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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

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31 giovedì Mar 2011

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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agrigento, akragas, empedocle, filosofia - articoli, letteratura - articoli, lions, mistero, pirandello, saggi, sciortino

EMPEDOCLE DI AGRIGENTO

 Empedocle di Agrigento

“Nato ad Agrigento intorno al 490 e morto verso il 430, Empedocle riassunse nella propria vita tanto la ricchezza di umori della sua terra natale, quanto la grandezza e l’ambiguità del suo pensiero. L’entusiasmo per la natura e la varietà dei suoi fenomeni, il profondo senso religioso che connetteva uomini, dei e fysis in intimi legami; la violenza delle passioni politiche, l’ansia della salvezza e il senso del tragico: di questi caratteri della Sicilia greca Empedocle fu, prima che interprete, pienamente partecipe. Capeggiò la fazione democratica della sua città; esiliato nel Peloponneso, si recò in seguito ad assistere alla fondazione di Turi, dove potè probabilmente incontrare Protagora, Erodoto ed Ippodamo; non è da escludere un suo contatto diretto con gli eleati. Seguendo l’uso arcaico, scrisse in versi; uno dei suoi poemi, Sulla natura, trattava argomenti cosmologici e naturalistici, l’altro, Purificazioni, aveva caratteristiche mistico-religiose”

(Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, I)

Logo dei LionsRecentemente il Club Lions Agrigento Host di Agrigento ha voluto festeggiare la mia produzione di scrittore, giunta al settimo volume, (presentatore il Prof. Nino Agnello) con un the letterario dal titolo “Da Contrada Consolida al Caos”, a rimarcare il legame forte dei miei libri con la cultura classica del territorio agrigentino. In tale sede ho ribadito che, se non ci fosse stato da parte mia un fortissimo interesse per l’opera del filosofo agrigentino, Copertina mio romanzonon avrebbe mai visto la luce il mio primo romanzo “Una contrada chiamata Consolida”, gran parte del quale parla di Empedocle. Del resto, ad Agrigento non si può non fare i conti con la cultura classica dell’antica Akragas e, precipuamente con Empedocle. In tale humus culturale affonda le radici la grandezza dell’opera pirandelliana, soprattutto quel “senso del tragico” di marca empedoclea – così come ben evidenziato da Geymonat – che fece acquisire al drammaturgo agrigentino il Premio Nobel per la Letteratura, premiato proprio per il suo teatro.
A voler riaffermare l’importanza della valenza universale di Empedocle e del suo pensiero, ho il piacere di pubblicare un bellissimo e profondo saggio del Prof. Calogero Sciortino, docente di Storia e Filosofia presso i Licei Classici, intitolato “Empedocle: un enigma tra intuizioni ed aporie”, in grado di offrire, ad appassionati e non di filosofia, a professori e studenti, spunti pregevoli di riflessione.

EMPEDOCLE:
UN ENIGMA TRA INTUIZIONI E APORIE

 
Saggio del Prof. Calogero Sciortino

Filosofia greca
1  LA PERSONALITA'
 

Chi fu Empedocle?
Agli occhi dell'interprete moderno, Empedocle si presenta come un enigma, circondato da quel fascino che sempre avvolge il mistero.
Tutti quelli, filosofi o dossografi, che nell'antichità, o ancora oggi, se ne sono occupati, o se ne occupano, ce ne danno ognuno un'immagine diversa e, talvolta, contrastante da quella di tutti gli altri; è come se ognuno lo avesse guardato o lo guardasse attraverso una lente diversa per colore e per diottrie. Ebbene, sovrapponendo le diverse immagini, non si riesce a comporne una; oppure, quando con fatica si riesce a comporla, essa risulta sfocata nei contorni, approssimativa, talvolta deforme. Dai suoi frammenti, comunque, traspare un'umanità profonda che, in qualche modo, ce lo rende vivo, vicino, presente.
Perché tante divergenze tra i testimoni dell'antichità e gli interpreti recenti? Forse perché ognuno voleva o vuole trovare in lui quel che cercava o cerca, anziché quello che egli veramente era, o forse perché c'era nella sua personalità, certamente straordinaria, un quid inafferrabile, inintelligibile per i canoni dell'uomo comune del mondo antico o del mondo moderno?
Potrebbe essere questo quid costituito, oltre che da alcuni poteri non comuni, da una profonda solidarietà umana, che si manifesta, pur essendo egli un aristocratico per nascita, nella sua opzione democratica, per cui fu coinvolto nelle vicende politiche di Akragas, travagliata dalla lotta tra aristocratici e democratici e nella partecipazione al dolore che affligge l'uomo?

Agrigento Tempio della Concordia

Se così fosse, Empedocle ci sarebbe contemporaneo più che mai; anzi, egli sarebbe coevo all'homo perennis, perché, sebbene vissuto in un tempo storicamente determinato, è capace, tuttavia, di rompere gli schemi del suo tempo per assumere una sorta di dimensione metastorica, che lo rende contemporaneo all'uomo di ogni tempo.
Perché gli si attribuiscono strane e disparate vesti e perché si tramandano tante divergenti immagini?
Si procede per punti interrogativi non certo per amore di retorica, ma perché l'approccio al mistero non può avvenire che per timide e problematiche ipotesi a cui, per altro, non potranno mai seguire verifiche illuminanti.
 
Chi fu veramente?
Se per noi moderni gran parte del fascino deriva dal mistero, per gli antichi, a lui contemporanei o postumi, dovette essere il contrario: fu forse il fascino che circondava la sua personalità, certamente straordinaria, a circondarlo di quel­l'alone di mistero e di leggenda che ci allontana, rendendocelo inafferrabile, dall'Empedocle storico.

