivolto uno sguardo pietoso al suo Vicario, quasi ad implorare una soluzione, che potesse trarlo d’impiccio.

– Voi capite – aveva detto, allargando le braccia – che non posso fare marcia indietro. La pastorale è già cosa notoria, ne va della mia credibilità.

Il Vicario, che nel frattempo aveva lungamente meditato, gli venne incontro.

– Non possiamo consentire che vi sia una guerra di santi – fece – Il popolo deve amare entrambi. Emaniamo una seconda pastorale, diciamo che vi erano giunte false informazioni sulla festa dello scorso anno, voci di miscredenti a mettere zizzania tra i due santi. Nessuno deve toccarli: entrambi proteggono la città e appartengono al popolo.

Così furono salvati capre e cavoli e san Gerlando riguadagnò credito, quantunque i benpensanti si meravigliassero, come soltanto in questo frangente il popolo si fosse ribellato e mai avesse alzato la cresta per i più gravi problemi sociali. Il culto di san Calogero tuttavia non ebbe mai eguali, come dimostrano i suoi miracoli accreditati dalle filastrocche popolari della gente in tutta la provincia.

 

San Calò di Agrigentu
i miraculi li fa a centu a centu

 San Calò di Naru
i miraculi li fa a migliaru

 San Calò di Favara
i miraculi li fa a cantara

 San Calò di Canicattì
i miraculi li fa a tri a tri

 San Calò d’a marina
i miraculi li fa a cufina

 San Calò d’Aragona
a ogni invocazioni miraculu dona

 San Calò di Cammarata
i miraculi li fa a tonnellata

 San Calò di Realmonti
i miraculi nun li conti

 San Calò di Sciacca
a fari miraculi nun si stacca

 San Calò di Santo Stefano di Quisquina
i miraculi li fa sira e matina

Tabella votiva miracoloTabella votiva miracoloTabelle votive 

PIRANDELLO E SAN CALOGERO

 Nel romanzo L’esclusa Luigi Pirandello descrive lungamente e magistralmente la festa di san Calogero, anche se i santi citati sono i martiri Cosimo e Damiano.

“Giunsero alla fine nella piazza davanti alla chiesuola, rigurgitante di popolo. Il baccano era enorme, incessante; la confusione, indescrivibile. S’erano improvvisate tutt’intorno baracche con grandi lenzuola palpitanti: vi si vendevano giocattoli e frutta secche e dolciumi, gridati a squarciagola… i gelataj coi loro carretti a mano parati di lampioncini variopinti e di bicchieri: – Lo scialacuore! lo scialacuore!…

Basilica di San Calogero, AgrigentoDeposto in mezzo alla navata centrale s’ergeva il fèrcolo enorme, massiccio, ferrato, per poter resistere alle scosse della disordinata bestiale processione…

La Commissione dei festajoli riceveva dai divoti l’adempimento delle promesse: tabelle votive, in cui era rappresentato rozzamente il miracolo ottenuto nei più disparati e strani accidenti, torce, paramenti d’altare, gambe, braccia, mammelle, piedi e mani…

Mano di pane, offerta votivaTabella votiva miracoloTabella votiva miracoloLe campane in alto sonavano a distesa su quel fermento, e le campane delle altre chiese rispondevano in distanza. A un tratto, tutta la folla si commosse, si sospinse premuta da mille forze contrarie, non badando agli urti, alle ammaccature, alla soffocazione, pur di vedere.

– Eccolo! Eccolo! Spunta!

Le donne singhiozzavano, molti imprecavano inferociti, divincolandosi rabbiosamente; tutti vociavano in preda al delirio. E le campane rintoccavano, come impazzite dagli urli della folla. Il fèrcolo irruppe a un tratto, violentemente, dal portone e s’arrestò di botto là, davanti alla chiesa.

– Largo! Largo! – si gridò da ogni parte, poco dopo. – La via al Santo! La via al Santo! La via al Santo!…

Cento teste sanguigne, scarmigliate, da energumeni, si cacciarono tra le stanghe della macchina, avanti e dietro. Era un groviglio di nerborute braccia, nude, paonazze, tra camìce strappate, facce grondanti, sudore a rivi, tra mugolii e aneliti angosciosi, spalle schiacciate sotto la stanga ferrata, mani nodose, ferocemente aggrappate al legno. E ciascuno di quei furibondi, sotto l’immane carico, invaso dalla pazzia di soffrire quanto più gli fosse possibile per amore del Santo, tirava a sè la bara, e così le forze si escludevano, e il Santo andava com’ebbro tra la folla che spingeva urlando selvaggiamente.

