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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

~ "La vita o si vive o si scrive" (Luigi Pirandello) – "Regnando Amicizia ogni cosa va ad unirsi" (Empedocle) – "Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano" (Leonardo Sciascia)

Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

Archivi Mensili: febbraio 2010

27 sabato Feb 2010

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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empedocle, letteratura - articoli, novelle pirandelliane, pirandello, pittura, sciascia, scultura

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PIRANDELLO, SCIASCIA, EMPEDOCLE

E L’INTERPRETAZIONE DELL’ARTE

 

Nell’anno in cui ricorre il  500° anniversario della morte del grande pittore Giorgione (1477-1510) e il 90° anniversario della morte di Amedeo Modigliani (1884-1920) non si poteva passare sotto silenzio quel rapporto privilegiato che Empedocle, Sciascia e Pirandello avevano con la pittura e l’arte in generale.

 

Ma  un’altra ricorrenza si aggiunge relativamente a Pirandello che nel 1910 (cento anni fa) pubblicò la raccolta di novelle “La vita nuda”, così chiamata dal titolo della prima novella, che con il mondo dell’arte (la scultura e anche il disegno) ha molto da spartire.

 

Empedocle e la pittura

 

Empedocle di AgrigentoEmpedocle, pur facendo parte di una famiglia nobile dell’antica Akragas – per i nobili lavorare era considerata allora un’indegnità – fu un grande esperto di “technai”: fu medico, ingegnere, farmacista, biologo, fisico, oltre che poeta e scrittore. Un personaggio geniale a tutto campo, che non è escluso abbia sperimentato per diletto o per motivi d’insegnamento la pittura. Nei suoi frammenti (pochissimi ce ne sono pervenuti, purtroppo) si trova un preciso riferimento all’arte pittorica, in cui dimostra spirito di osservazione e competenza.

 

 

Come esperto pittore

sa i suoi quadri variar,

da appendere in dono ai numi

alle colonne del tempio,

con mano alacre pigliando

ora questo or quel color,

mischiandoli con tale armonia

da ottener immagini simili agli oggetti:

uomini, donne, fiere, piante

e uccelli d’acqua nutriti

oppure i numi di secoli lunghissimi

celebri per gli inni

e di onori eccellenti;

così per certo la mente non s’inganna

se narra che ogni cosa mortale

è fonte soltanto di quegli elementi.

 

Sciascia e la pittura

 

« L’aveva sempre un po’ inquietato l’aspetto stanco della morte, quasi volesse dire che stancamente, lentamente, arrivava quando ormai della vita si era stanchi. Stanca la morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfo della morte e di Guernica. E la morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. «La morte si sconta vivendo». Mendicante, la si mendica. In quanto al diavolo, stanco anche lui, era troppo orribilmente diavolo per essere credibile. […] Ma il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui. E il Cavaliere […], dentro la sua corazza forse altro Durer non aveva messo che la vera morte, il vero diavolo: ed era la vita che si credeva in sé sicura: per quell’armatura, per quelle armi. »

 (Leonardo Sciascia, Il Cavaliere e la Morte)

 

 

Il rapporto con la pittura è fondamentale in Leonardo Sciascia. Diciamo che il suo vedere, il ricordare passa dalle immagini, prima che dal pensare e dallo scrivere. E non solo. La pittura gli fornisce argomenti decisivi, come possiamo dedurre dal romanzo Il cavaliere e la morte, nel quale peraltro si unisce la sua vicenda personale, quasi per premonizione.

In Todo modo il protagonista è un pittore anonimo e l’antagonista, Don Gaetano, è l’esemplificazione del male e del Demonio, desunta da una rappresentazione pittorica che gli aveva fornito l’ispirazione: il quadro del manierista Rutilio Manetti (1571-1639), La tentazione di Sant’Antonio. Una rappresentazione simbolica, con il Santo che legge, mentre il diavolo che porta un paio di occhiali lo sta inducendo all’inganno dell’intelletto: tentazione deleteria quella del sapere.

L’inganno dell’intelletto è quello di rimuovere l’angoscia esistenziale, cercando di ingannare la memoria a non vedere l’abisso che chiama l’abisso, in cui si è cacciata l’umanità.

 

«Che cos’è la chiesa? (…)

«E’ una zattera, La zattera della Medusa, se vuole, ma una zattera».

«Ricordo il quadro di Géricault, ma non ricordo bene che cosa è accaduto su quella zattera, anche se parecchi mesi fa ho letto tutto un libro. Qualcosa di terribile: proverbialmente… Si è salvato qualcuno, su quella zattera?».

«Quindici, su centoquarantanove: forse troppi… Oh no, non dico per la Zattera della Medusa: dico per quella della Chiesa. Il dieci è percentuale piuttosto alta».

«E quello che hanno fatto quei quindici per salvarsi?»

«Non mi interessa. Cioè: non mi interessa dal momento che La zattera della Medusa è metafora, per me, di ciò che è la Chiesa».

«Preferisco perire subito, nel naufragio».

«Ma no, lei sta nuotando per raggiungere la zattera. Perché il naufragio c’è già stato…».  (Leonardo Sciascia, Todo modo)

 

E’ la verità dell’arte, dei libri, della scrittura, della cultura dei valori

, della razionalità, della vera e autentica religione, l’unica a poter far raggiungere all’uomo la salvezza terrena e ultraterrena.

 

Pirandello e l’arte

 

Pirandello amava dipingere. Ad Anticoli Corrado, dove si recava spesso, diventava irreperibile per chiunque: esisteva solo la pittura.

 

«Più d’uno cercava uno scrittore, sì, un Pirandello scrittore. Io ero intento a dipingere. Dapprima non ho risposto. Ho finto di niente. Ma ce n’era uno di quelli che vogliono andare risolutamente fino in fondo alle cose. Mi si è avvicinato: e ancora a chiedermi se ero io, che non poteva sbagliarsi… Alla fine ho detto per tagliar corto ch’ero un pittore e che non conoscevo alcun Pirandello scrittore»

 

Al di là di quest’episodio umoristico, confessato ad un amico, la visione dell’arte aveva una grande importanza per la sua scrittura. Nell’arte è immanente il contrasto tra vita e forma, perché pur volendo l’artista raggiungere l’assoluto non può fissare la vita se non in una forma, che in quanto tale rimane fredda forma che non vive, perché la vita è flusso inarrestabile. Già nella novella La vita nuda questo contrasto era emerso nella scultura-simbolo di una donna nuda bellissima – la protagonista- che deve sposare la morte, uno scheletro panneggiato, a rappresentare la vita sempre viva e trionfante sulla la morte che vorrebbe ghermirla. Nella commedia Diana e la Tuda, che Pirandello attinge a piene mani dalla novella La vita nuda, viene portato all’esasperazione il sogno di una perfetta bellezza dell’arte dello scultore Sirio e il sogno di un’assoluta pienezza della vita del suo maestro Giuncano, entrambi irrealizzabili.

 

GIUNCANO: Fanne ora una statua! Tutta un fremito continuo di vita: ogni attimo un’altra!|

SIRIO: Già! E se non la fermi in un gesto in cui consista, che è? Nulla.

TUDA: Come, come? Io, nulla!

GIUNCANO: Vita! Vita!

SIRIO: – che passa –

GIUNCANO: – appunto! –

SIRIO: – oggi non più quella di ieri, domani non più questa d’oggi: ogni attimo un’altra: tante! Io la faccio una: quella (indica di là, la statua) per sempre!

TUDA: Grazie! Una statua.

GIUNCANO: Una – e per sempre – che non si muova più?

SIRIO: E’ l’ufficio dell’arte –

GIUNCANO: (subito, forte) – e della morte…

 

LA VITA NUDA

Già pubblicata nel 1910, la raccolta La vita nuda includeva diciassette novelle, che vennero ridotte a quindici quando fu ripubblicata nel 1922, diventando il secondo volume delle Novelle per un anno. Include racconti le cui prime edizioni risalgono agli anni fra il 1902 ed il 1907: del 1902 quella di Il dovere del medico (da cui l’autore trasse nel 1913 il dramma Il dovere del medico); del 1904 quelle di Nel segno, di La fedeltà del cane e di La buon’anima; del 1905 quelle di Acqua amara, di Paolino e Mimì, di La casa del Granella e di Senza malizia; del 1906 quelle di La toccatina, di Tutto per bene (da cui l’autore trasse nel 1920 il dramma Tutto per bene) e di L’uscita del vedovo; del 1907 quelle di La vita nuda, di Pari e di Distrazione.