Empedocle, filosofo di Akragas

Ci viene presentato ora come ingegnere capace di opere titaniche (come deviare il corso di un fiume o tagliare la sommità del colle di Akragas, ottenen­do così un vallone, modificando il flusso delle acque o la direzione dei venti per bonificare le città infeste) ora come sciamano o taumaturgo, capace di tenere prigionieri i venti, di curare le malattie e di richiamare i morti alla vita, ora come fondatore della retorica e maestro di Gorgia, ora come iniziatore della scuola medica siciliana, ora come una sorta di Cagliostro ante litteram, capace di circuire il prossimo con le sue arti, vere o presunte, ora come un semidio, che scompare alla vista dei mortali per essere assunto tra gli dei, ora, infine, come un martire della scienza, che si lancia dentro un cratere in eruzione per studia­re i meccanismi del vulcano.
Ma di tutte queste immagini qual è quella di Empedocle? Chi fu egli vera­mente?
A questa ricorrente domanda nessuno è in grado di dare una risposta defini­tiva.
Quale che sia stata la sua personalità, essa, comunque, non è riconducibile al canone classico dell'intellettuale, del saggio, del filosofo greco che si gratifica nel theorein,checon il lucido intelletto controlla le inclinazioni, domina le pas­sioni e sa elevarsi, senza mai trascurarla, dall'empiria del quotidiano alla con­templazione disinteressata della verità intellegibile, che è fonte della perfetta felicità.
Misura, equilibrio, distacco, contemplazione disinteressata del vero non sembrano le fondamenta su cui Empedocle avrebbe costruito la sua personalità, néha mai tentato di accreditarla in questi termini.
In Empedocle la sofia, il sapere non è mai theorein, contemplazione disinte­ressata del vero, ma praxein, azione, perché il sapere è sempre strumentale alle technaì, cioè all'esercizio di quelle arti che servono a lenire i dolori dell'uomo.
Forse Empedocle, pur restando un enigma, è più vicino all'uomo comune del V o del IV sec. a.C., come all'uomo di oggi, chiamato a fare i conti con il dram­ma dell'esistere, con le inquietudini e le angosce, con il non senso dell'étre au monde,con tanti eventi dinanzi al quali l'equilibrio, la misura, la coerenza, il distacco sono virtù che naufragano nell'astrattezza e nel grande mare dell'uto­pia.
Tanto emerge dalla lettura dei frammenti di Empedocle, dove l'ansia del­l'uomo si mescola alla genialità del profeta e del filosofo scienziato, dove il rigore epistemico si mescola alla magia e allo slancio religioso, dove l'umanità, però, è sempre presente con il cuore che palpita, con la mente che ragiona, con le aspettative e le contraddizioni dell'uomo di sempre. Per un verso Empedocle è lo specchio del suo tempo, il V secolo, che è il tempo in cui l'intelletto greco, sebbene già lucido e maturo, non aveva ancora del tutto fugato le tenebre della superstizione, in cui la filosofia e la scienza si mescolavano con la magia, in cui il razionalismo maturo e critico della sofistica abitava quasi solo ad Atene, e non si era diffuso nella periferia dell'Ellade, in cui le grandi cattedrali del pensiero classico non avevano le fondamenta su cui potersi erigere; per l'altro verso, con la sua umanità profonda, con la sua mancanza di distacco, con le sue aporie si fa contemporaneo all'uomo di ogni tempo.
 
L'enigma però non si scioglie.
Se chiediamo ad Empedocle di aiutarci a sciogliere l'enigma che lo riguarda, egli sembra divertirsi a complicarcelo. Vediamo, infatti, cosa ci risponde in un noto frammento:

 

Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)

0 amici, che la grande città presso il biondo Akragante abitate nel sommo della rocca, solleciti di opere buone, porti fidati per gli ospiti, ignari di mal­vagità, salve! Io tra voi come un dio immortale, non già mortale, m'aggiro, da tutti onorato come si conviene, cinto di sacre bende e di corone fiorite. Con i quali quando giungo alle città fiorenti da uomini e da donne sono venerato ed essi mi seguono in folla, desiderosi di sapere dove sia il sentie­ro che porta al guadagno e gli uni hanno bisogno di vaticini, altri invece per mali di ogni genere chiedono di ascoltare una voce di facile guarigione da lungo tempo trafitti da aspri dolori.
(Framm. n. 112 trad. it. a cura di G. Giannantoni, in I Presocratici, Bari, Laterza, 1962, vol. 1).

Si avverte il poeta ispirato, nel cui petto palpita un cuore che appassionata­mente partecipa al dolore che affligge i suoi simili.
Questa passione per l'umanità nasce forse dalla convinzione filosofica e dalla credenza religiosa che una sola è la vita cosmica e che tutti gli uomini vivono la stessa vita, che è divina.
Fu forse tale passione per l'umanità che lo indusse a schierarsi con i demo­cratici della sua città nella lotta contro la tirannide, subendo così anche l'umi­liazione dell'esilio, perché è probabile che proprio dall'esilio egli mandi il salu­to contenuto nel citato frammento.
Ma è veramente questo il contenuto del messaggio del frammento? Il testo greco, specialmente nella prima parte, è suscettibile di altre traduzioni e, perciò, di altre interpretazioni. Ecco, per esempio, un'altra traduzione‑interpretazione della prima parte del frammento:

0 amici, che occupate la forte rocca, al sommo della città presso la bionda corrente dell'Acragante, impegnati in sagge opere di governo, venerandi approdi per gli ospiti, ignari di malvagità: bravi! Ed anche io, secondo voi, non più come un uomo mortale fra tutti gli altri sono stimato, quando vado in giro, ma dò l'impressione di un dio sovrano, incoronato con infule e con fiorami vivaci.
(Trad. it. a cura di C. Gallavotti, Bruno Mondadori, Milano, 1994).

Il messaggio così assume un'altra tonalità: Empedocle non sembra rivolger­si a tutti gli Akragantini, ma solo a quelli che abitano nell'acropoli e che gover­nano la polis, che erano aristocratici e che erano suoi avversari politici.
Ma come è possibile che Empedocle tributi tante lodi a suoi avversari poli­tici? Le ipotesi interpretative possono essere diverse e, onestamente, non sap­piamo quale scegliere. E’ possibile che egli voglia porsi al di sopra delle parti e tentare una conciliazione con gli avversari; è anche possibile che voglia rispon­dere ad una maldicenza messa in giro da questi ultimi (come dire: siete voi che avete messo in giro la voce per cui tutti mi adorano come un dio); è ancora pos­sibile che egli voglia affermare di essere venerato come un dio suo malgrado (come dire che ciò è dovuto all'ignoranza e alla superstizione del popolo, per il quale però il filosofo dimostra comprensione); è, infine, possibile che il mes­saggio sia impregnato di feroce ironia verso gli avversari i quali sarebbero tutt'altro che "Ignari di malvagità" e "porti fidati per gli ospiti" per cui voglia rimproverarli di averlo cacciato in esilio, mentre egli, girovagando da città in città, esule, viene venerato come dio (come dire: nemo profeta in patria).
Ma è possibile un'altra lettura: perché escludere che Empedocle abbia volu­to lanciare un messaggio ambiguo o misterioso, che, del resto, sarebbe in linea con il contenuto magico e profetico del poema Sulle Purificazioni che è aperto proprio da questo passo? Perché, in altre parole, escludere che l'enigmaticità di Empedocle sia dovuta, almeno in parte, a lui stesso, ad una voluta ambiguità del suo messaggio o a certi suoi contraddittori, almeno per noi moderni, comporta­menti?
 
