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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

~ "La vita o si vive o si scrive" (Luigi Pirandello) – "Regnando Amicizia ogni cosa va ad unirsi" (Empedocle) – "Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano" (Leonardo Sciascia)

Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

Archivi Mensili: maggio 2009

25 lunedì Mag 2009

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agnello, agrigento, camilleri, castello, chiaramonte, cultura, letteratura - articoli, libro, montalbano, pirandello, porto empedocle, scultura, siculiana, trainito

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IL FENOMENO CAMILLERI

Saggio di Marco Trainito

Camilleri:”Quello di Marco Trainito è il migliore libro

in assoluto fino a ora dedicato alla mia opera”

 

Andrea Camilleri – Ritratto dello Scrittore di Marco Trainito, Editingedizioni Treviso, ora Edizionianordest, saggio, dicembre 2008, pagine 254, € 15.00 info@editingedizioni.com, www.editingedizioni.com, info@edizionianordest.com, www.edizionianordest.com 

 

Per un saggista gli studi non finiscono mai. Deve confrontarsi con i testi dell’autore, con il suo pensiero, con la critica sul suo pensiero, con le opere degli altri autori – a volte tanti – che lo richiamano, con la cultura presente e quella del passato.  Insomma il saggista deve essere occhiuto, tuttologo, quasi onnisciente e, forse, anche veggente. Nel caso di Camilleri, scrittore prolifico con produzione infinita, un saggista deve operare miracoli di memoria, sapienza di collegamenti e di rimandi, conoscere l’infinità delle sue opere, apparentemente semplici, ma poliedriche nei contenuti e nelle sciarade che vi sono disseminate: insomma deve conoscere a menadito la letteratura regionale, nazionale e internazionale. C’è da domandarsi come abbia fatto Marco Trainito, giovane e valente professore di filosofia di Gela, anche se già può vantare nel suo palmarès una notevole esperienza e un invidiabile curriculum, ad imbastire una biografia così bella, profonda, stimolante, completa, a tutto tondo sul fenomeno letterario così complesso qual è quello di Camilleri. Non si tratta soltanto d’intelligenza, e Trainito lo è stato tra l’altro per aver saputo governare e dosare un materiale, che poteva risultare troppo magmatico e per ciò stesso proteiforme. Non si tratta neanche di bagaglio culturale, e Trainito ne ha a iosa, conoscendo tutti i segreti del mestiere e dall’alto di una encomiabile assiduità di studi. La verità vera è che Marco Trainito, oltre a possedere una grande passione per la letteratura, è uno scrittore saggista geniale; sa usare la penna come un bisturi che è in grado di incidere in lungo e in largo, con operazioni di  microchirurgia e macrochirurgia critica. Nulla sfugge alla sua analisi e lo fa con tocco di mano e linguaggio suadenti. Il suo libro non ha sbavature, si dipana con scorrevolezza e profondità di contenuti in tutte le direzioni, inseguendo Camilleri in tutti i meandri delle sue opere e della sua anima. E i primi risultati lo hanno già premiato: prima tiratura esaurita in una settimana e già la Casa Editrice che l’ha scoperto la EditingEdizioni, ora Edizionianordest, è giunta alla terza edizione. Un’opera fondamentale sul padre di Montalbano da non perdere e da mettere in evidenza nella propria libreria, non solo da parte dei fans di Camilleri, ma anche da chi ama la letteratura in generale: un saggio che entra di diritto nella storia della critica letteraria.

 Marco Trainito con Camilleri

Un filo di fumo

Dal romanzo officina

ai pizzini di Provenzano

 

Romanzo di Andrea CamilleriNella sua incisiva analisi, tra una carrellata e l’altra di temi a getto continuo, supportati con citazioni e riferimenti di notevole spessore, che costituiscono ulteriori inviti ad approfondire, a leggere e rileggere, Marco Trainito individua in Un filo di fumo il prototipo strutturale della produzione camilleriana, che si sostanzia precipuamente in quattro elementi che rappresentano delle costanti che percorrono in vario modo le opere successive:

1) l’invenzione di Vigata, il paese geograficamente inesistente nel quale Camilleri ambienta tutti suoi romanzi, il centro più inventato della Sicilia più tipica, “una sorta di buco nero che ingloba tutto. Tutto ciò che succede dentro i confini della Sicilia”. Su Vigata il saggio indugia giustamente, perché appare essenziale nell’economia dei romanzi di Camilleri, non fosse altro che per quel giuoco di realtà e finzione (tra Borges, Pirandello e Sciascia) che appare una caratteristica fondante di tutta l’opera del Maestro di Porto Empedocle. E Trainito ne coglie l’essenza dimostrando con analisi testuali, intertestuali e intratestuali, come Vigata sia una, nessuna e centomila, come del resto il Commissario Montalbano, e Camilleri stesso come scrittore.