– Un morto, che pure è morto, caro mio, vuole anche lui la sua casa. E se è un morto per bene, bella la vuole; e ha ragione! Da starci comodo, e di marmo la vuole, e decorata anche. E se poi è un morto che può spendere, la vuole anche con qualche profonda… come si dice? allegoria, già!, con qualche profonda allegoria d’un grande scultore come me: una bella lapide latina: HIC JACET… chi fu, chi non fu… un bel giardinetto attorno, con l’insalatina e tutto, e una bella cancellata a riparo dei cani e dei…
– M’hai seccato! – urlò, voltandosi tutt’acceso e in sudore, Costantino Pogliani.
Ciro Colli levò la testa dal petto, con la barbetta a punta ridotta ormai un gancio, a furia di torcersela; stette un pezzo a sbirciar l’amico di sotto al cappelluccio a pan di zucchero calato sul naso, e con placidissima convinzione disse, quasi posando la parola:
– Asino.
Là.
Stava seduto su la schiena; le gambe lunghe distese, una qua, una là, sul tappetino che il Pogliani aveva già bastonato ben bene e messo in ordine innanzi al canapè.
Si struggeva dalla stizza il Pogliani nel vederlo sdrajato lí, mentr’egli s’affannava tanto a rassettar lo studio, disponendo i gessi in modo che facessero bella figura, buttando indietro i bozzettacci ingialliti e polverosi, che gli eran ritornati sconfitti dai concorsi, portando avanti con precauzione i cavalletti coi lavori che avrebbe potuto mostrare, nascosti ora da pezze bagnate. E sbuffava.
– Insomma, te ne vai, sí o no?
– No.
– Non mi sedere lí sul pulito, almeno, santo Dio! Come te lo devo dire che aspetto certe signore?
– Non ci credo.
– Ecco qua la lettera. Guarda! L’ho ricevuta ieri dal commendator Seralli: Egregio amico, La avverto che domattina, verso le undici…
– Sono già le undici?
– Passate!
– Non ci credo. Seguita!
– …verranno a trovarLa, indirizzate da me, la signora Con… Come dice qua?
– Confucio.
– Cont… o Consalvi, non si legge bene, e la figliuola, le quali hanno bisogno dell’opera sua. Sicuro che… ecc. ecc.
– Non te la sei scritta da te, codesta lettera? – domandò Ciro Colli, riabbassando la testa sul petto.
– Imbecille! – esclamò, gemette quasi, il Pogliani che, nell’esasperazione, non sapeva piú se piangere o ridere.
Il Colli alzò un dito e fece segno di no.
– Non me lo dire. Me n’ho per male. Perché, se fossi imbecille, ma sai che personcina per la quale sarei io? Guarderei la gente come per compassione. Ben vestito, ben calzato, con una bella cravatta elioprò… eliotrò… come si dice?… tropio, e il panciotto di velluto nero come il tuo… Ah, quanto mi piacerei col panciotto di velluto come il tuo, scannato miserabile che non sono altro! Senti. Facciamo cosí, per il tuo bene. Se è vero che codeste signore Confucio debbono venire rimettiamo in disordine lo studio, o si faranno un pessimo concetto di te. Sarebbe meglio che ti trovassero anche intento al lavoro, col sudore… come si dice? col pane… insomma col sudore del pane della tua fronte. Piglia un bel tocco di creta, schiaffalo su un cavalletto e comincia alla brava un bozzettuccio di me cosí sdrajato. Lo intitolerai Lottando, e vedrai che te lo comprano subito per la Galleria Nazionale. Ho le scarpe… sí, non tanto nuove; ma tu, se vuoi, puoi farmele nuovissime, perché come scultore, non te lo dico per adularti, sei un bravo calzolajo…
Costantino Pogliani, intento ad appendere alla parete certi cartoni, non gli badava piú. Per lui, il Colli era un disgraziato fuori della vita, ostinato superstite d’un tempo già tramontato, d’una moda già smessa tra gli artisti; sciamannato, inculto, noncurante e con l’ozio ormai incarognito nelle ossa. Peccato veramente, perché poi, quand’era in tèmpera di lavorare, poteva dar punti ai migliori. E lui, il Pogliani, ne sapeva qualche cosa, ché tante volte, lí nello studio, con due tocchi di pollice impressi con energica sprezzatura s’era veduto metter su d’un tratto qualche bozzetto che gli cascava dallo stento. Ma avrebbe dovuto studiare, almeno un po’ di storia dell’arte, ecco; regolar la propria vita; aver un po’ di cura della persona: cosí cascante di noja e con tutta quella trucia addosso, era inaccostabile, via! Lui, il Pogliani… ma già lui aveva fatto finanche due anni d’università, e poi… signore, campava sul suo… si vedeva…
Due discreti picchi alla porta lo fecero saltare dallo sgabello su cui era montato per appendere i cartoni.
– Eccole! E adesso? – disse al Colli, mostrandogli le pugna.
– Loro entrano e io me ne esco, – rispose il Colli senza levarsi. – Ne stai facendo un caso pontificale! Del resto, potresti anche presentarmi, pezzo d’egoista!
Costantino Pogliani corse ad aprir la porta, rassettandosi su la fronte il bel ciuffo biondo riccioluto.
Prima entrò la signora Consalvi, poi la figliuola: questa, in gramaglie, col volto nascosto da un fitto velo di crespo e con in mano un lungo rotolo di carta; quella, vestita d’un bell’abito grigio chiaro, che le stava a pennello su la persona formosa. Grigio l’abito, grigi i capelli, giovanilmente acconciati sotto un grazioso cappellino tutto contesto di violette.
La signora Consalvi dava a veder chiaramente che si sapeva ancor fresca e bella, a dispetto dell’età. Poco dopo, sollevando il crespo sul cappello, non meno bella si rivelò la figliuola, quantunque pallida e dimessa nel chiuso cordoglio.
Dopo i primi convenevoli, il Pogliani si vide costretto a presentare il Colli che era rimasto lí con le mani in tasca, e mezza sigaretta spenta in bocca, il cappelluccio ancora sul naso; e non accennava d’andarsene.
– Scultore? – domandò allora la signorina Consalvi invermigliandosi d’un subito per la sorpresa: – Colli… Ciro?
– Codicillo, già! – disse questi impostandosi su l’attenti, togliendosi il cappelluccio e scoprendo le folte ciglia giunte e gli occhi accostati al naso. – Scultore? perché no? Anche scultore.
– Ma mi avevano detto, – riprese, impacciata, contrariata, la signorina Consalvi, – che lei non stava piú a Roma…
– Ecco… già! io… come si dice? Passeggio, – rispose il Colli. – Passeggio per il mondo, signorina. Stavo prima ozioso fisso a Roma, perché avevo vinto la cuccagna: il Pensionato. Poi…
La signorina Consalvi guardò la madre che rideva, e disse:
– Come si fa?
– Debbo andar via? – domandò il Colli.
– No, no, al contrario, – s’affrettò a rispondere la signorina. – La prego anzi di rimanere, perché…
– Combinazioni! – esclamò la madre; poi, rivolgendosi al Pogliani: – Ma si rimedierà in qualche modo… Loro sono amici, non è vero?
– Amicissimi, – rispose subito il Pogliani.
E il Colli:
– Mi voleva cacciar via a pedate un momento fa, si figuri!
– E sta’ zitto! – gli diede su la voce il Pogliani. – Prego, signore mie, s’accomodino. Di che si tratta?
– Ecco, – cominciò la signora Consalvi, sedendo. – La mia povera figliuola ha avuto la sciagura di perdere improvvisamente il fidanzato.
– Ah sí?
– Oh!
– Terribile. Proprio alla vigilia delle nozze, si figurino! Per un accidente di caccia. Forse l’avranno letto su i giornali. Giulio Sorini.
– Ah, Sorini, già! – disse il Pogliani. – Che gli esplose il fucile?
– Su i primi del mese scorso… cioè, no… l’altro… insomma, fanno ora tre mesi. Il poverino era un po’ nostro parente: figlio d’un mio cugino che se n’andò in America dopo la morte della moglie. Ora, ecco, Giulietta (perché si chiama Giulia anche lei)…
Un bell’inchino da parte del Pogliani.
– Giulietta, – seguitò la madre, – avrebbe pensato d’innalzare un monumento nel Verano alla memoria del fidanzato, che si trova provvisoriamente in un loculo riservato; e avrebbe pensato di farlo in un certo modo… Perché lei, mia figlia, ha avuto sempre veramente una grande passione per il disegno.
– No… cosí… – interruppe, timida, con gli occhi bassi, la signorina in gramaglie. – Per passatempo, ecco..
– Scusa, se il povero Giulio voleva anzi che prendessi lezioni…
– Mamma, ti prego… – insisté la signorina. – Io ho veduto in una rivista illustrata il disegno del monumento funerario del signore qua… del signor Colli, che mi è molto piaciuto, e…
– Ecco, già, – appoggiò la madre, per venire in ajuto alla figliuola che si smarriva.
– Però, – soggiunse questa, – con qualche modificazione l’avrei pensato io…
– Scusi, qual è? – domandò il Colli. – Ne ho fatti parecchi, io, di questi disegni, con la speranza di avere almeno qualche commissione dai morti, visto che i vivi…
– Lei, scusi, signorina, – interloquí il Pogliani, un po’ piccato nel vedersi messo cosí da parte, – ha ideato un monumento su qualche disegno del mio amico?
– No, proprio uguale, no… ecco, – rispose vivacemente la signorina. – Il disegno del signor Colli rappresenta la Morte che attira la Vita, se non sbaglio…
– Ah, ho capito! – esclamò il Colli. – Uno scheletro col lenzuolo, è vero? che s’indovina appena, rigido, tra le pieghe, e ghermisce la Vita, un bel tocco di figliuola che non ne vuol sapere… Sí, sí… Bellissimo! Magnifico! Ho capito.
La signora Consalvi non poté tenersi di ridere di nuovo, ammirando la sfacciataggine di quel bel tipo.
– Modesto, sa? – disse il Pogliani alla signora. – Genere particolare.
– Sú, Giulia, – fece la signora Consalvi levandosi. – Forse è meglio che tu faccia vedere senz’altro il disegno.
– Aspetta, mamma. – pregò la signorina. – È bene spiegarsi prima con il signor Pogliani, francamente. Quando mi nacque l’idea del monumento, devo confessare che pensai subito al signor Colli. Sí. Per via di quel disegno. Ma mi dissero, ripeto, che Lei non stava piú a Roma. Allora m’ingegnai d’adattare da me il suo disegno all’idea al sentimento mio, a trasformarlo cioè in modo che potesse rappresentare il mio caso e il proposito mio. Mi spiego?
– A meraviglia! – approvò il Pogliani.
– Lasciai, – seguitò la signorina, – le due figurazioni della Morte e della Vita, ma togliendo affatto la violenza dell’aggressione, ecco. La Morte non ghermisce piú la Vita, ma questa anzi, volentieri, rassegnata al destino, si sposa alla Morte.
– Si sposa? – fece il Pogliani, frastornato.
– Alla Morte! – gli gridò il Colli. – Lascia dire!
– Alla Morte, – ripeté con un modesto sorriso la signorina. – E ho voluto anzi rappresentare chiaramente il simbolo delle nozze. Lo scheletro sta rigido, come lo ha disegnato il signor Colli, ma di tra le pieghe del funebre paludamento vien fuori, appena, una mano che regge l’anello nuziale. La Vita, in atto modesto e dimesso, si stringe accanto allo scheletro e tende la mano a ricevere quell’anello.
– Bellissimo! Magnifico! Lo vedo! – proruppe allora il Colli. – Questa è un’altra idea! stupenda! un’altra cosa, diversissima! stupenda! L’anello… il dito… Magnifico!
– Ecco, sí, – soggiunse la signorina, invermigliandosi di nuovo a quella lode impetuosa. – Credo anch’io che sia un po’ diversa. Ma è innegabile che ho tratto partito dal disegno e che…
– Ma non se ne faccia scrupolo! – esclamò il Colli. – La sua idea è molto piú bella della mia, ed è sua! Del resto, la mia… chi sa di chi era!
La signorina Consalvi alzò le spalle e abbassò gli occhi.
– Se devo dire la verità, – interloquí la madre, scotendosi, – lascio fare la mia figliuola, ma a me l’idea non piace per nientissimo affatto.
– Mamma, ti prego… – ripeté la figlia; poi volgendosi al Pogliani, riprese: – Ora, ecco, io domandai consiglio al commendator Seralli, nostro buon amico…
– Che doveva fare da testimonio alle nozze, – aggiunse la madre, sospirando.
– E avendoci il commendatore fatto il nome di lei, – seguitò l’altra, – siamo venute per…
– No, no, scusi, signorina, – s’affrettò a dire il Pogliani. – Poiché ha trovato qua il mio amico…
– Oh fa’ il piacere! Non mi seccare! – proruppe il Colli, scrollandosi furiosamente e avviandosi per uscire.
Il Pogliani lo trattenne per un braccio, a viva forza.
– Scusa, guarda… se la signorina… non hai inteso? s’è rivolta a me perché ti sapeva fuori di Roma…
– Ma se ha cambiato tutto! – esclamò il Colli, divincolandosi. – Lasciami! Che c’entro piú io? È venuta qua da te! Scusi, signorina; scusi, signora, io le riverisco..
– Oh sai! – disse il Pogliani, risoluto, senza lasciarlo. – Io non lo faccio; non lo farai neanche tu, e non lo farà nessuno dei due…
– Ma, scusino… insieme? – propose allora la madre. – Non potrebbero insieme?
– Sono dolente d’aver cagionato… – si provò ad aggiungere la signorina.
– Ma no! – dissero a un tempo il Colli e il Pogliani.
Seguitò il Colli:
– Io non c’entro piú per nulla, signorina! E poi, guardi, non ho piú studio, non so piú concluder nulla, altro che di dire male parole a tutti quanti… Lei deve assolutamente costringere quest’imbecille qua…
– È inutile, sai? – disse il Pogliani. – O insieme, come propone la signora, o io non accetto.
– Permette, signorina? – fece allora il Colli, stendendo una mano verso il rotolo di carta ch’ella teneva accanto sul canapè. – Mi muojo dal desiderio di veder il suo disegno. Quando l’avrò veduto…
– Oh, non s’immagini nulla di straordinario, per carità! – premise la signorina Consalvi, svolgendo con le mani tremolanti il rotolo. – So tenere appena la matita… Ho buttato giú quattro segnacci, tanto per render l’idea… ecco…
– Vestita?! – esclamò subito il Colli, come se avesse ricevuto un urtone guardando il disegno.
– Come… vestita? – domandò, timida e ansiosa la signorina.
– Ma no, scusi! – riprese con calore il Colli. – Lei ha fatto la Vita in camicia… cioè, con la tunica, diciamo! Ma no, nuda, nuda, nuda! la Vita dev’esser nuda, signorina mia, che c’entra!
– Scusi, – disse con gli occhi bassi, la signorina Consalvi. – La prego di guardar piú attentamente.
– Ma sí, vedo, – replicò con maggior vivacità il Colli. – Lei ha voluto raffigurarsi qua, ha voluto fare il suo ritratto; ma lasciamo andare che Lei è molto piú bella; qua siamo nel campo… nel camposanto dell’arte, scusi! e questa vuol essere la Vita che si sposa alla Morte. Ora, se lo scheletro è panneggiato, la Vita dev’esser nuda, c’è poco da dire; tutta nuda e bellissima, signorina, per compensare col contrasto la presenza macabra dello scheletro involto! Nuda, Pogliani, non ti pare? Nuda, è vero, signora? Tutta nuda, signorina mia! Nudissima, dal capo alle piante! Creda pure che altrimenti, cosí, verrebbe una scena da ospedale: quello col lenzuolo, questa con l’accappatojo… Dobbiamo fare scultura, e non c’è ragioni che tengano!
– No, no, scusi, – disse la signorina Consalvi alzandosi con la madre. – Lei avrà forse ragione, dal lato dell’arte; non nego, ma io voglio dire qualche cosa, che soltanto cosí potrei esprimere. Facendo come vorrebbe Lei, dovrei rinunciarvi.
– Ma perché, scusi? perché Lei vede qua la sua persona e non il simbolo, ecco! Dire che sia bello, scusi, non si potrebbe dire…
E la signorina:
– Niente bello, lo so; ma appunto come dice lei, non il simbolo ho voluto rappresentare, ma la mia persona, il mio caso, la mia intenzione, e non potrei che cosí. Penso poi anche al luogo dove il monumento dovrà sorgere… Insomma, non potrei transigere.
Il Colli aprí le braccia e s’insaccò nelle spalle.
– Opinioni!
– O piuttosto, – corresse la signorina con un dolce, mestissimo sorriso, – un sentimento da rispettare!
Stabilirono che i due amici si sarebbero intesi per tutto il resto col commendator Seralli, e poco dopo la signora Consalvi e la figliuola in gramaglie tolsero commiato.
Ciro Colli – due passetti – trallarallèro trallarallà – girò sopra un calcagno e si fregò le mani.