In ogni caso l'enigma non si scioglie.
Comunque, però, nel frammento in questione emergono senza enigmaticità la passione di Empedocle per l'umanità, che si traduce in partecipazione al dolore, e la consapevolezza di chi ritiene di possedere poteri straordinari.
Ma quali sono questi poteri? Sono i poteri connessi all'esercizio delle tech­nai, cioè delle conoscenze che permettono di dominare, o almeno di controlla­re, la natura o sono i poteri connessi all'esercizio delle pratiche magiche e alla pretesa di vaticinare, o, infine, sono entrambi i tipi di potere?
Non lo sapremo mai con certezza.
E’ possibile, comunque, che per Empedocle la magia potesse arrivare dove la scienza non riusciva ad arrivare e che la magia completasse in qualche modo la scienza. Empedocle non avvertiva ancora il contrasto tra la scienza e la magia, come lo avvertirà la cultura ufficiale dell'età classica; neppure l'età classica, però, riuscirà a liberarsene del tutto, come le epoche posteriori del resto (si pensi al Rinascimento). Questo non dovrebbe meravigliarci più di tanto, se anche oggi, nel secolo del vertiginoso progresso scientifico, alle soglie del terzo mil­lennio, e della tecnologia più avanzata, frequenti fatti di cronaca non solo ci attestano che c'è un revival delle pratiche occulte, ma che neppure presso tanti uomini di cultura, o addirittura presso uomini con responsabilità di governo, le pratiche magiche sono in disuso.
Gli studiosi ancora oggi non riescono a trovare accordo nel delineare la sua personalità e i rapporti con il suo tempo: a Jaeger, per esempio, che vede in Empedocle un uomo in anticipo rispetto al suo tempo, Dodds obbietta che non si può facilmente accettare la sua definizione di Empedocle come di "un nuovo tipo sintetizzante di personalità filosofica" poiché ciò che in lui non troviamo è appunto il tentativo di sintetizzare le sue opinioni religiose e le sue idee scien­tifiche. "Se vedo giusto ‑ aggiunge Dodds ‑ Empedocle non rappresenta un tipo nuovo di personalità, ma anzi uno molto antico: lo sciamano, cioè, che unisce in sé le funzioni ancora non differenziate, di mago e naturalista, poeta e filosofo, predicatore, guaritore e pubblico consigliere. Dopo di lui tutte queste funzioni si fecero autonome: da allora in poi i filosofi non furono più né poeti né maghi, anzi un uomo come Empedocle rappresenta già un anacronismo nel V secolo" (Erik Dodds: I Greci e l'irrazionale, trad. it. a cura di Virginia Vacca De Bosis, Firenze, 1983, p. 185).
Un parere analogo aveva espresso Aristotele nella Metafisica (984 a) che, dopo averci informato che Empedocle era più giovane di Anassagora, aggiun­geva subito, però, che sembrava più antico. Ma né Aristotele né Dodds tengo­no sufficientemente conto degli scenari in cui operavano i due filosofi. Quello in cui operava Anassagora era lo scenario dell'Atene dell'età di Pericle che, seppure con difficoltà, si avviava a diventare il centro culturale dell'Ellade, mentre lo scenario in cui operava l'Akragantino era quello della periferia dell'Ellade, dove le masse superstiziose non chiedono al Maestro la difficile via dell'intelletto per la comprensione del mondo, ma la facile via per la liberazio­ne dal mondo o, meglio, dal dolore che l'essere al mondo comporta, come lo stesso Empedocle attesta nel frammento n. 112 che abbiamo citato.
Nel filosofo di Akragas, comunque, si delinea chiaramente anche una men­talità scientifica che è presente in tanti suoi frammenti, come ad esempio, nel frammento n.100 ( in Giannantoni op.cit.) dove viene descritto, in termini ana­litici, il fenomeno della traspirazione del corpo attraverso i pori, distribuiti sulla pelle e dotati di valvole, che permettono la penetrazione nel corpo dell'aria dall'esterno, impedendo, nel contempo, la fuoriuscita del sangue; la scienza però non è così forte da debellare la magia, perché essa è ancora priva di rigore, e la magia non è ancora così debole da cedere il passo alla scienza.
Esse non sono ancora in conflitto nella enigmatica personalità di Empedocle.
 
2  TRA SCIENZA E MAGIA

Numismatica agrigentina

Questo mancato contrasto tra scienza e filosofia, da una parte, e religione mistica e magia, dall'altra, può essere la chiave di lettura dei suoi frammenti. Di Empedocle ci rimangono circa 500 versi dei forse 3000 (per qualcuno 6000) di cui si costituirebbero le sue due opere: Tà fusica (la fisica) e Oi Katharmoì (Le purificazioni). La prima presenterebbe una visione filosofico‑ scientifica del mondo, la seconda, invece, presenterebbe una visione mistico‑religiosa della realtà di chiara derivazione orfico‑pitagorica.
Questo almeno si è creduto di poter dire sulle due opere di Empedocle, tanto che Rosario Conti, sulla scorta di altri, scrive: "Qual è il vero Empedocle? Forse tutti e due. Nella Fisica si ha una sorta di panteismo in cui la divinità è tutta la materia cosmica, ridotta armonicamente in una sola cosa dall'amore, nelle Purificazioni, invece, si ha un teismo schietto e preciso per cui la divinità è solo uno spirito sacro ed ineffabile che scorre tutto il mondo con il veloce pensiero. E’ probabile ‑ continua Conti ‑ che Empedocle da un entusiasmo religioso dei primi anni sia passato, in età matura, alla fredda riflessione speculativa e, quin­di, dalla ricerca scientifica ad una visione quasi mistica. La magnificenza lette­raria dei due poemi è stata causa di numerosi “entusiasmi" e cita, tra l'altro, Lucrezio. (R. Conti Cosmogonie orientali e filosofia presocratica, Roma, 1967, pp. 283‑284).
Rosario Conti, agrigentino di Licata, è stato un fine ed erudito studioso della nostra terra, troppo poco noto rispetto ai suoi meriti, e si è occupato diffusamente anche di Empedocle nella splendida opera sopra citata; per questo mi piace menzionarlo e presentarlo a quanti non hanno avuto, come me, la fortuna di conoscerlo e di conversare con lui su Empedocle, come su mille altri temi filosofici, o di leggere i suoi dottissimi libri.
Non si può non concordare con i suoi giudizi circa la magnificenza letteraria delle opere di Empedocle, così come non si può dissentire dalla definizione del pensiero di Empedocle come panteismo e come misticismo.
Ciò che oggi non si può più condividere, invece, è la contrapposizione tra le due opere di Empedocle definite una come scientifica e l'altra come mistica e che ci sareb­bero state ben due crisi esistenziali che lo avrebbero indotto dapprima ad abban­donare la religione per la scienza e poi ad abbandonare la scienza per tornare alla religione e addirittura alle pratiche magiche. Filosofia, scienza, religione, magia, poesia. politica, ecc. Empedocle sono tutte compresenti ambedue le opere. Scrive, infatti, Dodds: il frammento in cui Empedocle rivendica la facoltà di tenere a freno i venti, produrre e arrestare la pioggia e risuscitare i morti fa parte del poema Della Natura non Delle Purificazioni; dallo stesso poema proviene il frammento 23 in cui il poeta ordina al discepolo di ascoltare la parola del dio    ( … ). Al poema Della Natura appartiene anche il frammento 15 che sembra contrapporre quel che si suol chiamare vita ad una esistenza più vera, anteriore alla nascita e posteriore alla morte" (Dodds op. cit. pp. 184‑185).
Non c'è stato perciò in Empedocle un passaggio dalla religione alla scienza, né una ulteriore involuzione dalla scienza alla magia: questi aspetti convivono e sono compresenti contemporaneamente nelle due opere.