2) l’invenzione della lingua. Con Un filo di fumo – interessante la coincidenza del “filo” del libro con il filo conduttore e strutturale di tutti i romanzi successivi – viene introdotta la lingua tipica di Camilleri e acquista rilevanza il Glossario, in cui viene fissato un vero e  proprio codice. Il dialetto di Camilleri ha fatto discutere molto e ancora farà discutere, perché è l’invenzione, diremmo la “rivoluzione copernicana”, che ha spalancato a Camilleri le porte del successo. Pirandello, grandissimo scrittore in dialetto in alcune commedie, ritenne che il dialetto non potesse far pervenire l’arte a livello universale. Il dialetto di Camilleri invece rende le sue opere comprensibili non solo ai lettori italiani, ma anche nelle 33 nazioni che le hanno tradotto. Come si spiega? Certo l’uso del dialetto da parte di Pirandello era integrale e per ciò stesso non si prestava ad andare oltre i confini regionali e comunque non era recepibile da tutti. Camilleri risolve in maniera intelligente il quesito pirandelliano, perché la lingua dei suoi romanzi è quella italiana, ma si avvale di un colorito glossario dialettale, che non ha significato di linguaggio dal punto di vista formale, ma acquista un sapore e uno spessore “antropologico-culturale”, che fa cogliere il sentimento dell’artista e delle situazioni che vengono ad essere rappresentate.

3) Camilleri riprende una particolare ambientazione storica siciliana, caratteristica dei grandi romanzi I viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: una particolare società, nella quale entrarono in crisi valori, classi, politica e società, che hanno lasciato indiscutibili tracce sulla precarietà dell’età contemporanea. E perciò la cerniera di collegamento tra presente e passato rende l’opera di Camilleri quanto mai attuale e stimolante.

4) Lo spunto del romanzo-officina è un documento anonimo e viene in rilievo in taluni personaggi la scrittura di lettere o documenti, motivo ricorrente nei successivi romanzi, e nella serie di Montalbano, che addirittura scriverà lettere a se stesso.

Altri elementi ricorrenti sono i rimandi – palesi o occulti – a moltissimi autori di spessore, con giochi intertestuali o intratestuali evidenti o reconditi. Lo scrittore interagisce con autori come Aulo Gellio, Manzoni, Conrad, Conan Doyle, Cervantes, Faulkner, Calvino, Sciascia, Borges, Gadda, Simenon, D’Annunzio e trova in ciò una goduria senza limiti, come un divertissement è la biblioteca di Vigata del Commissario Montalbano, in cui entra perfino Camilleri stesso. Ovviamente non poteva mancare Zio Luigino Pirandello – come lo chiama Camilleri: e Vigata viene vista, pirandellianamente, una nessuna e centomila, cangia di continuo; così come, del resto, assistiamo pirandellianamente allo sdoppiamento del Commissario Montalbano, e per certi versi dello stesso scrittore, “costretto” quasi ad inseguire nel suo laboratorio, e quindi nella narrazione, la necessità di questo sdoppiamento.

La spina dorsale del saggio è data dalla divisioni in tre blocchi principali: la genesi (L’origine della specie da Un filo di fumo), l’evoluzione dell’opera camilleriana (Giochi intertestuali e impegno civile), l’approdo laico di Camilleri (Dalle bolle ai pizzini. Lo spirito laico di Camilleri), in cui si va anche alla ricerca della cultura clerico-mafiosa, di cui tanto scrisse Leonardo Sciascia, dal quale Camilleri attinge a pieni mani, decodificando modernamente i fatti ultimi di mafia, tra i quali i pizzini di Montalbano.

Nutritissima la bibliografia, che abbraccia tutti i testi di Camilleri dal 1978 al 2008, nonché tutta l’opera critica uscita fino a tutto il 2008. Un’analisi colossale quella di Marco Trainito, che offre infiniti spunti sulla letteratura e tantissimi autori, decodificati a livello filosofico, psicologico, filologico, sociale con incursioni in tutti i campi dell’umano sapere, che non è facile in questa sede riassumere, ma che va letta per gustarne l’intensità e lo spessore argomentativi di uno scrittore, a guisa di opera narrativa.

 

L’autore- Marco Trainito è nato a Gela il 25 aprile 1969. Dopo la laurea in filosofia e storia nel 1994 (tesi su Nietzsche) ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in filosofia e storia delle idee nel 1998 (Tesi su Wittgenstein e Popper) insegna filosofia e scienze sociali al Liceo Socio-psico-pedagogico “ di Linguistica "Dante Alighieri” di Gela ed è tutor di Linguistica Generale, Filosofia Teoretica e Filosofia del linguaggio nel corso di laurea in Scienze della comunicazione dell’Università di Catania, decentramento didattico di Gela. Ha pubblicato: Popper e il Wittgenstein antropologo. Un’ipotesi di confronto, 2000; I bambini, la televisione e la scuola nel pensiero di Karl Popper, 2002; Il “Big Typescript di Wittgenstein, 2002. Ha pubblicato saggi su Umberto Eco e Stefano D’Arrigo. Scrive per giornali e riviste on line.