Circa una settimana dopo, Costantino Pogliani si recò in casa Consalvi per invitar la signorina a qualche seduta per l’abbozzo della testa.
Dal commendator Seralli, amico molto intimo della signora Consalvi, aveva saputo che il Sorini, sopravvissuto tre giorni allo sciagurato incidente, aveva lasciato alla fidanzata tutta intera la cospicua fortuna ereditata dal padre, e che però quel monumento doveva esser fatto senza badare a spese.
Epuisé s’era dichiarato il commendator Seralli delle cure, dei pensieri, delle noje che gli eran diluviati da quella sciagura; noje, cure, pensieri, aggravati dal caratterino un po’… emporté, voilà, della signorina Consalvi, la quale, sí, poverina, meritava veramente compatimento; ma pareva, buon Dio, si compiacesse troppo nel rendersi piú grave la pena. Oh, uno choc orribile, chi diceva di no? un vero fulmine a ciel sereno! E tanto buono lui, il Sorini, poveretto! Anche un bel giovine, sí. E innamoratissimo! La avrebbe resa felice senza dubbio, quella figliuola. E forse per questo era morto.
Pareva anche fosse morto e fosse stato tanto buono per accrescer le noje del commendator Seralli.
Ma figurarsi che la signorina non aveva voluto disfarsi della casa, che egli, il fidanzato, aveva già messa sú di tutto punto: un vero nido, un joli rêve de luxe et de bien-être. Ella vi aveva portato tutto il suo bel corredo da sposa, e stava lí gran parte del giorno, a piangere, no; a straziarsi fantasticando intorno alla sua vita di sposina cosí miseramente stroncata… arrachée…
Difatti il Pogliani non trovò in casa la signorina Consalvi. La cameriera gli diede l’indirizzo della casa nuova, in via di Porta Pinciana. E Costantino Pogliani, andando, si mise a pensare all’angosciosa, amarissima voluttà che doveva provare quella povera sposina, già vedova prima che maritata, pascendosi nel sogno – lí quasi attuato – d’una vita che il destino non aveva voluto farle vivere.
Tutti quei mobili nuovi, scelti chi sa con quanta cura amorosa da entrambi gli sposini, e festivamente disposti in quella casa che tra pochi giorni doveva essere abitata, quante promesse chiudevano?
Riponi in uno stipetto un desiderio: àprilo: vi troverai un disinganno. Ma lí, no: tutti quegli oggetti avrebbero custodito, con le dolci lusinghe, i desiderii e le promesse e le speranze. E come dovevano esser crudeli gl’inviti che venivano alla sposina da quelle cose intatte attorno!
– In un giorno come questo! – sospirò Costantino Pogliani.
Si sentiva già nella limpida freschezza dell’aria l’alito della primavera imminente; e il primo tepore del sole inebriava.
Nella casa nuova, con le finestre aperte a quel sole, povera signorina Consalvi, chi sa che sogni e che strazio!
La trovò che disegnava, innanzi a un cavalletto, il ritratto del fidanzato. Con molta timidezza lo ritraeva ingrandito da una fotografia di piccolo formato, mentre la madre, per ingannare il tempo, leggeva un romanzo francese della biblioteca del commendator Seralli.
Veramente la signorina Consalvi avrebbe voluto star sola lí, in quel suo nido mancato. La presenza della madre la frastornava. Ma questa, temendo fra sé che la fanciulla, nell’esaltazione, si lasciasse andare a qualche atto di romantica disperazione, voleva seguirla e star lí, gonfiando in silenzio e sforzandosi di frenar gli sbuffi per quell’ostinato capriccio intollerabile.
Rimasta vedova giovanissima, senza assegnamenti, con quell’unica figliuola, la signora Consalvi non aveva potuto chiuder le porte alla vita e porvi il dolore per sentinella come ora pareva volesse fare la figliuola.
Non diceva già che Giulietta non dovesse piangere per quella sua sorte crudele; ma credeva, come il suo intimo amico commendator Seralli, credeva che… ecco, sí, ella esagerasse un po’ troppo e che, avvalendosi della ricchezza che il povero morto le aveva lasciata, volesse concedersi il lusso di quel cordoglio smodato. Conoscendo pur troppo le crude e odiose difficoltà dell’esistenza, le forche sotto alle quali ella, ancora addolorata per la morte del marito, era dovuta passare per campar la vita, le pareva molto facile quel cordoglio della figliuola; e le sue gravi esperienze glielo facevano stimare quasi una leggerezza scusabile, sí, certamente, ma a patto che non durasse troppo… – voilà, come diceva sempre il commendator Seralli.
Da savia donna, provata e sperimentata nel mondo, aveva già, piú d’una volta, cercato di richiamare alla giusta misura la figliuola – invano! Troppo fantastica, la sua Giulietta aveva, forse piú che il sentimento del proprio dolore, l’idea di esso. E questo era un gran guajo! Perché il sentimento, col tempo, si sarebbe per forza e senza dubbio affievolito, mentre l’idea no, l’idea s’era fissata e le faceva commettere certe stranezze come quella del monumento funerario con la Vita che si marita alla Morte (bel matrimonio!) e quest’altra qua della casa nuziale da serbare intatta per custodirvi il sogno quasi attuato d’una vita non potuta vivere.
Fu molto grata la signora Consalvi al Pogliani di quella visita.
Le finestre erano aperte veramente al sole, e la magnifica pineta di Villa Borghese, sopra l’abbagliamento della luce che pareva stagnasse su i vasti prati verdi, sorgeva alta e respirava felice nel tenero limpidissimo azzurro del cielo primaverile.
Subito la signorina Consalvi accennò di nascondere il disegno, alzandosi; ma il Pogliani la trattenne con dolce violenza.
– Perché? Non vuol lasciarmi vedere?
– È appena cominciato…
– Ma cominciato benissimo! – esclamò egli, chinandosi a osservare. – Ah, benissimo… Lui, è vero? il Sorini… Già, ora mi pare di ricordarmi bene, guardando il ritratto. Sí, sí… L’ho conosciuto… Ma aveva questa barbetta?
– No, – s’affrettò a rispondere la signorina. – Non l’aveva piú ultimamente.
– Ecco, mi pareva… Bel giovine, bel giovine…
– Non so come fare, – riprese la signorina. – Perché questo ritratto non risponde… non è piú veramente l’immagine che ho di lui, in me.
– Eh sí, – riconobbe subito il Pogliani, – meglio, lui, molto piú… piú animato, ecco… piú sveglio, direi…
– Se l’era fatto in America, codesto ritratto, – osservò la madre, – prima che si fidanzassero, naturalmente…
– E non ne ho altri! – sospirò la signorina. – Guardi: chiudo gli occhi, cosí, e lo vedo preciso com’era ultimamente; ma appena mi metto a ritrarlo, non lo vedo piú: guardo allora il ritratto, e lí mi pare che sia lui, vivo. Mi provo a disegnare, e non lo ritrovo piú in questi lineamenti. È una disperazione!
– Ma guarda, Giulia, – riprese allora la madre, con gli occhi fissi sul Pogliani, – tu dicevi la linea del mento, volendo levare la barba… Non ti pare che qua nel mento, il signor Pogliani…
Questi arrossí, sorrise. Quasi senza volerlo, alzò il mento, lo presentò; come se con due dita, delicatamente, la signorina glielo dovesse prendere per metterlo lí, nel ritratto del Sorini.
La signorina levò appena gli occhi a guardarglielo, timida e turbata. (Non aveva proprio alcun riguardo per il suo lutto, la madre!)
– E anche i baffi, oh! Guarda!… – aggiunse la signora Consalvi, senza farlo apposta. – Li portava cosí ultimamente il povero Giulio, non ti pare?
– Ma i baffi, – disse, urtata, la signorina, – che vuoi che siano? Non ci vuol niente a farli!
Costantino Pogliani, istintivamente, se li toccò. Sorrise di nuovo. Confermò:
– Niente, già…
S’accostò quindi al cavalletto e disse:
– Guardi, se mi permette… vorrei farle vedere, signorina… Cosí, in due tratti, qua… non s’incomodi, per carità! qua in quest’angolo… (poi si cancella)… com’io ricordo il povero Sorini.
Sedette e si mise a schizzare, con l’ajuto della fotografia, la testa del fidanzato, mentre dalle labbra della signorina Consalvi, che seguiva i rapidi tocchi con crescente esultanza di tutta l’anima protesa e spirante, scattavano di tratto in tratto certi sí… sí… sí…. che animavano e quasi guidavano la matita. Alla fine, non poté piú trattenere la propria commozione:
– Sí, oh guarda, mamma… è lui… preciso… oh, lasci… grazie… Che felicità, poter cosí… è perfetto… è perfetto…
– Un po’ di pratica, – disse, levandosi, il Pogliani, con umiltà che lasciava trasparire il piacere per quelle vivissime lodi.
– E poi, le dico, lo ricordo tanto bene, povero Sorini…
La signorina Consalvi rimase a rimirare il disegno, insaziabilmente.
– Il mento, sí… è questo… preciso… Grazie, grazie…
In quel punto il ritrattino del Sorini che serviva da modello, scivolò dal cavalletto, e la signorina, ancora tutta ammirata nello schizzo del Pogliani, non si chinò a raccoglierlo.
Lí per terra, quell’immagine già un po’ sbiadita apparve piú che mai malinconica, come se comprendesse che non si sarebbe rialzata mai piú.
Ma si chinò a raccoglierla il Pogliani, cavallerescamente.
– Grazie, – gli disse la signorina. – Ma io adesso mi servirò del suo disegno, sa? Non lo guarderò piú, questo brutto ritratto.
E d’improvviso, levando gli occhi, le sembrò che la stanza fosse piú luminosa. Come se quello scatto d’ammirazione le avesse a un tratto snebbiato il petto da tanto tempo oppresso, aspirò con ebbrezza, bevve con l’anima quella luce ilare viva, che entrava dall’ampia finestra aperta all’incantevole spettacolo della magnifica villa avvolta nel fascino primaverile.
Fu un attimo. La signorina Consalvi non poté spiegarsi che cosa veramente fosse avvenuto in lei. Ebbe l’impressione improvvisa di sentirsi come nuova fra tutte quelle cose nuove attorno. Nuova e libera; senza piú l’incubo che l’aveva soffocata fino a poc’anzi. Un alito, qualche cosa era entrata con impeto da quella finestra a sommuovere tumultuosamente in lei tutti i sentimenti, a infondere quasi un brillío di vita in tutti quegli oggetti nuovi, a cui ella aveva voluto appunto negar la vita, lasciandoli intatti lí, come a vegliare con lei la morte d’un sogno.
E, udendo il giovane elegantissimo scultore con dolce voce lodare la bellezza di quella vista e della casa, conversando con la madre che lo invitava a veder le altre stanze, seguí l’uno e l’altra con uno strano turbamento, come se quel giovine, quell’estraneo, stesse davvero per penetrare in quel suo sogno morto, per rianimarlo.
Fu cosí forte questa nuova impressione, che non poté varcar la soglia della camera da letto; e vedendo il giovine e la madre scambiarsi lí un mesto sguardo di intelligenza, non poté piú reggere; scoppiò in singhiozzi.
E pianse, sí, pianse ancora per la stessa cagione per cui tante altre volte aveva pianto; ma avvertí confusamente che, tuttavia, quel pianto era diverso, che il suono di quei suoi singhiozzi non le destava dentro l’eco del dolore antico, le immagini che prima le si presentavano. E meglio lo avvertí, allorché la madre accorsa prese a confortarla come tant’altre volte la aveva confortata, usando le stesse parole, le stesse esortazioni. Non poté tollerarle; fece un violento sforzo su se stessa; smise di piangere; e fu grata al giovine che, per distrarla, la pregava di fargli vedere la cartella dei disegni scorta lí su una sedia a libriccino.
Lodi, lodi misurate e sincere, e appunti, osservazioni, domande, che la indussero a spiegare, a discutere; e infine un’esortazione calda a studiare, a seguir con fervore quella sua disposizione all’arte, veramente non comune. Sarebbe stato un peccato! un vero peccato! Non s’era mai provata a trattare i colori? Mai, mai? Perché? Oh, non ci sarebbe mica voluto molto con quella preparazione, con quella passione…
Costantino Pogliani si profferse d’iniziarla; la signorina Consalvi accettò; e le lezioni cominciarono il giorno appresso, lí, nella casa nuova, che invitava ed attendeva.