La recente scoperta di un codice conservato a Strasburgo, rinvenuto agli inizi di questo secolo in Egitto, purtroppo scomposto in una miriade di frammenti, che gli specialisti stanno tentando di ricomporre, e contenente versi di Empedocle appartenenti a quelle che venivano ritenute due opere distinte, sem­bra giustificare addirittura l'ipotesi secondo la quale egli avrebbe composto una sola opera dai contenuti scientifici, religiosi, iniziatici e magici, che, se sono incoerenti per noi, non lo erano per lui.
 

Numismatica agrigentina

Sul piano religioso è fuori dubbio che per Empedocle la divinità si identifi­ca con la materia cosmica costituita dai noti quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) compenetrati in unità ad opera dell'amore (filia) in uno sfero (sfairos) che, però, a causa dell'odio (neikos) viene a disgregarsi per poi ricomporsi, in una vicenda cosmica ciclica caratterizzata dalla lotta tra filia e neikos. Dio è la materia, che, perciò, vive in tutte le cose, le quali nascono e periscono nei cicli­ci intervalli tra lo sfero (che è il momento in cui l'amore aggregante è domi­nante) e il caos (che è il momento in cui domina l'odio che separa). Ebbene, in questa visione non c'è contrasto alcuno tra una fisica panteista (per cui tutto è dio, dio è in tutto e tutto è in dio) e il misticismo religioso che coglie in ogni cosa la presenza e la vita stessa di dio.
Tutto si genera da una unità originaria (una sola è la vita del cosmo) simile all'Uno di Senofane o all'Essere di Parmenide, unità originaria, temporanea­mente scissa, di cui il filosofo avverte struggente la nostalgia.
E' certamente presente in Empedocle, infatti, la coscienza del tragico, anche se temporaneo distacco dallo sfero, così come è presente il trasporto verso l'an­nullamento della precaria esistenza individuale nell'unica vita cosmica.
A coloro che parlano, infine, di materialismo della Fisica e di spiritualismo delle Purificazioni è facile obbiettare che spirito e materia non sono, nel pen­siero presocratico, due sostanze distinte e contrapposte, se in Eraclìto il pensiero (logos) si identifica con una sostanza fisica (il fuoco) e se in Parmenide l'Essere, che è poi il pensiero, conserva la fisicità della sfera; è solo a partire da Platone, con quella che egli chiama seconda navigazione, che comparirà Feidos e con esso la distinzione, o meglio la contrapposizione, tra sensibile ed intelle­gibile, tra materiale ed immateriale.
Molto suggestiva è la concezione religiosa di Empedocle anche se poco chia­ra. Certa è l'influenza dell'orfismo e del pitagorismo, che però Empedocle forse interpreta naturalisticamente e, tuttavia, con profonda tensione mistica.
Dio è certamente lo sfáiros cioè l'unità non ancora scissa degli elementi aggregati dall'amore. L'uomo, perciò, composto dagli stessi elementi naturali dello sfairos è divino (daimon).
La scissione, dovuta all'odio, è peccato, come lo era per Anassimandro la separazione delle sostanze dall'apeiron; ma l'uomo‑demone, che vive separato da dio, pecca ancora, perché macchia le sue mani di sangue assassino e perché giura il falso; e allora deve scontare le sue colpe attraverso molteplici e succes­sive vite mortali in un doloroso stato di separazione dall'armonia dello sfero­-dio. Osserviamo con quanta efficacia Empedocle descrive la misera condizione del mortale:

C'è un vaticinio del fato, lui decreto antichissimo, eterno, primigenio degli dei, suggellato con ampi giuramenti: che quando uno, irretito nel peccato, si macchia le mani di sangue assassino o quando, al seguito della Discordia, giura il falso nel novero dei demoni, sorteggiati da una vita eternamente lunga, costui debba errare tre volte diecimila anni lontano dai beati e muta­re faticosi sentieri della vita per nascere nel corso del tempo sotto molte­plici forme di esseri mortali. La potenza dell'etere infatti li caccia nel mare, il mare li risputa sulla terra, la terra verso i raggi del sole lucente e questi li butta nei vortici dell'aria. L'uno li prende dall'altro e a tutti riescono odio­si. Uno di questi sono or anch'io, lontano da Dio e fuggiasco, poiché con­fidai nella folle Discordia.
(Framm. n. 115; la traduzione è tratta da Werner Jaeger La teologia dei primi pensatori greci trad. it. di Ervino Pocar, La Nuova Italia, Firenze, 1982 p. 223).

L'Empedocle che abbiamo visto esaltarsi nel frammento n. 112 come un dio, in questo frammento si avverte lontano da Dio e fuggiasco cioè in una dram­matica condizione esistenziale, comune a quella di tutti gli esseri viventi, per­ché ha confidato nella "folle Discordia". Contraddizione? È tale per noi moder­ni, ma non è forse avvertita come tale dall'Akracantino che, in ogni cosa, per­cepisce anche qui se stesso e tutti gli esseri viventi. come demoni, cioè come dei deca­duti.
La personalità di Empedocle, del resto, non è il luogo dove cercare la coerenza o una visione della vita e del mondo lineare.
Non presumiamo di avere sciolto un enigma, non ce lo eravamo neppure pro­posto, perché sapevamo che questo era impossibile e che gran parte del fascino che circonda Empedocle deriva proprio dal mistero e dalle sua aporie.
In ultima analisi, la personalità di Empedocle resta per me un centro in cui vanno a confluire varie e disparate istanze, come macchie di colore che non rie­scono a comporre l'unità di un disegno.
 