Agrigento, Festa di San CalogeroA ogni breve tappa, dopo una corsa, dai balconi, dalle finestre gremite, alcune femmine buttavano per divozione sul fèrcolo e su la folla, da canestri, da ceste, fette di pan nero, spugnoso.”

La festa di San Calogero (dal greco bel vecchio), dell’eremita nero, per alcuni venuto nel quarto secolo d.c. dalla Bitinia, per altri da Costantinopoli, è legata da sempre alla Sagra del grano, che cade nel fatidico mese di luglio e costituisce una sorta di ricorrenza panica, a celebrare e propiziare l’abbondanza.

Tabella votiva miracoloDa qui le offerte al Santo di sacchi di grano su mule parate, o di pane, anche in arti, per i miracoli ottenuti o semplicemente per atto di devozione, allo scopo d’ingraziarsi il Santo.

Mula bardata con sacchi di granoSono almeno otto giorni di festa (dalla prima alla seconda domenica di luglio) sentiti intensamente da tutta la popolazione, al limite del religioso e del godereccio. Tuttavia il culto del Santo rimane integro nell’animo agrigentino, come testimonia anche l’uso satirico che si faceva sul giornale popolare LA SCOPA.

Giornale agrigentino fino anni 70

 San Calogero

QUEL CHE VOLTAIRE S’E’ PERSO

 Leonardo SciasciaE di questo intreccio tra religiosità, credenza ed esplosione esistenziale, Leonardo Sciascia dà un saggio in un suo articolo intitolato Quel che Voltaire s’è perso, nel quale rievoca il miracolo della Maria Vergine del Monte.
Narra di un nobile Eugenio Gioeni da Castronovo, che andando a caccia in terre d’Africa, si rifugia in una grotta a causa d’un improvviso temporale, rinvenendo ivi la statua di una Madonna col Bambino. Il Gioeni la porta con sé, ma dopo essere sbarcato, è costretto a fare una sosta a Racalmuto per dissetarsi.

“Era un caldo meriggio del mese di maggio: a vedere quella statua coricata sul carro, vivida di colori, soavissima, la gente del paese accorse. Voci di stupore, invocazioni, preghiere: e ne giunse il brusio al Conte Ercole del Carretto, che stava a far la pennichella in una sala del castello. Ne domandò la ragione: e con scherani e paggi accorse anche lui. Folgorato dalla bellezza della statua, ne chiese il prezzo al Gioeni, che quasi se ne offese. Il conte offrì tanto oro quanto la statua pesava: e ancor più il Gioeni se ne sdegnò. Ordinò ai suoi di riaggiogare i buoi e di riprendere il cammino verso Castronovo: ma le ruote del carro, per quanti sforzi facessero i buoi pungolati a sangue e i famigli, non si mossero.. Credette il Gioeni i racalmutesi avessero artatamente immobilizzato il carro, diede di piglio alla spada, il del Carretto alla sua: ma mentre già le incrociavano la folla con tale impeto gridò al miracolo che le spade si abbassarono e i due signori, commossi, decisero con l’abbracciarsi. La Madonna aveva deciso di restare a Racalmuto, ospite di Santa Lucia – almeno provvisoriamente – e a dividere il patronato sul paese con santa Rosalia. Più tardi, le si riedificò una più vasta e ricca chiesa e, benchè come titolo ufficiale le restasse quello di compatrona, dimenticata fu santa Rosalia. E non solo le si dedicò, per tre giorni dell’ultima settimana di maggio, una rutilante, fragorosa, insonne festa.”

Ma la chiesa, che aveva faticato a costruire tale leggenda, la smontava poi ad opera di un ecclesiastico, padre Bonaventura Caruselli, autore di un libretto intitolato Maria Vergine del Monte in Racalmuto.
La quale leggenda per Sciascia era invero facilmente smontabile, considerata l’origine gaginiana della statua. La vicenda, avverte Sciascia, avrebbe interessato per la sua contraddittorietà Voltaire. Ma come per altri santi – conclude – che non ci sia la leggenda o miracolo, non nuoce per nulla alla festa: che c’è ancora. Voltaire avrebbe fatto un sorrisino sotto i baffi, per questo smacco al potere eclesiastico. E in effetti, la festa di santa Maria del Monte, festa omologa a quella di san Calogero, si svolge nello stesso periodo di luglio e celebra anche la Sagra del grano.

Racalmuto

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