Non piú di due mesi dopo, nello studio del Pogliani, ingombro già d’un colossale monumento funerario tutto abbozzato alla brava, Ciro Colli, sdrajato sul canapè col vecchio camice di tela stretto alle gambe, fumava la pipa e teneva uno strano discorso allo scheletro, fissato diritto su la predellina nera, che s’era fatto prestare per modello da un suo amico dottore.
Gli aveva posato un po’ a sghembo sul teschio il suo berretto di carta; e lo scheletro pareva un fantaccino su l’attenti, ad ascoltar la lezione che Ciro Colli, scultore-caporale, tra uno sbuffo e l’altro di fumo gl’impartiva:
– E tu perché te ne sei andato a caccia? Vedi come ti sei conciato, caro mio? Brutto… le gambe secche… tutto secco… Diciamo la verità, ti pare che codesto matrimonio si possa combinare? La vita, caro… guardala là, ma eh! che tocco di figliolona senza risparmio m’è uscita dalle mani! Ti puoi sul serio lusingare che quella lí ti voglia sposare? Ti s’è accostata, timida e dimessa; lagrime giú a fontana… ma mica per ricevere l’anello nuziale… levatelo dal capo! Spèndola, caro, spèndola giú la borsa… Gliel’hai data? E ora che vuoi da me? Inutile dire, se me lo credevo! Povero mondo e chi ci crede! S’è messa a studiar pittura, la Vita, e il suo maestro sai chi è? Costantino Pogliani. Scherzo che passa la parte, diciamo la verità. Se fossi in te, caro mio, lo sfiderei. Hai sentito stamane? Ordine positivo: non vuole, mi pro-i-bi-sce assolutamente che io la faccia nuda. Eppure lui, per quanto somaro, scultore è, e sa bene che per vestirla bisogna prima farla nuda… Ma te lo spiego io il fatto com’è: non vuole che si veda su quel nudo là meraviglioso il volto della sua signorina… è salito lassú, hai visto? su tutte le furie, e con due colpi di stecca, taf! taf! me l’ha tutto guastato… sai dirmi perché, fantaccino mio? Gli ho gridato: "Lascia! Te la vesto subito! Te la vesto!". Ma che vestire! Nuda la vogliono ora… la Vita nuda, nuda e cruda com’è, caro mio! sono tornati al mio primo disegno, al simbolo: via il ritratto! Tu che ghermisci, bello mio, e lei che non ne vuol sapere… Ma perché te ne sei andato a caccia? me lo dici?

 

23 martedì Feb 2010

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letteratura - articoli, novelle pirandelliane, pirandello

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LUIGI PIRANDELLO

 

“L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA”

 

C’è una disperazione tutta carnale nell’Uomo dal fiore in bocca; ma così spaventosa, così inconsolabile, da toccare, per un’altra strada, il soprannaturale. Il fondamentale squilibrio tra un’intelligenza così alta e lo spirito; o, se vogliamo dire diversamente, la insufficienza di quell’intelletto ad intendere bene quel che non fosse sensibile e razionale, dovevano dare i frutti più dovizioci, ogni volta che Pirandello toccava i temi fondamentali della vita dell’uomo. Quando egli batteva alle porte dell’ingiustizia, del male, del dolore, della morte, e, giunto là, non sa capire e spiegare il perché; né una certezza morale d’ordine nell’apparente disordine lo soccorre; allora egli si leva a volo. L’artista che dubita del mistero, spalanca agli altri le porte del mistero.

Nel suo trattato filosofico “Del sentimento tragico della vita” (1913) Miguel De Unamuno  affermava che l’essenza dell’uomo consiste nell’anelito all’indefinita conservazione di se stesso. L’uomo pirandelliano,  pur non sapendo il come e il quando, è invece un essere braccato dalla morte, che se la porta addosso come un insetto schifoso, invisibile, ma reale. Ma cosa succede quando l’uomo sa che quest’evento, ormai certo, è ravvicinato? 

La risposta ci può venire soltanto dalle parole del Premio Nobel nella novella Caffè notturno (1918), successivamente intitolata La morte addosso (1923) e con poche varianti diventata “dialogo” in un atto L’uomo dal fiore in bocca (1923), uno dei capolavori, forse il più rappresentato in tutto il mondo, un dramma con tanti interrogativi sempre attuali.

 
L

LA MORTE ADDOSSO

 

Pirandello al lavoro– Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è… Ha perduto il treno?

– Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.

– Poteva corrergli dietro!

– Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegl’impicci di pacchi, pacchetti, pacchettini… Piú carico d’un somaro! Ma le donne – commissioni… commissioni… – non la finiscono piú! Tre minuti, creda, appena sceso dalla vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita: due pacchetti per ogni dito.

– Doveva esser bello… Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati nella vettura.

– E mia moglie? Ah sí! E le mie figliuole? E tutte le loro amiche?

– Strillare! Mi ci sarei spassato un mondo.

– Perché lei forse non sa che cosa diventano le donne in villeggiatura!

– Ma sí che lo so! Appunto perché lo so. Dicono tutte che non avranno bisogno di niente.

– Questo soltanto? Capaci anche di sostenere che ci vanno per risparmiare! Poi, appena arrivano in un paesello qua dei dintorni, piú brutto è, piú misero e lercio, e piú imbizzariscono a pararlo con tutte le loro galenterie piú vistose! Eh, le donne, caro signore! Ma del resto, è la loro professione… – «Se tu facessi una capatina in città, caro! Avrei proprio bisogno di questo… di quest’altro… e potresti anche, se non ti secca (caro, il se non ti secca)… e poi, giacché ci sei, passando di là...» – Ma come vuoi, cara mia, che in tre ore ti sbrighi tutte codeste faccende? – «Uh, ma che dici? Prendendo una vettura…» – Il guajo è, capisce?, che dovendo trattenermi tre ore sole, sono venuto senza le chiavi di casa.

– Oh bella! E perciò…

– Ho lasciato tutto quel monte di pacchi e pacchetti in deposito alla stazione; me ne sono andato a cenare in una trattoria, poi per farmi svaporar la stizza, a teatro. Si crepava dal caldo. All’uscita, dico, che faccio? Andarmene a dormire in un albergo? Sono già le dodici; alle quattro prendo il primo treno; per tre orette di sonno, non vale la spesa. E me ne sono venuto qua. Questo caffè non chiude, è vero?

Pirandello al lavoro– Non chiude, nossignore. E cosí, ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?

– Perché? Non sono sicuri? Erano tutti ben legati…

– No no, non dico! Eh, ben legati, me l’immagino, con quell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta… Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rosea, levigata… ch’è per sé stessa un piacere a vederla… cosí liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza… La stendono sul banco e poi, con garbo disinvolto, vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben ripiegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di piú, per amore dell’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le due punte, allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legar l’involto, e legano cosí rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

– Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio…

– lo? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un’ora fermo a guardare dentro una bottega, attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta… quel bordatino… quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo… Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto o appeso al dito o in mano o sotto il braccio… li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista… immaginando… – uh, quante cose immagino! lei non può farsene un’idea. Ma mi serve. Mi serve questo.

– Le serve? Scusi… che cosa?

– Attaccarmi cosí, dico con l’immaginazione… attaccarmi alla vita, come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata. Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione… aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… ma non della gente che conosco. No! no! A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse… una nausea… Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello, ci vivo, ci respiro, fino ad avvertire.. sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia… Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo piú perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sí…

– Sí, perché… dico, dev’essere un bel piacere, questo che lei prova, immaginando tante cose…

– Piacere? io?

– Già… mi figuro…

– Ma che piacere! Mi dica un po’. È stato mai a consulto da qualche medico bravo?

– Io no, perché? Non sono mica malato!

– No! no! Glielo domando per sapere se ha mai veduto in casa di questi medici bravi la sala dove i clienti stanno ad aspettare il loro turno per esser visitati.

– Ah, sí… mi toccò una volta accompagnare una mia figliuola che soffriva di nervi.

– Bene. Non voglio sapere. Dico, quelle sale… Ci ha fatto attenzione? Quei divani di stoffa scura, di foggia antica… quelle seggiole imbottite, spesso scompagne… quelle poltroncine… È roba comprata di combinazione, roba di rivendita, messa lí per i clienti; non appartiene mica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, un ben altro salotto, ricco, splendido. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qualche poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti, a cui basta quell’arredo cosí, alla buona. Vorrei sapere se lei, quando andò per la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cui stette seduto, aspettando.