3  LA FILOSOFIA

Statua Efebo

Neppure la sua filosofia si dispiega con coerenza e linearità: molteplici sono, infatti, assieme alle intuizioni felici, le aporíe che non possiamo fare a meno di sottolineare.
La filosofia dell'Akragantino si muove nell'alveo dell'eleatismo che, come è noto, celebra l'unità, l'unicità, l'immortalità dell'Essere metafisico, che con­testa e nega il non essere perché ripugnante al pensiero, tanto sul piano fisico (e si traduce in negazione del vuoto e in negazione del divenire) quanto sul piano logico (e si traduce in negazione della molteplicità), che afferma il valore appa­rente del divenire, del nascere come del morire. L'essere è, perciò, ingenerato ed eterno, perché ammettere il nascere e il morire comporterebbe l'esistenza del nulla, prima e dopo la vita. Il movimento, il divenire, il nascere, il morire, la molteplicità degli esseri rientrano nella fallacia dell'opinione (doxa) del senso comune e sono inaccettabili per l'intelligenza che, invece, è la facoltà dell'uomo di scrutare oltre il senso comune. Fin qui l'eleatismo.
Ma il nascere, il morire, il divenire e la molteplicità, seppure apparenti, per il senso comune esistono e chiedono all'intelligenza di essere spiegati e chiari­ti; questa è la novità di Empedocle, che si identifica nel riconoscimento delle ragioni, del senso comune, cioè della doxa; insomma il senso comune ha, secon­do Empedocle, le sue ragioni che la ragione degli Eleati non conosce. Ecco, perciò, il comparire delle quattro radici (rizomata), delle quattro sostanze primordiali, dal cui mescolarsi nasce ciascuna delle cose molteplici e dal CUI separarsi deriva la morte funesta, anche se apparente.
Leggiamo un altro suggestivo frammento di Empedocle, che si rivolge al suo immaginario discepolo Pausania:
  
   Per prima cosa ascolta che quattro sono le radici di tutte le cose: Zeus splendente ed Era avvivatrice, ed Edoneo e Nesti, che di lacrime distilla la sorgente mortale ".  (Framm. n. 6)

 
Queste quattro sostanze, qualitativamente determinate, esistenti ab aeterno, conservano ciascuna i caratteri dell'Essere eleatico, ad eccezione della unicità; le cose, però, si compongono del loro miscuglio, in combinazione quantitativamente diversa, delle quattro radici.
Avviene nel cosmo, sostiene Empedocle, quel che avviene sulla tavolozza del pittore di immagini votive, che, mescolando pochi colori, può ottenerne infi­niti, variando il rapporto quantitativo tra i colori base. Nessuna cosa in realtà nasce o muore, perché il nascere e il morire sono solo il comporsi e lo scom­porsi di miscugli; eterne, invece, e prive di modificazioni qualitative restano le quattro sostanze.
La svolta dal monismo eleatico alle teorie corpuscolari di Anassagora e di Democrito passa attraverso il pluralismo di Empedocle che, anticipando Platone, commette, nel riguardi del Maestro di Elea, una sorta di parricidio. Il parricidio di Platone, però, rispetto a quello del filosofo akragantino, avrà ben altra maturità (un secolo non sarà passato invano): nascerà, come quello di Empedocle, dall'esigenza di giustificare la molteplicità (non più delle sostanze fisiche, ma delle essenze metafisiche), ma sarà legittimato dalla introduzione della categoria logica ed ontologica dell'alterità, che renderà possibile la dialet­tica. mentre quello di Empedocle, nato per dare giusta soddisfazione al senso comune, si consuma sulla base di una profonda incoerenza logica (aporia).
La molteplicità delle sostanze empedoclee postula, se non proprio l'esisten­za del non essere, almeno quella del vuoto, negato dagli Eleati e non ancora introdotto da Empedocle.
Anche la teoria del miscuglio (cioè della compenetrazione tra le sostanze, che ha luogo attraverso i pori, che sono alla superficie di ciascuna sostanza, e attraverso i canali che sono nel corpo di ciascuna sostanza, per i quali penetra­no gli effluvi provenienti da altre sostanze, teorie che Empedocle utilizza anche per spiegare l'evento della conoscenza) postula l'esistenza del vuoto, che sarà solo Democrito più coerentemente e scientificamente ad introdurre.
L'aggregarsi e il disgregarsi dei quattro elementi costituisce l'eterna e ricor­rente vicenda cosmica: il cosmo è il teatro di una drammatica lotta tra filia e neikos (amore o amicizia e contesa o inimicizia o odio).
La prima provoca simpatia, attrazione, compenetrazione tra le sostanze che, perciò, in virtù di essa si mescolano; quando essa prevale incontrastata, le radi­ci‑sostanze si fondono armonicamente in una sola vita, che è quella dello sfero perfetto che gode della solitudine che tutto l'avvolge.
Ma la contesa, provvisoriamente vinta e scacciata, riprende la lotta e gra­dualmente, man mano che essa prevale, le radici si dissociano e si distaccano dallo sfero; tuttavia, l'amore, seppure nella disgregazione dello sfero, riesce a disaggregarle parzialmente e provvisoriamente, dando vita alla molteplicità degli esseri che così nascono per tornare a disgregarsi e a morire. Quando l'amore sarà del tutto scacciato regneranno la separazione, la disgregazione, il caos, la solitudine di ciascuna sostanza.
Questa concezione cosmologica risulta inquietante, come inquietanti sono tutte quelle filosofie che negano il governo del logos, che segnano la suprema­zia dell'irrazionale, del dionisiaco sull'apollineo, che tolgono alla vita e al suoi eventi ogni senso logico, ogni spiegazione ragionevole.
L'universo di Empedocle è il teatro, infatti, dell'azione di due forze non riconducibili nella sfera del razionale: filia e neikos richiamano alla mente l'e­ros e il thanatos di Freud, l'irrazionale e l'istintuale di Schopenhauer e di Nietzsche; non c'è nell'Akragantino la visione olimpica e statica degli Eleati, che identificavano l'essere con il pensiero, non c'è il panlogismo di chi identi­ficherà razionale e reale, non c'è la confortante visione di chi coglie nel mondo il dispiegarsi di un disegno razionale o provvidenziale.
Resta solo una visione sconfortante della vita e della storia, resta solo un'e­sistenza precaria perché senza senso, perché caratterizzata da una fatalità priva di spiragli, da una provvisorietà desolante, perché governata, in ultima analisi, da forze oscure e misteriose. In Empedocle, inoltre, niente è definitivo, tutto è precario e provvisorio: anche la perfetta armonia dello sfero è, in fin dei conti, solo un momento nel divenire cosmico, un momento anch'esso precario e prov­visorio, destinato ad essere distrutto, per rinascere e tornare a distruggersi cicli­camente. C'è in Empedocle un pessimismo privo di prospettive, forse generato in lui dalla partecipata contemplazione del dolore umano.
Evitiamo di descrivere le ere empedoclee che scandiscono il ricorrente dive­nire cosmico, oscillante tra lo sfero e il kaos, evitiamo la descrizione, talvolta apocalittica, che per certi versi sembra preludere all'evoluzionismo del secolo scorso, della nascita del mondo vegetale, animale e umano, per porci una domanda a cui non sappiamo trovare risposta: cosa sono amicizia e contesa, qual è la loro natura, come si spiegano?
Non credo che si possano, anche per quello che è stato detto sopra, accettare ipotesi che le spieghino come forze di natura trascendente rispetto alla materia, come forse si può fare per il nous di Anassagora. E’ probabile che Empedocle pensasse a due veri e propri elementi fisici, e in tal caso le sostanze non sarebbero più quattro ma sei, o a qualcosa di fluido che circonderebbe gli elementi fisici, per cui non si uscirebbe, neanche così, dall'aporia relativa al numero degli elementi; forse Empedocle, come altri presocratici, si limita ad antropomorfizzare la materia, attribuendole gli stessi caratteri della psiche umana che, però, dovrebbe essere l'effetto non la causa di queste forze.
A meno che non si voglia considerare Empedocle come predecessore dell'elettromagnetismo, che si fonda sul principio di attrazione‑repulsione della materia, la citi natura ultima, però, rimane ancora inspiegata.
Né le perplessità finiscono qui. Ritengo di poter far mie le obiezioni che Aristotele muove alle funzioni di Amicizia e Contesa che, rispettivamente, sarebbero di aggregazione e disgregazione, perché succede, invece, che talvolta l'amore disgrega e l'odio unisce.
Leggiamo Aristotele:

In molti casi, almeno, gli succede (ad Empedocle) che l'amicizia divide e la contesa unisce: quando, infatti, l'universo, ad opera della contesa, si disgre­ga nei suoi elementi allora il fuoco, separato dalle altre sostanze, si raduna tutto insieme e così avviene degli altri elementi; quando invece l'amicizia li viene raccogliendo nell'unità, è necessario che le parti di ciascun elemento si separino daccapo. (Metaph. 1000b)

Lo stesso Aristotele rileva che i quattro elementi vengono adoperati da Empedocle non come quattro, ma come se fossero due soli: il fuoco per conto suo e gli altri tre, terra, aria e acqua, come in un'unica sostanza.
 
4  INTUIZIONI GENIALI

Agrigento, Cratere a figure rosse

Non mancano, come si vede, le aporie, ma non mancano le intuizioni felici. C'è per esempio in Empedocle, inequivocabilmente riconosciuta, con la contesa che contrasta l'amore, la funzione positiva del negativo che sta a fondamento della dialettica di tutti i tempi. Senza la contesa, infatti, se l'amore regnasse incontrastato, regnerebbero certo l'ordine e l'armonia, ma il nascere, il morire, il divenire e la vita individuale non potrebbero esistere. Non sappiamo se la dialettica empedoclea sia di derivazione eraclitea, ma, a parte il fatto che il filosofo di Efeso non viene mai citato almeno nei frammenti che ci restano, il pensiero di Empedocle non è, tout court, riconducibile a quello di Eraclito, perché evidenti, seppure problematiche, sono le influenze dell'eleatismo.
È possibile invece che questa fecondità del contrasto Empedocle la derivasse dalla sua convinzione politica di sincero democratico, che individuava appunto nel contrasto. e non nell'ordine stagnante, lo strumento della crescita della comunità civile; l'ordine, come annullamento di ogni contrasto è, in politica, la morte della democrazia.
Resta inoltre il fatto che, nel secolo dell'eleatismo, Empedocle abbia tentato di superarlo; la qualcosa dovette essere molto difficoltosa perché coinvolgeva Parmenide, il quale ancora per Platone era il "Padre venerando e terribile".
Ad Empedocle bisogna riconoscere il merito di aver dato, a suo modo, un'interpretazione della natura iusta propria principia, di avere aperto la strada al pluralismo di Anassagora e degli atomisti, e, in ultima analisi, anche alla fisica aristotelica che, come è noto, aggiungerà al quattro elementi empedoclei l'etere come quinta sostanza.
In quale posizione va collocata la filosofia di Empedocle nelle correnti del pensiero presocratico?
Non è possibile assegnargli un posto definito all'interno di un'altrettanto definita corrente; il suo pensiero può essere avvicinato ora all'una ora all'altra, senza mai, però, identificarlo con nessuna.
Empedocle ha il destino di ogni genio creativo che sfugge alle catalogazioni scolastiche, che sono spesso gli studiosi a creare. Può essere avvicinato, come abbiamo visto, agli Eleati, ma in una posizione di superamento; Empedocle è discepolo di Parmenide così come Aristotele lo sarà di Platone, così come gli idealisti si dichiareranno kantiani, così come tanti allievi supereranno, senza mai rinnegarlo apertamente, il pensiero dei loro maestri.
Platone, nel Sofista, colloca Empedocle accanto ad Eraclito (242 e), ma in Empedocle non c'è l'eracliteo disprezzo per la doxa, perché anzi per l'Akragantino la doxa è l'anticamera dell'episteme, della vera scienza, la quale, in ultima analisi, nasce proprio per spiegare il senso comune.
Aristotele, invece, lo colloca accanto ad Anassagora e a Democrito; si può essere d'accordo con questa tesi solo dopo aver puntualizzato che, delle concezioni pluralistiche, quella di Empedocle è logicamente e cronologicamente la prima.
Sono presenti, inoltre, nelle Purificazioni, alcune dottrine della tradizione orfico‑pitagorica, come la trasmigrazione delle anime, come le regole di vita, l'obbligo di non uccidere gli animali e di non cibarsi delle loro carni, a cui però Empedocle aggiunge la sua dottrina della transomatosi, per cui le sostanze che attualmente costituiscono il mio corpo hanno costituito altri corpi, e altri ne costituiranno ancora, essendo ogni corpo un miscuglio provvisorio di sostanze.
Non mancano, infine, influssi del pensiero ionico: si pensi, ad esempio, ad Anassimandro e al doloroso e colpevole distacco delle sostanze dall'apeiron, al quale sono condannate a tornare.
In Empedocle, insomma, sono presenti tutte le istanze del pensiero presocratico che, anche se non armonizzate nell'unità del sistema, sono tuttavia vivificate ed organizzate in modo originale. L'Akragantino è il genio filosofico che riesce a conciliare le opposte ragioni di Parmenide e di Eraclito, attribuendo i caratteri del divenire, che ancora Melisso aveva negato, al continuo mescolarsi delle quattro sostanze e dando a ciascuna di esse alcuni caratteri dell'Essere eleatico.
 