 

IL GIORNO PIU’ LUNGO DI CAMILLERI

Sotto il cielo di Vigata

La statua del Commissario Montalbano 

Un critico ha definito Vigata

“Il paese più inventato della Sicilia più vera”

Se stesse in me, correggerei la definizione:

“Un paese, in parte vero, della Sicilia più inventata”

                                                Andrea Camilleri

 Camilleri con il sindaco Calogero Firetto di P.Empedocle

 Un giorno a Porto Empedocle, paese che c’è, per vivere un giorno a Vigata, paese che non c’è; oppure un giorno a Vigata, paese in parte vero di una Sicilia inventata da Andrea Camilleri. Con questa visione borgesiana, tra realtà e finzione, è stata concepita dal comune di Porto Empedocle, dov’è nato il grande scrittore, la giornata “Sotto le stelle di Vigata”, una giornata ricca di eventi culturali di spessore.

Innanzitutto il tema iniziale assai suggestivo “Montalbano, un commissario non troppo di carta” condotto da un trio: il Sindaco di Porto Empedocle, Calogero Firetto, uomo colto e competente, che ha intrapreso una battaglia culturale e sociale a 360 gradi per la cittadina marinara; lo stesso scrittore Andrea Camilleri e un critico letterario di grande valore, Salvatore Ferlita, accademico dell’Università di Palermo, che scrive per la pagina culturale di Repubblica.

Il secondo evento è la firma ufficiale per la costituzione della Fondazione letteraria Andrea Camilleri, che avrà sede nella casa di famiglia dello scrittore, donata al Comune di Porto Empedocle.

Dice il Sindaco di Porto Empedocle, Calogero Firetto:

 

“Un cordone ombelicale, che non verrà mai reciso, unisce Porto Empedocle ad Andrea Camilleri. Per questo motivo abbiamo deciso di dare vita ad una Fondazione intitolata al nostro illustre concittadino: non un museo ma una struttura viva e dinamica”

 

Giuseppe Agnello, scultore di MontalbanoIl secondo evento è stata la scopertura, da parte di Andrea Camilleri, della scultura iperrealista raffigurante il celeberrimo Commissario Montalbano, opera dello scultore Giuseppe Agnello, di Racalmuto, lo stesso che ha concepito la scultura bronzea  di Leonardo Sciascia, che passeggia sul Corso principale di Racalmuto, con l’eterna sigaretta in mano. Dal 1989 Giuseppe Agnello insegna Scultura e Tecniche della Scultura tra l’Accademia di belle Arti di Palermo e quella di Carrara.

 

 

 

Associazione Culturale Humus Racalmuto

La conclusione della mattinata è avvenuta con un aperitivo vigatese con “arancini” del Commissario Montalbano, nel Caffè Vigata, a pochi metri della statua di Montalbano.

 

Montalbano: uno, nessuno, centomila

La statua di Montalbano scoperta da Camilleri  

A proposito della scultura del Commissario Montalbano, assai diversa dallo Zingaretti della fiction, Camilleri ha scritto un’interessante minirelazione sulla brochure di presentazione dell’evento:

 

“Nell’immaginario collettivo le immagini del commissario Montalbano corrispondono a quelle di Luca Zingaretti che l’interpreta in tv. In realtà il mio personaggio, quello che opera a Vigata, è un po’ più anziano perché naviga per i sessanta anni essendo nato nel ’50. Il mio commissario è pieno di capelli, ha i baffi ed è facilmente riconoscibile sulla pagina. E’ giusto quindi che Vigata – Porto Empedocle realizzi un’immagine del vero volto del commissario Montalbano, così come si può desumere dalle mie, certo non ricche, descrizioni fisiche del personaggio. Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare che in Italia di monumenti destinati ad un eroe di romanzo esista solo quello a Pinocchio dovuto al grande scultore Emilio Greco. Ora immaginare Pinocchio, non dovrebbe essere difficile, dato che si tratta di un burattino oltretutto perfettamente descritto da Collodi. Eppure le decine e decine di pittori e di disegnatori che hanno tradotto in immagini Pinocchio, l’hanno fatto uno diverso dall’altro perché ogni artista, dentro di sé, aveva il “suo” Pinocchio. Di fronte a un personaggio come Montalbano, che è uomo comune, i problemi del dargli una forma concreta si moltiplicano. Gli stessi lettori ne danno ogni volta un’immagine differente e, credetemi, non c’è una descrizione che coincida con un’altra. Accadrà così con quest’opera, è inevitabile. Questo è il Montalbano visto dal Maestro Giuseppe Agnello che l’ha, impresa certo non facile, tradotto in bronzo. A me piace questa immagine di Montalbano; soddisfa molto e ancor più mi piace che il mio Commissario se ne stia appoggiato ad un lampione a guardare i “marinisi” che passeggiano! So già che molti diranno che non somiglia a Montalbano. E che altrettanti diranno invece che gli somiglia. E’ inevitabile: ogni lettore si crea un suo Commissario. Come ogni personaggio romanzesco Montalbano infatti è, pirandellianamente, uno, nessuno, e centomila!”