– Io no, veramente…

Pirandello al lavoro– Eh già, perché lei non era malato… Ma neanche i malati spesso ci badano, compresi come sono del loro male. Eppure, quante volte certuni stan lí intenti a guardarsi il dito che fa segni vani sul bracciuolo lustro di quella poltrona su cui stan seduti! Pensano e non vedono. Ma che effetto fa, quando poi si esce dalla visita, riattraversando la sala, il riveder la seggiola su cui poc’anzi, in attesa della sentenza sul nostro male ancora ignoto, stavamo seduti! Ritrovarla occupata da un altro cliente, anch’esso col suo male nascosto; o là, vuota, impassibile, in attesa che un altro qualsiasi venga a occuparla… Ma che dicevamo? Ah, già… il piacere dell’immaginazione… Chi sa perché, ho pensato subito a una seggiola di queste sale di melici, dove i clienti stanno in attesa del consulto…

 – Già… veramente..

– Non capisce? Neanche io. Ma è che certi richiami di immagini, tra loro lontane, sono cosí particolari a ciascuno di noi, e determinati da ragioni ed esperienze cosí singolari, che l’uno non intenderebbe piú l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di piú illogico, spesso, di queste analogie. Ma la relazione, forse, può esser questa, guardi: – Avrebbero piacere quelle seggiole d’immaginare chi sia il cliente che viene a seder su loro in attesa del consulto? che male covi dentro? dove andrà, che farà dopo la visita? – Nessun piacere. E cosí io: nessuno! Vengono tanti clienti, ed esse sono là, povere seggiole, per essere occupate. Ebbene, è anche un’occupazione simile la mia. Ora mi occupa questo, ora quello. In questo momento mi sta occupando lei, e creda che non provo nessun piacere del treno che ha perduto, della famiglia che l’aspetta in villeggiatura, di tutti i fastidii che posso supporre in lei…

– Uh, tanti, sa!

– Ringrazii Dio, se sono fastidii soltanto. C’è chi ha di peggio, caro signore. Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma cosí, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla. E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempii continui a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la vi viviamo, è cosí sempre ingorda di sé stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni… Sí, sí. Questa che ora qua è una sciocchezza… questa che ora qua è una noja… e arrivo finanche a dire questa che ora è per noi una sventura, una vera sventura… sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà… che gusto, queste lagrime… E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla… specialmente quando si sa che è questione di giorni… – Ecco… vede là? dico là, a quel cantone… vede quell’ombra malinconica di donna? Ecco, s’è nascosta!

– Come? Chi… chi è che…? – Non l’ha vista? S’è nascosta…

– Una donna?

– Mia moglie, già…

– Ah! la sua signora?

Pirandello al lavoro– Mi sorveglia da lontano. E mi verrebbe, creda, d’andarla a prendere a calci. Ma sarebbe inutile. È come una di quelle cagne sperdute, ostinate, che piú lei le prendi a calci, e piú le si attaccano alle calcagna. Ciò che quella donna sta soffrendo per me, lei non se lo può immaginare Non mangia, non dorme piú… Mi viene appresso, giorno e notte, cosí… a distanza… E si curasse almeno di spolverarsi quella ciabatta che tiene in capo, gli abiti… Non pare piú una donna, ma uno strofinaccio. Le si sono impolverate per sempre anche i capelli, qua sulle tempie; ed ha appena trentaquattro anni. Mi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, le grido in faccia «Stupida!» scrollandola. Si piglia tutto. Resta lí a guardarmi con certi occhi… con certi occhi che, le giuro, mi fa venire qua alle dita una selvaggia voglia di strozzarla. Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersi a seguirmi – Ecco, guardi… sporge di nuovo il capo dal cantone…

– Povera signora…

– Ma che povera signora! Vorrebbe, capisce? ch’io me ne stessi a casa, mi mettessi là fermo placido, come vuol lei, a prendermi tutte le sue piú amorose e sviscerate cure… a goder dell’ordine perfetto di tutte le stanze, della lindura di tutti i mobili, di quel silenzio di specchio che c’era prima in casa mia, misurato dal tic-tac della pendola nel salotto da pranzo… Questo vorrebbe! Io domando ora a lei, per farle intendere l’assurdità… ma no, che dico l’assurdità! la macabra ferocia di questa pretesa, le domando se crede possibile che le case d’Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di lí a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene lí tranquille, sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale? Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate! Immagini i cittadini d’Avezzano, cittadini di Messina, spogliarsi tranquilli per mettersi a letto, ripiegare gli abiti, metter le scarpe fuori dell’uscio, e cacciandosi sotto le coperte godere del candor fresco delle lenzuola di bucato, con la coscienza che fra poche ore sarebbero morti… Le sembra possibile?

– Ma forse la sua signora…

– Mi lasci dire! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegl’insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese, le dice: «Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso». E con quelle due dita protese, gliela piglia e gliela butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano intanto tranquilli a ciò che faranno domani o doman l’altro. Ora io, Lcaro signore, ecco… venga qua… qua, sotto questo lampione… venga… le faccio vedere una cosa… Guardi qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… piú dolce d’una caramella: Epitelioma, si chiama. Pronunzii, pronunzii… sentirà che dolcezza: epiteli-o-ma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca e m’ha detto: «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!». Ora mi dica lei, se, con questo fiore in bocca, io me ne posso stare a casa tranquillo e alieno, come quella disgraziata vorrebbe. Le grido: «Ah sí, e vuoi che ti baci?» – «Sí, baciami!» – Ma sa che ha fatto? Con uno spillo, l’altra settimana s’è fatto uno sgraffio qua, sul labbro, e poi m’ha preso la testa: mi voleva baciare… baciare in bocca… Perché dice che vuol morire con me. È pazza. A casa io non ci sto. Ho bisogno di starmene dietro le vetrine delle botteghe, io ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché lei lo capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro.. lei lo capisce, posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco… cavare la rivoltella e ammazzare uno che, come lei, per disgrazia, abbia perduto il treno… No no, non tema, caro signore: io scherzo! – Me ne vado. Ammazzerei me, se mai… Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche… Come le mangia lei? con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà: si premono con due dita, per lungo, come due labbra succhiose… Ah che delizia! – Mi ossequi la sua egregia signora e anche le sue figliuole in villeggiatura. Me le immagino vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde in ombra… E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione… All’alba lei può far la strada a piedi. Il primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando. Buona notte, caro signore.

 

18 giovedì Feb 2010

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agrigento, akragas, colimbetra, folklore, pirandello, valle dei templi

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65^ SAGRA DEL MANDORLO IN FIORE

FOLKLORE E PRIMAVERA ANTICIPATA

AD AGRIGENTO

 

Pirandello al tempio della Concordia

Con l’accensione del Tripode, la Fiaccolata dell’Amicizia e la prima sfilata dei gruppi folkloristici di tutte le parti del mondo, si è aperta ad Agrigento la 65^ Sagra del Mandorlo in fiore e il 55° Festival Internazionale del Folklore.

 

Una kermesse che è partita all’insegna del bel tempo, come avviene ormai da tanti anni ad Agrigento, mentre, in tante parti dell’Isola e nel resto dell’Italia, il gelo e il freddo la fanno da padroni. E il vero spettacolo che si rinnova ogni anno è la magnifica Valle dei Templi con i suoi mandorli completamente fioriti.

 


Uno spettacolo nello spettacolo è la Kolymbethra (dal greco, piscina) che si trova presso l’estremità occidentale della Collina dei Templi, all’interno di un taglio naturale che divide l’area del Santuario delle Divinità Ctonie dal Tempio di Vulcano.

 

Luigi Pirandello«… L’antica famosa Colimbetra akragantina era veramente molto più giù, nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell’aspro ciglione, su cui sorgono i Tempii, è interrotta da una larga apertura. In quel luogo, ora detto dell’Abbadia bassa, gli Akragantini, cento anni dopo la fondazione della loro città, avevano formato la peschiera, gran bacino d’acqua che si estendeva fino all’Hipsas e la cui diga concorreva col fiume alla fortificazione della città…»  (Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani)

 

Attualmente la Kolymbethra è un grandioso giardino di cinque ettari con alberi (ulivi, mandorli) e piante appartenenti alla macchia  mediterranea (mirto, lentisco, terebinto, euforbia, ginestra) e un ampio agrumeto con limoni, mandarini, aranci. Il giardino è stato affidato al FAI, che ne ha reso visitabili i suggestivi sentieri nella natura e che organizza, soprattutto d’estate, spettacoli serali di musica e teatro, nonché degustazioni di prodotti tipici.

 

 

 

13 sabato Feb 2010

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allotta, folklore, letteratura - articoli, novelle pirandelliane, pirandello, pittura, poesia, san calogero, tradizioni popolari

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GAETANO ALLOTTA

Allotta Gaetano

ANTOLOGIA DEL CARRETTO

 

Con la sua opera “Il carretto”, Gaetano Allotta rende omaggio alle tradizioni popolari del mondo siciliano, la cui centralità era assunta fino alla metà del secolo scorso da questo mezzo di trasporto e d’arte, ormai superato, ma che non ha ceduto definitivamente il passo, in quanto ne sentiamo tuttora parlare con grande interesse. Il carretto, in effetti,è entrato nell’immaginario collettivo siciliano e continua ad essere un punto fermo di eventi folkloristici e non. Esistono numerosi musei e mostre permanenti del carretto siciliano.

 

UN TESTIMONIAL D’ALTRI TEMPI

GASTON VUILLIER

 



Gaetano Allotta parte dalla storia, e forse dalla leggenda, informandosi all’opera di un viaggiatore eccezionale, Gaston Vuillier, innamoratissimo della Sicilia, cui dedicò un libro – denso di notizie e con una iconografia ricchissima d’acqueforti esclusive da lui stesso eseguite – “La Sicilia Impressioni di viaggio” Brancato ed., 2000, dedicato all’illustre Giuseppe Pitrè che gli rivelò la Sicilia, facendogli da cicerone.

Sugli artistici carretti Giuseppe Pitrè è prodigo di spiegazioni:

 



“Raccontano – mi disse Pitrè – la storia universale. Cominciano come vi ho detto dalle scene leggendarie dei paladini francesi; poi viene la Gerusalemme Liberata, del Tasso; poi le pagine della Bibbia, Giuditta e Oloferne, Gesù che scaccia i mercanti dal Tempio, la pesca miracolosa, la toeletta di Ester, ecc. Finalmente la storia di Guglielmo Tell con gli episodi più gloriosi; i furori di Camilla, Malek Hadel, Cristoforo Colombo. Ma i nostri pittori popolari non hanno dimenticato la Sicilia; vedrete Ruggero il Normanno abbattere i Saraceni”

 

Pitrè fa conoscere a Vuillier un decoratore di Carini, Mario Zizolfo, il quale avrebbe potuto aspirare ad una ricca carriera pittorica, ma che restando a fare il decoratore è rimasto a testimoniare nei secoli la bellezza dei carretti istoriati.