5  L'ENIGMA NON SI SCIOGLIE

Erma bifronte, Vincenzo Sciamè


Se fosse vero che un grande uomo è costituito da più uomini, ridotti in unità, nessuno sarebbe più grande di Empedocle.
In lui convivono, senza contraddizioni, il filosofo scienziato, che si interro­ga e ragiona, il mistico, che avverte l'unità della vita del cosmo e la presenza del divino in ogni cosa, l'iniziato dei culti misterici dell'orfismo, che avverte e soffre l'inquietudine che monta dal fondo oscuro e irrazionale dell'universo e dell'animo umano e che percepisce se stesso come divinità decaduta e immersa nella precaria esistenza quotidiana, travagliata dalla coscienza della colpa e dalla nostalgia struggente dei bene perduto, l'asceta, che rinunzia al piacere per purificarsi, il politico e filantropo, che impegna tutte le sue risorse per lenire il dolore dei suoi simili, forse anche il Pigmalione che si autoesalta con orgoglio, e, infine, il poeta ispirato che in versi suggestivi espone il proprio pensiero e canta i suoi stati d'animo e il suo amore per il mondo e per tutti quelli che lo popolano.
Tutto questo non si compone in un'immagine nitida e, perciò, l'enigma Empedocle non si scioglie.
In lui sono compresenti tutte le categorie perenni dello spirito, ciascuna delle quali, da sola, caratterizza una personalità: di solito il filosofo non è poeta, lo scienziato non è mago, il filantropo non è colui che si autoesalta, l'asceta non è politico.
In Empedocle, invece, le personalità più disparate si compenetrano in una unità misteriosa e incomprensibile che non si riesce a cogliere e perciò egli resta un mistero e forse tale resterà per sempre.
Eppure egli è vivo, vicino e presente. La sua filosofia è ricca di aporie, ma, chissà, forse anche per questo egli è un filosofo che potrebbe avere qualcosa da dirci anche per il terzo millennio.
Siamo, infatti, nell'età del debolismo filosofico, cioè nell'età in cui la filo­sofia ha preso coscienza dei suoi limiti, che costituiscono anche la sua gran­dezza e Il suo fascino; essa non è più la risposta definitiva e rassicurante per l'uomo che si interroga sul senso da dare alla sua esistenza, sulla verità assolu­ta e sul suo destino escatologico, cosa che solo la fede potrebbe fare, ma pro­blematicità appunto, cioè un procedere per punti interrogativi a cui non segui­ranno risposte verificabili; la filosofia è connaturata all'uomo perenne che è ani­male problematico, la cui condizione esistenziale è la meraviglia per la sua esi­stenza, per tutto ciò che lo circonda, per gli eventi che lo riguardano; la mera­viglia attiva il pensiero che si interroga, che procede per poi retrocedere, per deviare e per tornare sui suoi passi, e per tornare ad interrogarsi ancora in un processo infinito perché nessuna risposta sarà mai inattaccabile dal dubbio e dalla critica. Per questo Empedocle è un vero filosofo; egli ha distrutto le pre­sunte certezze degli Eleati ed ha rimesso in cammino il pensiero.

Pirandello al tempio della Concordia

Non riesco, per quanto enigmatico egli resti, a pensarlo come un Cagliostro; mi piace, invece, pensarlo come un Leonardo dell'antichità o come uno scien­ziato, anche se ec, 11 non cessa di essere mago, che lavora per l'umanità.
In ogni caso egli è vivo, presente, attuale, perché in lui palpita un cuore che sente e ama, opera una mente che ragiona e si interroga, agisce un mago che fantastica cercando di scrutare il mistero, un uomo di fede che spera, e c'è altro ancora; in Empedocle ci sono tutte le categorie dell'umanità perenne, di quel­l'umanità dolente e pensante che un suo Concittadino, altrettanto geniale, por­terà, venticinque secoli dopo, sulle scene del teatro.
 
Prof. Calogero Sciortino

 

18 giovedì Feb 2010

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agrigento, akragas, colimbetra, folklore, pirandello, valle dei templi

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65^ SAGRA DEL MANDORLO IN FIORE

FOLKLORE E PRIMAVERA ANTICIPATA

AD AGRIGENTO

 

Pirandello al tempio della Concordia

Con l’accensione del Tripode, la Fiaccolata dell’Amicizia e la prima sfilata dei gruppi folkloristici di tutte le parti del mondo, si è aperta ad Agrigento la 65^ Sagra del Mandorlo in fiore e il 55° Festival Internazionale del Folklore.

 

Una kermesse che è partita all’insegna del bel tempo, come avviene ormai da tanti anni ad Agrigento, mentre, in tante parti dell’Isola e nel resto dell’Italia, il gelo e il freddo la fanno da padroni. E il vero spettacolo che si rinnova ogni anno è la magnifica Valle dei Templi con i suoi mandorli completamente fioriti.

 


Uno spettacolo nello spettacolo è la Kolymbethra (dal greco, piscina) che si trova presso l’estremità occidentale della Collina dei Templi, all’interno di un taglio naturale che divide l’area del Santuario delle Divinità Ctonie dal Tempio di Vulcano.

 

Luigi Pirandello«… L’antica famosa Colimbetra akragantina era veramente molto più giù, nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell’aspro ciglione, su cui sorgono i Tempii, è interrotta da una larga apertura. In quel luogo, ora detto dell’Abbadia bassa, gli Akragantini, cento anni dopo la fondazione della loro città, avevano formato la peschiera, gran bacino d’acqua che si estendeva fino all’Hipsas e la cui diga concorreva col fiume alla fortificazione della città…»  (Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani)

 

Attualmente la Kolymbethra è un grandioso giardino di cinque ettari con alberi (ulivi, mandorli) e piante appartenenti alla macchia  mediterranea (mirto, lentisco, terebinto, euforbia, ginestra) e un ampio agrumeto con limoni, mandarini, aranci. Il giardino è stato affidato al FAI, che ne ha reso visitabili i suggestivi sentieri nella natura e che organizza, soprattutto d’estate, spettacoli serali di musica e teatro, nonché degustazioni di prodotti tipici.