                                                                                                  Andrea Camilleri

 

Prima della scopertura, Andrea Camilleri ha voluto salutare l’evento, cavando dal suo cappello a cilindro delle battute umoristiche.

 

Tu, cu si’?

 

Era un pomeriggiu estivo di vampa e iucavu al piccolo chimico, quando sintivu bussare alla porta. I miei genitori dormivano. Andai ad aprire e mi truvavu davanti un ammiraglio in feluca e mantellu, ca mittennumi due jta sutta a frunti, mi disse:

”Tu, cu si’?”

“Sugnu Nenè Camilleri” risposi subitu.

“Chiamami to’ patri e ta’ matri e dicci ca c’è Luiginu Pirandello!”

Ci fu un’aggitazzioni generali, perché nessuno era prontu alla visita di Ziu Luigi, abbigliato d’Accademico d’Italia.

Ora vidennu la statua di Montalbano poco distante da quella svettante di Pirandello in mezzu a’ Marina, mi ricordu sti dui jta puntati che Pirandello dall’alto del suo monumento immagino puntari a Montalbano, dicendogli:

“Tu, cu si’”

 

Camilleri 2 – Sentendo la citazione introduttiva sulla realizzazione in bronzo della statua, Camilleri nel preambolo del suo discorso ha detto:«Non parliamo di metalli, perché dalle nostre parti il bronzo ricorda il detto poco edificante “faccia di bronzo”»

 

 

IL CIELO RUBATO. DOSSIER RENOIR

di Andrea Camilleri

L 

Castello di SiculianaIn serata al Castello chiaramontano di Siculiana, appartenente alla famiglia Firetto di Porto Empedocle – la stessa del sindaco -, che ne ha fatto un lussuoso resort per eventi – matrimoni, meeting, manifestazioni –  è avvenuta la presentazione dell’ultimo libro di Andrea Camilleri “Il cielo rubato. Dossier Renoir”, in cui si racconta un viaggio del pittore Renoir ad Agrigento, allora Girgenti – forse avvenuto o forse no – attorno al quale lo scrittore ricama una storia ricca di mistero, tra realtà e finzione. Mai luogo fu più indicato per effettuare tale presentazione, perché il castello di Siciliana è quello in cui vissero l’avvenente Costanza II Chiaramonte e Antonino Delcarretto, dei marchesi di Savona Noli e Finale. Costanza II amava il lusso e i divertimenti. Della compagnia di gaudenti del castello venne a far parte Ser Branca Doria, il nobile genovese che attirato il suocero Michele Zanche in un suo castello, lo aveva ucciso, per succedergli nel dominio di Logudoro in Sardegna. Dante lo aveva collocato in vita nella Tolomea negli assassini degli ospiti, assieme al Conte Ugolino della Gherardesca, nel canto XXXIII dell’Inferno:

 

Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso:

elli è ser Branca Doria, e son più anni

poscia passati ch’el fu sì racchiuso

 

“Io credo” diss’io lui, “che tu m’inganni;

che Branca Doria non morì unquanche,

e mangia e bee e dorme e veste panni”.

 

Corte del Castello chiaramontano di SiculianaNel mio romanzo “Una contrada chiamata Consolida” ricostruisco la storia scellerata della fedifraga Costanza II e Branca Doria, i quali ebbero dalla loro unione sette figli. Una storia fitta di mistero in uno dei tanti castelli dei Chiaramente.

E in effetti, come hanno chiarito il presentatore Fabio Carapezza Guttuso e il critico letterario Salvatore Ferlita, alla base di “Il cielo rubato” sta un grosso mistero di un viaggio, vero o fittizio, di Renoir, dal quale si dipana tutta la storia, in un racconto epistolare di sostanza, secondo un sistema già collaudato da Camilleri, di cui Marco Trainito ha diffusamente parlato nel suo “ritratto dello scrittore”.

Tutto ciò è stato anche ribadito da Andrea Camilleri nel suo intervento, il quale ha finito per sottolineare il giuoco continuo di rimandi delle sue opere, come esca offerta ai critici letterari, i quali assai spesso non riescono a coglierli tutti.