 

 

 

 

Pitrè inoltre fece notare a Vuillier, oltre gli ornamenti pittorici, che arricchivano ogni minima parte dei crretti, le bardature delle bestie, che puntualmente Vuillier riporta sul suo libro:

 


“Sul basto, sul pettorale, dal sottopancia, dappertutto, pendevano e scintillavano specchietti, campanelle, rosoni, nastri, placche, smerli e galloni d’argento, chiodi di rame e frange e ornamenti di ogni genere. Sulla testa un gran mazzo di penne, e nel mezzo al dorso s’innalzava un ricco cimiero ornato di campanelluzzi e sormontato da una nappa di seta intrecciato con penne”

 

 

Gli ex voto

e il folklore

 

Anche negli ex voto si manifesta la fede del popolo, come si evince da questa tavoletta pittorica del 1964, tuttora appesa nella sacrestia della Basilica di San Calogero ad Agrigento, dove viene istoriata la grazia del Santo ricevuta da un uomo  schiacciato dalle ruote di un carretto.

 


Sui carretti, poi, o dorso di mulo, durante la festa del Santo nero (prima domenica di luglio) vengono trasportati tuttora per devozione, in dono al Santo, sacchi di grano, pane, ecc.

 

Durante l’effettuazione della Sagra del Mandorlo in Fiore è un momento di grande attrazione la sfilata dei carretti siciliani.

 

IL MAESTRO CARRADORE

RAFFAELE LA SCALA

 

Nato a Comiso, Raffaele La Scala seguì nel paesino natale gli insegnamenti dei maestri carradori comisani, per poi diventare indiscutibilmente uno dei grandi carradori di tutti i tempi ad Agrigento, sua patria di adozione.
E’ stato insignito di prestigiosi premi, tra cui il conferimento dell’Onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica Italiana da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

 

In occasione della  X^ edizione del premio “ Ignazio Buttitta “ gli è stato assegnato un riconoscimento speciale per il settore “ARTE E TRADIZIONE" con la seguente motivazione 

 

«Raffaele La scala è stato l’ultimo maestro carradore a realizzare con straordinaria abilità carretti di varia dimensione ma tutti intagliati ed istoriati in maniera sublime e tali da offrire agli occhi di chi li guarda ammirato, importanti eventi storici avvenuti in Sicilia, riuscendo così a farli conoscere e rivivere anche  ad analfabeti di ieri. Il maestro ha consegnato alla Storia l’eredità del passato socio-culturale della Sicilia elevando il carretto a patrimonio d’Arte per l’umanità intera».




 

Gli è stato attribuito il riconoscimento alla Memoria da parte del Presidente del Senato Renato Schifani, con la seguente motivazione:

“UNA VITA PER L’ARTE “ Per l’impegno profuso nella salvaguardia delle tradizioni culturali e popolari siciliane e per la maestria dimostrata nella costruzione scrupolosa di elementi artistici ancorata alla realtà locale. SI DEPONE A FUTURA MEMORIA"

 

La Regione siciliana ha riconosciuto l’interesse Etno-Antropologico dell’attività di “carradore” del maestro Raffaele La Scala, degli attrezzi di lavoro costituenti il ciclo produttivo del carretto e i carretti di sua costruzione.    

 

I carretti e l’arte

 

Anche nel campo dell’arte il carretto siciliano ha esercitato un profondo fascino su pittori e letterati, essendo peraltro esso stesso un valore artistico-culturale. Gaetano Allotta, oltre alle ricordate incisioni di Gaston Vuiller, mette in copertina una grande opera del pittore palermitano dell’Ottocento Francesco Lo Iacono (che si può ammirare al museo civico di Agrigento), che per il suo colore-luce fu soprannominato "ladro del sole" per la sua capacità di rendere "la luce dell’estate siciliana,il gravare dell’afa sulla campagna….l’immagine di  una Sicilia luminosa e serena” (F.Grasso).

 

Inoltre include a tutta pagina, all’interno del libro, questo interessante olio su compensato 46×34 di Eustachio Catalano avente per soggetto il carretto.

 

Molti furono i poeti a dedicare versi a carretti e carrettieri; famosi pure i canti in vernacolo di carrettieri.

Salvatore Quasimodo, in Strada ad Agrigentum così si esprime:

 

                                               Il marranzano tristemente vibra

                                               nella gola al carrio che risale

                                               il colle nitido di luna,

                                               lento tra il murmure d’ulivi saraceni

 

E’ pure modulato sulla musica è questa poesia in dialetto di Giuseppe Guido Lo Schiavo, che rappresenta un canto che un carrettiere dedica alla sua ragazza:

 

Haiu accattatu ‘u langararuni:

     ‘ntintiri ‘ntontari vogghiu sunari.

      La prima vota chi a la Chiesa isti

       cu li to’ occhi li ninfi addumasti..

 

      Ho comprato lo scacciapensieri,

           ‘ntintiri ‘ntontari lo voglio suonare.

             La prima volta che in Chiesa andasti

           con il tuoi occhi i lumi accendesti..

 

Pirandello e il carretto

 Luigi Pirandello

L’autore cita, come testimonianza un breve brano di Luigi Pirandello, tratto dalla novella “Lontano”:

 

“Don Paranza…mentre si vestiva, sentiva giù stridere i carri carichi di zolfo, carri senza molle, ferrati, traballanti sul brecciale fradicio dello stradone polveroso popolato di magri asinelli bardati, che arrivavano a frotte, anch’essi con due pani di zolfo a contrappeso”

 

Anche nell’altra novella, “Sole e ombra”, il Premio Nobel descrive i muli parati che tiravano i carretti.

“La carrozza ora scendeva stentatamente per lo stradone polveroso, più che mai ripido. Salivano e scendevano lunghe file di carretti. Non aveva mai fatto caso al caratteristico abbrigliamento dei muli che tiravano quei carretti. Lo notò adesso, come se quei muli si fossero parati di tutte quelle nappe e quei fiocchi e festelli variopinti per far festa a lui”

Nella commedia, incompiuta, de “I giganti della montagna”, su un carretto viene tirata una donna nuda.

 

 

MILORDINO Hanno anche un carretto; lo tirano a mano, uno tra le stanghe e due dietro!

DOCCIA Sarà gente che va alla montagna.

QUAQUÈO Eh, no, han proprio l’aria di farsi a noi! Ooh, hanno una donna sul carretto! Guarda, guarda! Il carretto è pieno di fieno, e la donna vi giace sopra!

MILORDINO Chiamate almeno la Mara, sul ponticello, con l’ombrellino!

Dalla porta della villa accorre Mara-Mara, gridando:

MARA-MARA Eccomi qua! eccomi qua! Della Scozzese avranno paura!

Mara-Mara è una donnetta, che si può figurare come gonfiata, tutta imbottita come una balla, con una sottanino corta corta di stoffa scozzese a quadriglie su tutto il rigonfio dell’imbottitura, le gambe nude, con le calze di lana ripiegate sui polpacci, un verde cappellina in capo di tela cerata, a falde dritte, e una penna di gallo da un lato, un piccolo ombrellino a parasole in mano, un tascapane e una fiasca a tracolla.

Oh, ma fatemi lume dal tetto! Non voglio mica rompermi il collo!

Corre al ponticello, monta sul parapetto e, illuminata dall’alto della villa da un riflettore verde che le da un’aria spettrale, si mette a passeggiare su esso, avanti e indietro, simulando un’apparizione. A tratti, da dietro la villa s’aprono anche larghi fiati di luce, come lampi d’estate, accompagnati da scrosci di catene.

LA SGRICIA (ai due che guardano) Si fermano? Tornano indietro?

QUAQUÈO Chiamate Cotrone!

DOCCIA Cotrone! Cotrone!

LA SGRICIA Ha la gotta!

Tanto la Sgrida quanto Duccio sono scesi dalle loggette e ora son davanti la villa, sullo spiazzo erboso, costernati. Dalla porta appare Cotrone, ch’è un omone barbuto, dalla bella faccia aperta, con occhioni ridenti splendenti sereni, la bocca fresca, splendente anch’essa di denti sani tra il biondo caldo dei baffi e della barba non curati.

Ha i piedi un po’ molli e veste sbracato, un nero giacchettone a larghe falde e larghi calzoni chiari, in capo ha un vecchio fez da turco, e un po’ aperta sul petto una camicia azzurrina.

COTRONE Che cos’è? O non vi vergognate? Avete paura, e vorreste farne?

MILORDINO Salgono in frotta! Son più di dieci!

QUAQUÈO No, sono otto, sono otto; li ho contati! Con la donna!

COTRONE E allegri! C’è anche una donna? Sarà una regina spodestata. E’ nuda?

QUAQUÈO (sbalordito) Nuda? No, nuda non mi è parsa.

COTRONE Nuda, sciocco! Su un carretto di fieno, una donna nuda, coi seni all’aria e i capelli rossi sparsi come un sangue di tragedia!

 

Al carretto e ala cavallo che lo trascina, lo scrittore dedica un’intera novella breve

 

Fuga

 

         Che stizza per quella nebbia, il signor Bareggi! Gli parve sorta a tradimento proprio per lui, per pungerlo fredda, con punture lievi di sottilissimi aghi, alla faccia, alla nuca, e:
         – A te, domani, le fitte a tutte le giunture, – si mise a dire, – la testa che ti pesa come il piombo, e gli occhi che non li puoi più aprire, tra il gonfiore di queste belle borse acquerose! Parola d’onore, va a finir che la faccio davvero, la pazzia!
         Logorato dalla nefrite, a cinquantadue anni, con lo spasimo fisso alle reni e quei piedi gonfii che, ad affondare una ditata, prima che l’edema rivenisse su ci metteva un minuto, eccolo là intanto a spiaccicare con le scarpe di panno sul viale già tutto bagnato, proprio come fosse piovuto.
         Con quelle scarpe di panno il signor Bareggi si trascinava ogni giorno dalla casa all’ufficio, dall’ufficio alla casa. E andando così piano piano sui piedi molli dolenti, per distrarsi si perdeva a sognare che, una volta o l’altra, se ne sarebbe andato via; via di nascosto; via per sempre, senza ritornare a casa mai più.

Perché le smanie più feroci gliele dava la casa. Quel pensiero, due volte al giorno, di dover ritornare a casa, laggiù, in una traversa remota del lunghissimo viale per cui s’era incamminato.
         E non già per la distanza, della quale era pure da far caso (con quei piedi!); e neppure per la solitudine di quella traversa, che anzi gli piaceva: così appena appena tracciata, ancora senza lumi e senza guasto di civiltà, con tre sole casette a manca, quasi da contadini; e a destra una siepe campestre, da cui su un palo s’affacciava una tabella stinta dal tempo e dalle piogge: «Terreni da vendere».
         Stava nella terza di quelle casette. Quattro stanze a terreno, quasi buje, con le grate arrugginite alle finestre e, oltre le grate, una rete di fil di ferro per difendere i vetri dalle sassate dei monellacci selvaggi dei dintorni; e a piano, tre camere da letto e una loggetta che era, quando non faceva umido, la sua delizia: alla vista degli orti.
         Le smanie feroci erano per le premure angosciose con cui, subito appena rincasato, lo avrebbero oppresso la moglie e le due figliuole: una gallina spersa e due pollastre pigolanti dietro: corri di qua, scappa di là: per le pantofole, per la tazza di latte col torlo d’uovo; e l’una giù carponi a slacciargli le scarpe; e l’altra a domandargli con una voce a lamento (secondo le stagioni) se si era inzuppato, se era sudato; come se non lo vedessero, rincasato senz’ombrello, intinto da strizzare o, d’agosto, di ritorno a mezzogiorno, tutto incollato e illividito dal sudore.
         Gli finivano, gli finivano lo stomaco tutte quelle premure; come se gli fossero usate perché, così, non trovasse più modo di darsi uno sfogo.
         Poteva più lamentarsi davanti a quei sei occhi ammammolati dalla pietà, davanti a quelle sei mani così pronte a soccorrerlo?
         Eppure avrebbe avuto da lamentarsi, tanto, e di tante cose! Bastava che si voltasse a guardare qua o là per trovare una ragione di lamento, che esse non supponevano nemmeno. Quel vecchio tavolone di cucina, massiccio, dove mangiavano, e che a lui, messo a pane e latte, quasi non serviva più: come sapeva, quel tavolone, del crudo della carne e dell’odore delle belle cipolle secche dal velo dorato! E poteva rimproverare alle figliuole la carne che esse, sì, potevano mangiarsi, cucinata così saporitamente dalla madre con quelle cipolle? O rimproverarle perché, facendo il bucato in casa per risparmio, quando avevano finito di lavare, buttavano fuori l’acqua saponata e con quel puzzo ardente di lavatojo gli toglievano di godersi, la sera, il fresco respiro degli orti?
         Chi sa come sarebbe parso ingiusto un tal rimprovero, a loro che sfacchinavano dalla mattina alla sera, là sempre sole, come esiliate, senza mai, forse, neppur pensare che, in altre condizioni, avrebbero potuto avere una vita diversa, ciascuna per sé.
         Erano per fortuna un po’ deboli di cervello, come la madre. Le compativa; ma anche il compatimento che ne aveva, nel vederle ridotte come due strofinacci, gli si cangiava in una cattiva irritazione.
         Perché egli non era buono. No, no. Non era buono come pareva a quelle sue povere donne, e, del resto, a tutti. Cattivo era. E gli si doveva veder bene negli occhi, certe volte, che l’aveva anche lui, la sua malizia, bene agguattata sotto. Gli veniva fuori, quand’era solo, nella stanza d’ufficio, che si baloccava senza saperlo con la lancetta del raschino, seduto davanti la scrivania: tentazioni che potevano esser anche da folle: come di mettersi a spaccare con la lancetta di quel raschino l’incerato della ribalta, il cuojo della poltrona; e poi, invece, posava su quella ribalta la manina che pareva grassa grassa, ed era anch’essa enfiata; se la guardava e, mentre grosse lagrime gli scolavano dagli occhi, s’accaniva con l’altra a strapparsi i peli rossicci dal dorso delle dita.
         Era cattivo, sì. Ma era anche la disperazione di dover finire tra poco, in una poltrona, perso da una parte e scemo, tra quelle tre donne che lo seccavano e che gli mettevano addosso la smania di scapparsene, finché era in tempo, come un pazzo.

         E, sissignori, la pazzia quella sera, prima che nel capo, gli entrò all’improvviso nelle mani e in un piede, facendogli alzar questo alla staffetta e afferrar con quelle il sediolo e la stanga del carretto del lattajo trovato lì per caso all’imboccatura della traversa.
         Ma come? Lui, il signor Bareggi, uomo serio, posato, rispettabile, sul carretto del lattajo?
         Sì, sul carretto del lattajo, per un ticchio lì per li, appena lo intravide nella nebbia, svoltando dal viale e imboccando la traversa; appena nelle nari avvertì il fresco odore fermentoso d’un bel fascio di fieno nella rete e il puzzo caprino del cappotto del lattajo buttato sul sediolo: gli odori della campagna lontana, che immaginò subito, laggiù laggiù, oltre la barriera nomentana, oltre Casal dei Pazzi, immensa, smemorata e liberatrice.
         Il cavallo, allungando il muso e strappando l’erba che cresceva liberamente sulle prode, doveva essersi allontanato da sé, un passo dopo l’altro, dalle tre casette perdute nella nebbia in fondo alla traversa; il lattajo, che a ogni posta s’indugiava al solito a chiacchierar con le donne, sicuro che la bestia abituata lo stesse ad aspettare paziente davanti la porta, ora, uscendo con le bottiglie vuote e non trovandolo più, si sarebbe dato a correre e a gridare: bisognava far presto; e il signor Bareggi, col brio di quell’improvvisa pazzia che gli schizzava dagli occhi, ansante e tutt’un tremito di contentezza e di paura, ormai senza che gli importasse più di rendersi conto di ciò che sarebbe avvenuto e di lui e del lattajo e delle sue donne, nello scompiglio di tutte le immagini che già gli turbinava nell’animo stravolto, dette una gran frustata al cavallo e via!
         Non s’aspettava il salto a montone di quella bestiaccia, che pareva vecchia e non era; non s’aspettava, al rimbalzo, il fracasso di tutti i bidoni e gli orci del latte dietro il sediolo; gli scapparono di mano le redini, per sorreggersi, mentre, a quel salto del cavallo, coi piedi sobbalzati dalle stanghe e la frusta per aria, stava per arrovesciarsi all’indietro su quei bidoni e quegli orci; e non aveva ancora finito di sentirsi scampato a quel primo pericolo, che subito la minaccia di nuovi, imminenti, lo tenne senza fiato e sospeso, con quella bestia dannata sfrenata lanciata a una corsa pazza in mezzo alla nebbia che si faceva sempre più fitta col calar della sera.
         Non accorreva nessuno a parare? a gridare che altri parasse? Eppure doveva sembrare nel bujo una tempesta quel carretto in fuga con tutti quegli arnesi che, traballando, s’urtavano. Ma forse non passava più nessuno per il viale, o a lui tra il frastuono non arrivavano le grida; e la nebbia gl’impediva di vedere perfino le lampade elettriche che già dovevano essere accese.
         Aveva buttato anche la frusta, per agguantarsi disperatamente con tutt’e due le mani al sediolo Ah, non lui soltanto, ma anche quel cavallo doveva essersi impazzito, o per quella frustata in principio, a cui forse non era avvezzo, o per la gioja che quella sera fosse finito così presto il giro delle poste, o per le redini da cui non si sentiva più tenuto. Nitriva, nitriva. E il signor Bareggi vedeva con spavento lo slancio furibondo delle anche in quella corsa che, a ogni slancio, pareva si spiccasse adesso con nuova lena.
         A un certo punto, balenandogli il pericolo che alla svoltata del viale sarebbe andato a sbattere contro qualche ostacolo, si provò ad allungare il braccio per tentare se gli veniva fatto di riacchiappar le redini; abburattato, picchiò non seppe dove, col naso, e si ritrovò tanto sangue sulla bocca, sul mento e nella mano; ma non ebbe né modo né tempo di badare alla ferita che si doveva esser fatta; bisognava che tornasse a sorreggersi forte con tutt’e due le mani. Sangue davanti, e latte dietro! Dio. il latte che, sguazzando e sciabordando nei bidoni e negli orci, gli schizzava alle spalle! E rideva il signor Bareggi, pur nel terrore che gli teneva le viscere sospese; rideva di quel terrore; e contrapponeva istintivamente all’idea, pur precisa, d’una prossima immancabile catastrofe l’idea che, dopo tutto, fosse una burla, una burla che aveva voluto fare e che domani avrebbe raccontato, ridendo. E rideva. Rideva, richiamandosi disperatamente davanti agli occhi – l’immagine quieta dell’ortolano che annaffiava l’orto, oltre la siepe là della traversa, com’egli lo vedeva ogni sera dalla sua loggetta; e a cose gaje pensava: ai contadini che, nei loro vecchi abiti, mettevan certe toppe che parevano scelte apposta perché dicessero, sì, la miseria, ma allegra là sulle chiappe, sui gomiti, sui ginocchi, come una bandiera; e intanto, sotto queste immagini quiete e gaje, non meno viva, terribile, quella di ribaltare da un momento all’altro a un urto che avrebbe forse mandato tutto a catafascio.
         Volò Ponte Nomentano, volò Casal dei Pazzi, e via, via, via, nella campagna aperta, che già s’indovinava nella nebbia.
         Quando il cavallo si fermò davanti a un rustico casalino, col carretto sconquassato e senza più né un bidone né un orcio, era già sera chiusa.
         Dal casalino la moglie del lattajo, sentendo arrivare il carretto a quell’ora insolita, chiamò. Nessuno le rispose. Scese con la lucerna a olio davanti la porta; vide quello sconquasso; chiamò di nuovo per nome il marito: ma dov’era? cos’era stato?
         Domande, a cui certo il cavallo, ancora ansante e felice della bella galoppata, non poteva rispondere.
         Con gli occhi insanguinati, scalpitava e sbruffava, squassando la testa.

 

07 domenica Feb 2010

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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carbone, dialetto siciliano, empedocle, pirandello, poesia, racalmuto, sciascia

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PIERO CARBONE

IL POETA DELLA SICILINCONIA

             NEL SOLCO DI PIRANDELLO,

SCIASCIA E EMPEDOCLE

 

 

Mbriacatu di sicilincunia

 

                                                      

Sutta lu cielu sbruogliu

pinzera, gruppa

di firnicii.

Calu l’uocchji, talìu

si tornanu li cunti.

Nun tornanu ppi mia,

forsi ppi tia.

Ti nni jisti luntanu,

iu ristavu.

Forsi tu arriniscisti, iu fallivu?

Tu cu l’arma sbinnuta a la stranìa,

iu mbriacatu di sicilincunia.

 

 

Sotto il cielo sbroglio / pensieri, groppi / di almanaccamenti. /

Abbasso gli occhi, vedo / se tornano i conti. / Non tornano per

me, / forse per te. / Te ne sei andato lontano, / io son rimasto. /

Forse tu ce l’hai fatta, io ho fallito? / Tu con l’anima svenduta in

terra straniera, / io imbriacato di sicilinconia.

 

In Sicilia nasce un nuovo movimento poetico dialettale: la sicilinconia. Il corifeo ne è Piero Carbone, un poeta di Racalmuto, che propugna tematiche universali in lingua siciliana. E di vero idioma si tratta, stando alla prefazione al suo nuovo libro “Venti di Silinconia”  da parte di un illustre critico, che risponde al nome di Salvatore Di Marco, che di lingua e letteratura siciliane conosce fin troppo.

 

“Nel nostro poeta racalmutese non ci troviamo

davanti ad un “concetto” elaborato su istanze di

razionalità speculativa, quanto invece davanti ad una

“categoria” tutta poetica della sua liricità, capace di

agire sulla creatività e sui suoi impianti di scrittura.

Aggiungo soltanto che se stiamo parlando di una

sorta di “malinconia sicula”, ( quella che – per intenderci

– i messinesi nel loro dialetto chiamano lissa e

luffa o siddrìu i palermitani), allora forse attraverso

la finestra aperta dalla isolitudine di Lucio Zinna e

dalle “manipolazioni” di Bufalino sull’anima siciliana

contemporanea, con Carbone – e specificatamente

con questa sua silloge Venti di sicilinconia – entriamo

in una dimensione più marcatamente soggettiva,

insediata cioè nella interiorità della persona (del

poeta), germinata sulla somma di ancestrali disagi

dell’anima, e che assumono nei singoli testi poetici

della sua raccolta i segni della malinconia.

Infatti, in quest’ultimo libro di Carbone, si colgono

la confessione d’un profondo senso di disagio esistenziale

(“nascivu nni lu seculu sbagliatu”) insieme

al persistente senso della precarietà (e forse occasionalità)

                                     del vivere.”

 

Salvatore Di Marco sviluppa un concetto ben preciso, evidenziando che la silinconia cantata da Piero Carbone è un’evoluzione moderna e attuale della sicilitudine di Leonardo Sciascia:

 

Ecco la chiave di lettura di tutta la raccolta: e

Carbone, con i suoi venti di sicilinconia, porta la

“sicilitudine” sciasciana (e non di Cane) dalle cifre

antropologico-culturali, insieme alle incerte solitudini,

sulla dimensione spirituale della soggettività

umana proprio laddove ristagnano alienazioni, estraneità,

patimenti, domande senza speranza.