In quest’ultimo libro Camilleri ha evidenziato anche il pirandellismo dell’apparenza, della realtà e della finzione, ma ha lasciato in sospeso altri possibili enigmi celati. Ma la struttura del racconto è chiaramente sciasciana, con un riferimento quanto mai aderente a “Il consiglio d’Egitto”, dove i temi di verità, realtà, impostura, e della verità che diventa impostura e dell’impostura che diventa realtà, sono svolti dall’illuminista Leonardo Sciascia in maniera stringente. L’impostura finisce per prevalere sulla verità e diventa essa stessa verità, ma è pur sempre la ragione che trionfa, perché è la ragione che fa scoprire la seduzione e l’imporsi dell’impostura.

 

“Sono un contastorie”

Andrea Camilleri «Non sono un cantastorie, perché sono stonato. Sono un “contastorie”, uno che racconta, che lavora per i lettori. E poiché lavoro per i lettori, devo essere sempre diverso, uno, nessuno e centomila, così come uno nessuno centomila è il personaggio del Commissario Montalbano» ha detto nel corso della presentazione del suo ultimo libro Andrea Camilleri.

E ha poi aggiunto:«Confesso che con Montalbano mi sono trovato spesso a mal partito, quasi in galera. E’ la ripetitività il vizio più grande della letteratura e per liberarmi di questa presenza ossessiva del Commissario, ero costretto a gettare dei nuovi racconti, come pezzi di carne ai lupi di una slitta, perché Montalbano mi lasciasse libero di creare dell’altro. Certo, con Montalbano le vendite aumentano, i lettori sono più veloci di me e famelici aspettano altre storie. Non è bello sentirsi in galera e così, se riesco a sottrarmi a Montalbano, rientro in una posizione meno difficile, passando dalla galera agli arresti domiciliari, creando delle storie che mi intrigano molto»

C’è in queste dichiarazioni di Camilleri tutto il dramma moderno dello scrittore, costretto a confrontarsi ogni giorno con i suoi lettori.

«Mi dicono che dopo la mia morte, le mie opere saranno dimenticate? Non me ne importa un bel niente, l’unica cosa importante è scrivere “storie”»

Leonardo SciasciaDietro queste parole ci sono Borges, Sciascia e anche Pirandello. Borges preconizzava una teologia laica dei libri, che convergono verso l’unico, il più grande libro in assoluto. Sciascia ricordava che lo scrivere è sempre gioia, stato di grazia. Per Pirandello invece lo scrivere era vita (la vita o si vive o si scrive).

«Non voglio entrare nelle antologie – ha detto Camilleri – Porta jella. Portò jella ad Alessandro Manzoni, uno dei più grandi letterati di tutti tempi: la scuola così come l’ha fatto conoscere ha finito per farlo odiare. Appreso che una scuola siciliana, al posto dei Promessi Sposi, aveva adottato come antologia il mio Il birraio di Preston, ho scritto una lettera aperta  ad un giornale indirizzandola a Manzoni “Caro Sandro, la colpa non è tua, ma della scuola…”. Concetto quest’ultimo già evidenziato da Leonardo Sciascia pubblicamente, con l’affermazione che lo studio dei Promessi Sposi a scuola era consolatorio, mentre il quadro dipinto da Manzoni non era affatto consolante ma desolante.

A proposito dei libri e dei critici come sacerdoti, Camilleri ha posto il quesito:

«Che cos’è l’arte?»

Per lui l’arte è creazione di storie, sempre nuove, sempre diverse, mai scontate, perché l’arte consiste nella fruizione, nella massima fruizione; l’arte è vita e per esserlo veramente deve uscire dalla ripetitività. Vi è in ciò il contrasto pirandelliano tra vita e forma. Al lettore interessa la concretezza delle storie, più che la forma con la quale le si racconta.

Luigi PirandelloE ricordando il giudizio lusinghiero su una sua messa in scena degli anni sessanta del “Finale di partita” di Beckett, da parte di un critico, il quale  diceva che Camilleri era l’unico a poter dare del tu a Pirandello, Camilleri ha precisato d’aver risposto:

«Ringrazio immensamente del giudizio lusinghiero, ma a Pirandello, cui mi ha legato peraltro un vincolo di parentela, io continuerò a dare come sempre del “Voscenza”, che dalle nostre parti significa “Vostra eccellenza”»

 

08 venerdì Mag 2009

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arabi, arte, arte e cultura, cultura, istanbul, letteratura - articoli, pamuk, pirandello, sciascia, turchia, viaggi

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ISTANBUL, CROCEVIA DI CULTURE

(notazioni di viaggio)

Istanbul, tramonto sul bosforoMoschea di Solimano, IstanbulSanta Sofia Santa sofia mosaico dCisterna romana, IstanbulIstanbul Moschea blu Moschea blu

Divisa tra Asia e Europa, tra Oriente e Occidente, tra religione e laicità, megalopoli di 15 milioni di abitanti, esplosa tumultuosamente negli ultimi anni, Istanbul incarna la tradizione e la modernità con tutte le sue contraddizioni che una società del genere può comportare. La gente arriva da tutti gli angoli della Turchia, con la speranza nel cuore, puntando decisamente su questa città, la più estesa del mondo, e anche su Smirne (5 milioni di abitanti, altra città cresciuta a dismisura) per sottrarsi ad una sorte di miseria, di disoccupazione, di condanna sociale.

Panorama di Istanbul Ma come tutte le metropoli, Istanbul, città internazione dal turismo redditizio, può dare poco ai diseredati, perché i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri più poveri. La forbice si allarga sempre più e crescono i fermenti e le proteste. C’è il sogno europeo, di entrare nella Comunità, per essere una nazione competitiva dell’Occidente; c’è la paura d’essere fagocitati nelle spire dell’islamismo per uno stato che il padre della patria Ataturk aveva voluto fortemente laico, sganciandolo per sempre dalla religione.

La Repubblica di Turchia, nata il 29 ottobre del 1923, costituì un evento eccezionale, forse unico, se si pensa che l’impero ottomano era durato per molti secoli, ininterrottamente dal 1299 al 1922. Non c’è alcuna affinità linguistica, culturale, etnica, tra Turchi e Arabi. Tuttavia, la libertà religiosa è stata una costante della Turchia. All’ingerenza della religione araba si aggiunge quella europea, che sovvenzionò lo stato ottomano con cospicui prestiti internazionali, che diedero il via a un debito pubblico difficile da colmare.

Da qui la caduta dell’impero e la nascita di uno stato repubblicano, ad opera di Mustafa Kemal Ataturk.

Ataturk padre della patria turcaIl culto di Ataturk regna ancora sovrano e le sue riforme, nei piloni portanti, sopravvivono a settant’anni dalla sua morte (10 novembre 1938). Nel palazzo di Dolmabahce, dove Ataturk visse, dal suo rientro in patria fino all’ultimo giorno, tutti gli orologi sono puntati sulla fatidica ora della sua morte, le 9,05.

Dolmabahce, palazzo visto dal BosforoOrologio di DolmahbaceDolmahbace Scalinata e lampadarioSalone ingresso DolmabahcePalazzo Dolmahbace Ataturk riformò la scuola e il diritto e diede il via a un processo di occidentalizzazione, laicizzando la società turca, anche se raccomandò di non spingere l’occidentalizzazione fino alle estreme conseguenze. Del suo progetto culturale fece parte integrante l’emancipazione della donna. Anche se non proibì formalmente l’uso del velo, invitò pubblicamente e continuamente a non usarlo. Libertà e diritti civili delle donne furono suoi cavalli di battaglia. Scriveva:”Se ciò che chiamate civiltà è lasciar andare le donne mezze nude per le strade e farle ballare in mezzo a tutti, sappiate che questo è contrario alla nostra mentalità. Non lo vorremmo non lo vorremmo mai.”

Danza del ventre, IstanbulTuttavia, se sotto il profilo legale questi principi rimasero saldi e intangibili, l’emarginazione della donna turca, dopo la seconda guerra mondiale, cominciò ad essere pesante, tanto che nel 1989 ad Ankara, la capitale, si tenne il primo congresso femminista, con il quale si stigmatizzava la molteplice oppressione femminile, che si manifestava in tutte le istituzioni dominate dall’uomo – famiglia, scuola, stato, religione -, anche se c’è da precisare che l’ultimo periodo dell’Impero ottomano aveva fatto riscontrare un fermento eccezionale a favore dell’emancipazione femminile.

Donne nella moschea di Eyup Donne che pregano, Santa SofiaKemal Ataturk aveva anche abolito la poligamia fondando un diritto di famiglia paritario. Certo molte contraddizioni esistono e sussistono nella società turca anch’essa globalizzata, soprattutto nei paesi dell’interno, dove sono tangibili prevaricazioni, superstizioni, riti tribali e religiosi, analfabetismo e acceso nazionalismo. E in politica estera il mancato riconoscimento del “genocidio armeno” del 1915 ad opera dei Giovani Turchi, unitamente alla politica autoritaria del premier Erdogan, costituiscono una grossa remora per l’ingresso nell’UE. Barak Obama si è detto favorevole, ma Sarkozy e la Merkel sono contrari. Una partita aperta, ma che rischia di allargare il solco tra Europa e Turchia, la cui politica marcia verso l’islamizzazione, contraria alla visione kemalista, molto radicata nella coscienza del paese.