Ecco, dunque, nella vena poetica di Carbone,

come scorrono le malinconie dandole umori e dettati.

Ecco, perciò, una nuova liricità del canto rabbiosamente

dolente e parimenti misurato e sommesso,

ecco il lungo trasferirsi della condizione siciliana

dalle sicilitudini alle sicilinconie.

 

Del resto ci troviamo a Racalmuto, nella patria di Sciascia, il quale in Notizia preposta a Occhio di capra afferma:

 

“Isola nell’isola, come ogni paese siciliano di mare o di montagna, di desolata pianura o di amena collina, la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto, in provincia di Agrigento. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola-vallo (i tre valli in cui la divisero gli arabi) dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola-paese dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia; un discorso già tracciato da Pirandello, e specialmente nella commemorazione di Verga.

 

Pirandello nel “Discorso su Verga” aveva detto:

 

“Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, ed anche quasi una istintiva paura di essa oltre quel breve ambito del covo, ove si senton sicuri e si tengono appartati; per cui sono tratti a contentarsi del poco, purchè dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la  natura intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di quest’aperto, che d’ogni parte è il mare che li isola, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l’ha, la sua poca gioia, da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato.”

 

Quindi, Piero Carbone si colloca, sotto il profilo delle tematiche svolte, nel solco di predecessori illustri, anzi alimenta i temi della solitudine, della isolitudine e della sicilitudine dei siciliani, trovando una nuova strada in chiave di modernità, come afferma in modo puntuale e convincente nella sua profonda prefazione il critico Salvatore Di Marco.

Ma non è peregrino affermare che Pirandello, Sciascia e lo stesso Carbone abbiano assimilato quel senso del tragico che già era presente nella filosofia e nella vita dell’akragantino Empedocle.

Questa tragica evanescenza dell’uomo, questo essere e non essere, che si potrebbero riscontrare anche in Pindaro, il quale definì l’uomo “sogno d’un’ombra”, e combaciano con l’ambivalenza del Fu Mattia Pascal di Pirandello, Carbone li ha ben assimilati, cavandoli dall’immaginario collettivo isolano fino a farli esplodere:.

 

Vientu, siemmu vientu

 

Li seculi cummoglianu lu suli

e lu suli li squaglia comu cira.

Li palori ìnchjinu lu munnu

e lu munnu li scarpisa comu pira.

Pozzu vinciri lu friddu di la morti

sulu ccu disidderiu e puisia.

Essiri. Unn’essiri. Duranu un mumentu.

C’era, un c’è cchjù. Cu l’arrigorda?

Vientu, siemmu vientu.

 

 

Vento, siamo vento

 

I secoli coprono il sole / e il sole li scioglie come cera. / Le parole

riempiono il mondo / e il mondo le calpesta come pere. / Posso

vincere il freddo della morte / solo con desiderio e poesia. /

Essere. Non essere. Durano un istante. / C’era, non c’è più. Chi

se lo ricorda? / Vento. Siamo vento.

 

Si tratta, peraltro, di qualcosa di programmatico, se è vero che nell’esergo, Carbone si ispira non casualmente a un poeta spagnolo, il madrileno José Hierro (1922-2002), i cui temi furono quelli della ricerca del significato dell’esistenza, e che gli ha fornito quasi il titolo “Venti di sicilinconia”, a rimarcare l’universalità del canto di Piero Carbone e la contiguità della lingua siciliana con altre lingue neolatine.

 

“Ya libre y feliz, como viento”.

José Hierro, Canto a España

 

Libero e felice, come il vento.

 

Il lirismo di Piero Carbone è una visione tragica ed umoristica della vita, se per umorismo vogliamo intendere, in chiave pirandelliana e sciasciana, il sentimento del contrario che non fa ridere, ma fa meditare, perché in esso ci si può rispecchiare tutti.

 

Sicilincúnia o sicilincunìa?

 

Sicilincúnia veni di ncúnia.

Sicilincunìa veni di pena.

Ncapu la ncúnia ncoccia lu firraru

ccu lu martieddru lu fierru ancora callu

e lu fa addivintari nzoccu voli:

chjavi di porta o fierru di cavaddru.

Chjanci la matri lu figliu ch’è n guerra.

Chjanci lu figliu partutu surdatu.

Chjanciva lu minaturi, lu viddranu,

ora cu parti o è disoccupatu.

Sicilincúnia o sicilincunìa?

Si pati o s’arripiglia lu distinu?

Cancia l’accentu,

allegru o ammartucatu:

fuocu addiventa

o

chjantu ngusciatu.

 

Sicilincónia O Sicilinconìa?

 

Sicilincónia viene da incudine. / Sicilinconìa deriva da pena. /

Sopra l’incudine batte il fabbro / con il martello il ferro ancora

caldo / e lo forgia secondo quel che vuole: / chiavi di porta o

ferro di cavallo. / Piange la madre il figlio ch’è in guerra / piange

il figlio che va a fare il soldato. / Piangeva il minatore, il

contadino / ora chi parte o è disoccupato. / Sicilincónia o sicilinconìa?

Si subisce o si modifica, il destino? / Cambia l’accento

/ allegro o malinconico: / diventa fuoco / o / pianto a dirotto.

 

Non solo dialetto, però,  sta alla base della poetica di Carbone. La sua silloge mostra la forza e il vigore dei temi, nonché la modernità del dettato, nella voltura che viene fatta a proposito in lingua italiana, che offre il vero spessore di uno dei più grandi poeti siciliani contemporanei.

 

E mali campulìa

 

Li tassi su’ na vera malatia.

Ogni guvernu li voli scamusciri.

Ma senza tassi nun ci su’ spitala.

Cu penza a la munnizza? Cu a la scola?

Parissi festa

ammeci è na svintura.

Cu è rriccu campa.

Cu rriccu unn’è, talìa,

paga li tassi

e mali campulìa.

 

 

E male campicchia

 

Le tasse sono una vera malattia. / Ogni governo le vuole diminuire.

/ Ma senza tasse non ci sono ospedali. / Chi pensa alla

spazzatura? Chi alla scuola? / Sembrerebbe festa. / Invece è una

sventura. / Chi è ricco campa. / Chi ricco non è, sta a guardare /

paga le tasse / e male campicchia.

 

Ma nun è pi tutti uguali

 

Ci su’ autisti, ci su uscieri,

prisidenti, cancillieri.

Ci su’ judici, avvucati…

Cu fa mprestiti e palazzi

cu arricogli pizzu e grana

cu è pagatu p’ammazzari

cu ci vinni li pistoli

cu l’arresta

cu nni scrivi

ncapu libra e li giornala.

Cu fa liggi n Parlamentu

cu assicuta latitanti

cu va n càrciri è guardatu

cu si penti è stipendiatu.

Nni sta fabbrica speciali

cu cci campa, cu cci mori.

Ma nun è pi tutti uguali.

 

Ma non è per tutti uguale

 

Vi sono autisti, vi sono uscieri, / presidenti, cancellieri. / Vi sono giudici,

avvocati…/ Chi fa prestiti e palazzi / chi procaccia “pizzo” e soldi / chi è

pagato per ammazzare / chi gli vende le pistole / chi l’arresta / chi ne scrive

/ su libri e giornali. / Chi fa leggi in Parlamento / chi insegue latitanti

/ chi va in carcere è vigilato /chi si pente è stipendiato./ In questa fabbrica

speciale / chi ci campa, chi vi muore./ Ma non è per tutti uguale.

 

65 poesie che diventano, con la traduzione in lingua madre, 130 che vanno lette e meditate attentamente, perché non rappresentano uno spaccato soltanto della Sicilia, ma del mondo intero: registri linguistici che diventano metaforicamente registri di una nazione tra le altre nazioni.

Silloge in dialettoGià nel presentare l’altra sua opera, Pensamenti, scrivevamo:

 

Piero Carbone, uno studioso e profondo conoscitore della sua Racalmuto, ha compiuto con l’ausilio del linguista Salvatore Trovato, ordinario di Linguistica generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, una grande operazione di recupero del dialetto racalmutese originario, che quasi s’identifica con il dialetto di Girgenti, definito da Pirandello nella sua tesi di Bonn (Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti) la parlata più pura, più ricca di suoni, più vicina alla lingua italiana. E’ vero che ogni dialetto, secondo il Premio Nobel, ha suoni e Luigi Pirandello, tesi di laureasviluppi di suoni, ma quello di Girgenti ( ed anche quello di Racalmuto quasi identico, salva qualche dittongazione con taluni strascichi) concorse più degli altri alla formazione  della lingua italiana. Il Professore di filologia Pirandello – è il caso di dirlo – non si sottrasse alla polemica sulla “vexata quaestio” della Lingua, chiamatovi obtorto collo per rivendicare inoppugnabilmente l’importanza, in quel contesto, della Lingua Siciliana. Avere restituito, quindi, al dialetto di Racalmuto la sua originalità e la sua primitiva purezza, costituisce un risultato di valore assoluto nell’ambito degli studi linguistici e si colloca, rinverdendoli, nel solco delle elaborazioni filologiche pirandelliane.

 

Un doppio plauso, quindi, alla Medinova

 

 

la casa editrice che si è assunto l’onere di pubblicare l’opera vincitrice del Premio Martoglio 2009 e sta pubblicando una serie di libri di grande importanza per la storia locale e della Sicilia. L’editore, il medico Antonio Liotta  di Favara, sta facendo un buon lavoro e, come espressione della piccola editoria, va sostenuto e incoraggiato.

Medinova si trova in Via Napoli, 31

92026 Favara (Ag)

 

Tel/fax: 0922 32214    cell: 338 7406341

www.medinova.it e-mail: info@medinova.it Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

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e-mail: novamedi@virgilio.it

 

 

 

Piero Carbone

Venti di sicilinconia

opera vincitrice del “premio Martoglio 2009”

            

 

Piero Carbone è nato nel 1958 a Racalmuto in provincia diAgrigento.

Vive a Palermo dove insegna nelle scuole pubbliche. Scrive

in lingua e in dialetto siciliano.Alcune sue opere sono state musicate

e rappresentate.Ha curato una serie dimostre di artisti siciliani

e suoi testi figurano in cataloghi e numerose edizioni d’arte. Collabora

con diversi giornali e riviste.Opere pubblicate in dialetto: A lu

Raffu e Saracinu (1988), La luna (1994), Pensamenti (2008).Opere

pubblicate in lingua: Il mio Sciascia (1990), Sicilia che brucia

(1990), Notturno in via Atenea (1993), Emarginalia (1996), Eretici

a Regalpetra (1997),Dialogo nel bosco (2000; II ediz.ne 2002),

Il giardino della discordia (2006).

 Piero Carbone

La silloge, che presenta un evidente profilo poematico, è dotata

di una struttura espositiva e architettonica estremamente moderna,

pur mantenendo spesso una organizzazione metrica e dei

ritmi interni di grande efficacia comunicativa. Con un linguaggio

poetico che riflette la chiarezza del dettato, assicurandone

così la immediata comprensione nella lettura, il dialetto coniuga

strettamente e in sintonia le sue ancestrali radici lessicografiche

con l’espressione orale dei nostri tempi. Le venature malinconiche

e il sigillo di una ben pronunciata sicilianità spirituale e

culturale del poeta, conferiscono alla raccolta “Venti di sicilinconia”

il segno di una interessante suggestiva liricità.

 

(Motivazione per il conferimento del Premio “Martoglio 20009

 

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