 

 

PAMUK, EMULO DI PIRANDELLO E SCIASCIA

Orhan Pamuk 

“L’intera Istanbul è confusa e triste come me”

 

“Finalmente capivo di amare Istanbul proprio per le sue rovine, per la sua malinconia e per il fatto che avesse perduto il prestigio di un tempo”

                                                                                        (Orhan Pamuk, Istanbul)

 Moschea di Solimano

Di questo disagio sociale, politico, internazionale, ma anche esistenziale della Turchia è fedele interprete Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006, che soprattutto in “Istanbul” individua questo iato profondo tra l’essere e il dover essere di una città, che incarna una nazione intera, votata al sogno della modernità – pur con tutte le patenti contraddizioni – o ripiegata in un ritorno ad un integralismo religioso, superato dai tempi e dalla logica, contrario persino alla sua vera identità storica.

Pamuk è contrario all’occidentalizzazione a tutti i costi, alla cementificazione sfrenata – per la verità non così evidente come in altre realtà dell’Oriente, vedi ad esempio Bangkok – e indulge al ricordo romantico di una Istanbul a misura d’uomo, città culturale, città romana, bizantina, ottomana, con il fascino dei suoi minareti, dei suoi vicoli, del suo mare, del Bosforo, del Corno d’Oro, dei palazzi ottomani, di Topkapi, di Santa Sofia.

LTopkapi, dallVenditore di gelatoNel Bazaar di IstanbulCittà in cui si mescolano culture, sedimentate nel tempo e che hanno lasciato tracce, che non possono essere sradicate.

Ma Pamuk si schiera dalla parte della modernità, rivendicando il ruolo dell’intellettuale – accanto a quello politico – e alzando la voce per il riconoscimento del “genocidio armeno”, per il quale è stato posto sotto inchiesta, per sua fortuna archiviata, ma che rinfocola le ire dei “nazionalisti”.

Ma se Pamuk può essere considerato la coscienza critica della Turchia, il letterato di punta della cultura turca, ha tuttavia rifiutato l’etichetta che avrebbero voluto appioppargli di “scrittore della nazione”.

“Sono un uomo fatto di libri” ama dire e si dimostra orgoglioso dei sedicimila volumi della sua biblioteca. La scrittura è per lui la sua essenza, il suo modo di essere. Vivere e scrivere, come Pirandello, per lui fondamentale come Borges; e come Sciascia, di cui possiede l’opera omnia, compresi gli scritti politici, è stato un lettore “bulimico”.

Pamuk avverte il disagio dell’intellettuale relegato in un angolo, in una nazione in cui contano più la politica e il potere: è un disagio universale, denunciato anche dall’altro Premio Nobel 2007 Doris Lessing. Lo scrittore però non può abdicare al suo sogno, al suo ruolo, alla ricerca della felicità possibile, nella scrittura e per la scrittura, che Leonardo Sciascia, sulla falsariga di Borges, individuava in una sorta di stato di grazia.

 

Sciascia e l’Oriente

 La Scala dei Turchi, Realmonte (Agrigento)

Leonardo SciasciaIl mondo orientale vena le opere di Leonardo Sciascia. Ma l’Oriente è visto dal siciliano come un evento temuto, l’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana.

 

«…non del mare che li isola, che li taglia fuori e li fa soli i siciliani diffidano, ma piuttosto di quel mare che ha portato alle loro spiagge i cavalieri berberi e normanni, i militi lombardi, gli esosi baroni di Carlo d’Angiò, gli avventurieri che venivano dalla “avara povertà di Catalogna”, l’armata di Carlo V e quella di Luigi XIV, gli austriaci, i garibaldini, i piemontesi, le truppe di Patton e di Montgomery; e per secoli, continuo flagello, i pirati algerini, che piombavano a prendere i beni e le persone. La paura “storica” è diventata dunque paura “esistenziale”; e si manifesta con una tendenza all’isolamento, alla separazione; degli individui, dei gruppi, delle comunità – e dell’intera regione» (Leonardo Sciascia, La corda pazza, Sicilia e Sicitilitudine)

 

Evento temuto che viene dall’est contraddistinto da una serie di frasi del dialetto siciliano tuttora in uso: “mamma li turchi”, “cu piglia un turcu è so”, “bestemmia comu un turcu”, “fuma comu dudici turchi”, “fici cosi turchi”. Modi di dire, iperboli dell’immaginario collettivo, ormai retaggio, ma significativi.  In Occhio di capra Sciascia ricorda ancora i Turchi, l’harem, il dorato del tesoro, del danaro, come un vagheggiamento estravagante:

 Istanbul, Topkapi, tesoro

Istanbul , Topkapi, Harem

«D’AREMI. Sono “d’aremi”, nelle carte da gioco siciliane, quelle dell’oro. Di danari. Probabilmente dall’arabo “dirham”, dìnaro. Ma per il suono, e per la lontana origine pure araba, resta di estravagante suggestione, a richiamo, la parola “aremme” registrata dal Tommaseo: “l’aremme de’ Turchi, in quanto è chiostro; ma aremme son anco le femmine stesse”. Lontana parola, ma non sfuggita alla caccia dannunziana: “su quel tappeto d’aremme”. Di harem. Ma per me, nel ricordo delle carte da gioco con cui nella mia infanzia molto tempo si trascorreva, la parola soffonde un che di dorato»

Istanbul, una volta dell

Pirandello e i Turchi

Luigi Pirandello Di questa tendenza all’eccesso, all’eresia, all’ "iconoclastia"  del mondo turco, l’umorismo di Luigi Pirandello non poteva non cogliere gli aspetti più contraddittori, messi in luce nella novella “La lega disciolta”, 1910, in un personaggio, Bombolo, che ostenta tutto il carattere di un turco, temuto e riverito:

 

Girgenti, contadino con fez“Bombolo stava tutto il giorno, col berretto rosso da turco sul testone ricciuto, un pugno chiuso sul marmo del tavolino in atto d’impero, l’altra mano al fianco, una gamba qua, una gamba là, guardando tutti in giro, senza disprezzo ma con gravità accigliata, quasi per dire:«I conti qua, signori miei, lo sapete, bisogna farli con me»” 

Bòmbolo ha fondato una lega di “bravi picciotti”. Fanno sparire capi di bestiame ai proprietari di terre, perfino ai baroni; e tutti, dicasi tutti, sono costretti a recarsi in processione da lui, per cercare di recuperarli e, per riaverli, devono pagare.

 

“Aveva un cartolare, Bòmbolo, ch’era come un decimario di comune, dove, accanto a ogni nome erano segnati i beni e i luoghi e il novero delle bestie grosse e delle minute. Lo apriva, chiamava a consulto i più fidati, e stabiliva con essi quali tra i signori dovessero per quella settimana «pagar la tassa»” (Pirandello, La lega disciolta)


Ma l’attività di Bòmbolo è un togliere ai ricchi per dare ai poveri, come egli dice a un suo vessato compaesano:

 

“Oggi com’oggi, un uomo, un figlio di Dio che lavora, povera carne battezzata come Vossignoria, non come me, io sono turco – sissignore – turco… eccolo qua – (e presentava il fez) – dicevamo, un uomo che butta sangue con la zappa in mano dalla punta dell’alba alla calata del sole, senza sedere mai, altro che mandar giù a mezzogiorno un tozzo di pane con la saliva per companatico; un uomo che le torna all’opera masticando l’ultimo boccone, dico, padrone mio, pagarlo tre «tarì», in coscienza, non è peccato? Guardi Don Cosimo Lopes! Dacchè s’è messo a pagare gli uomini a tre lire al giorno, ha da lagnarsi di nulla?”


E in un fondaco delle alture di San Gerlando, Bòmbolo riunisce, ogni settimana, la Lega per integrare i magri guadagni dei contadini al prezzo stabilito di tre lire, detratte le pensioncine settimanali per le famiglie di tre esattori, condannati a tre anni di carcere, che avevano saputo tacere sull’attività della Lega. E lui, nossignori, non prende una lira, anzi ci rimette del suo, perché anche il suocero paga la «tassa». Sono falsità, quelle che si propalano in giro, che lui ciurla nel manico. E’ lui l’apostolo della Giustizia, che controbilancia la “bella giustizia” che si amministra in Sicilia.

 

“Egli lavorava per la giustizia. La soddisfazione morale che gli veniva dal rispetto, dall’amore, dalla gratitudine dei contadini che lo consideravano come il loro re, gli bastava. E tutti in un pugno li teneva”


Tutto così vero che egli dichiara sciolta la Lega, allorquando escono dal carcere i tre esattori condannati e manda il fez  da turco, della sua sovranità, al suocero, come in una deposizione. L’umorismo pirandelliano, così evidente, esplode dirompente in tutta la sua icasticità, quando i furti di bestiame riprendono, all’insaputa di Bòmbolo e dei suoi sodali. E le persone che si rivolgono a lui, per pagare la “tassa” credono una commedia il suo sdegno, come prima avevano ritenuto una commedia la sua pietà per i contadini.


“Ah, dunque, volevano proprio che gli schiattasse nel fegato la vescichetta del fiele?

-Via! puh! paese di carogne!

E mandò dai nonni alle terre di Luna il suo figliolo, facendo dire al suocero che rivoleva subito subito il suo berretto rosso. Turco, di nuovo turco voleva farsi!

E due giorni dopo, raccolte le sue robe, scese al porto di mare e si rimbarcò su un brigantino per il Levante”


Emerge il sentimento del contrario, quel sentirsi ridicolizzato, che porta il personaggio  a volersi fare turco, eretico, a lasciare la sua terra, diventata nella sua violenza e protervia, più eretica dei più eretici turchi. Una novella che fa sorridere, di un sorriso amaro, ma non comica. La situazione del personaggio, schiacciato dagli eventi, potrebbe essere di chiunque e pertanto per Pirandello va rispettata e compresa.

 

 

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