 

 

 

30 sabato Gen 2010

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agrigento, akragas, arte, arte e cultura, empedocle, filosofia - articoli, scultura, wyatt

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LE QUATTRO RADICI DI EMPEDOCLE

NELLE SCULTURE DI GREG WYATT

 

“L’influenza maggiore su di me la ebbe l’adorata Firenze, ove divenni un giovane studente americano inestricabilmente avviluppato tra le sue bellezze e le sue meraviglie. Mi sentivo a casa nella Toscana storica, tra i suoi siti etruschi e le sculture di Donatello, Verrocchio, Michelangelo e Cellini. Era giunto per me il momento di “scrivere” in tre dimensioni, il che per me poteva significare solo bronzo”

 

Greg Wyatt (nt. 16 ottobre 1949, Grand View-on-Hudson nella contea di Rockland, –nello stato di New York) è scultore famoso, capofila della corrente neo-realistica americana. Le sue opere monumentali, infatti, sono presenti in diverse collezioni, nei giardini, nelle piazze e nei musei di diverse città del mondo, tra cui: negli Stati Uniti, Charleston,  Long Island, NY, Nashville, New York, Washington; in Oriente, in Cina a Pechino; in Francia a Parigi, in Inghilterra a Stratford-upon-Avon, città natale di Shakespeare; in Italia a Firenze, ad Agrigento presso il museo Archeologico, a Poppi e ora anche nella città di Bitetto (Bari). Wyatt, laureato della prestigiosa Columbia University, ha frequentato il corso di scultura alla National Accademy School of Design, dove ha approfondito le sue conoscenze sull’anatomia. Durante un viaggio decisivo in Italia, nel 1974, si è accostato ai grandi maestri italiani del Rinascimento e alla tecnica della fusione del bronzo. Oggi vive a New York dove dirige una scuola superiore d’Arte della scultura ed ha il suo laboratorio sotto la Cattedrale di St. John the Divine.

Il rapporto privilegiato con l’Italia ha spinto lo scultore a donare diverse opere.

“Two Rivers” (I due fiumi) è l’opera monumentale (altezza 4,70) in bronzo, donata alla città di Firenze.

 

Il leone e Volcanus sono le sculture donate invece al comune di Poppi.

 


Lo scultore scopre Akragas

e il filosofo della natura Empedocle

 

Non solo Firenze e la Toscana, ma anche la Valle dei Templi e la Sicilia classica rientrano nel progetto artistico di Greg Wyatt. Innamorato dell’antica Akragas e della filosofia della natura di Empedocle, del quale studia i frammenti, nasce in lui la ferma determinazione di portare una grande mostra nella Valle dei Templi, intitolata “Empedocles”, che viene realizzata nel dicembre del 2008. Tutto ciò avviene nel solco della continuità, perché l’opera più famosa di Wyatt “Peace Fountain” (Fontana della Pace), che si trova a New York davanti la Cattedrale di St. John the Divine, celebra il trionfo del bene sul male ed evoca il caos primordiale.

 

Nel leggere i frammenti di Empedocle, Greg Wyatt rimase folgorato dalla visione cosmica del filosofo, che gli diede conferme sulla lotta incessante tra bene e male, tra amore ed odio. Così concepì le quattro radici empedoclee (Terra, Acqua, Aria, Fuoco) come elementi arborei al sommo dei quali sta un’immagine femminile, identificabile nella forza di Venere che unisce tutte le cose, secondo la concezione cosmologica del grande filosofo agrigentino.

Ascoltami, o Pausania,

prole del savio Anchito:

per volere del caso

e per antica necessità

quattro sono le radici del mondo:

Terra, Acqua, Fuoco, Etere.

Appena s’accozzano

immediata sorge la lite.

Due argomenti apprenderai:

l’Uno ha origine dalle radici mescolate

e dall’Uno nascono le singole radici.

Ogni cosa ha doppia morte

e doppio nascimento,

giacchè si mescola nel tutto

e il tutto poi torna a separarsi.

Questo ciclo cominciò col mondo

e durerà in eterno

per impulso di due principi:

l’Amicizia che mescola tra di loro le radici

e l’Odio che, una volta unite, le sparpaglia.

Così l’Uno nasce dal più

e dall’Uno il più rinasce.

Entrambi han vita

ma il loro ciclo stabile non è;

la loro alternanza infaticabile

dura in un cerchio eterno.


 

Attentamente ascolta:

come prima ti ho detto

due sono i principi della vita.

L’Uno si forma dal più

e dall’Uno il più rinasce,

e cioè le quattro Radici:

Terra, Acqua, Fuoco ed Etere.

Vi sono anche due forze primitive:

Odio ed Amicizia.

Quest’ultima, innata ad ogni unione,

presiede ad opere leggiadre

con il nome di Venere o Allegrezza,

come la definiscono,

sebbene nessuno seppe indicare

perchè, anche involuta, unisca le cose.

L’Amicizia e l’Odio sono eguali

l’una sull’altro prevalendo

per volere del caso.

Non può nascere quindi

cosa che prima non era,

nè può perire cosa

che prima non esisteva.

E poi dove andrebbe a perire?

Esiste al mondo luogo

che non fa parte del tutto?

Onde verrebbe se non è mai esistito?

Ogni cosa deriva dal Tutto:

quindi accrescersi potrebbe se questo è Tutto?

Le cose in verità sono sempre le stesse:

si mescolano e si separano,

a vicenda muovendosi tra loro

e nascono sempre nuove forme

commiste di radici primordiali.

 

AKRAGAS AL TEMPO DI EMPEDOCLE

 

Greg Wyatt, con la generosità che lo contraddistingue, ha voluto donare al Museo Archeologico Regionale di Agrigento le quattro sculture monumentali in bronzo, rappresentanti le quattro radici empedoclee, che trovano naturale collocazione all’esterno del museo, nel quale sono comprese numerose opere artistiche del periodo in cui visse il celeberrimo filosofo. Un valore aggiunto per questo splendido Museo, unico del genere in Europa, ricchissimo di oggetti preistorici e storici dell’antica Akragas.

 

Questo Telamone, uno dei 38 che avevano il compito di sorreggere la trabeazione del grandioso Tempio di Zeus Olimpico, è alto mt. 7,61 ed è stato ricostituito in una grandiosa sala del Museo Archeologico. In una parete della sala, in apposite nicchie, vi sono altre teste di Telamoni.

 

Questa testa leonina è uno degli ornamenti di gronda, proveniente probabilmente dal Tempio di Eracle, che avevano lo scopo anche di spaventare e di allontanare le potenze del male.

 

La decantata bellezza delle donne e dei giovani dell’antica Akragas rivive nella Kore agrigentina e nell’Efebo di Agrigento, veri gioielli dell’arte greca.

 

Di notevole spessore artistico questo torso di guerriero, attribuito a Pitagora da Reggio.

 

Notevole la collezione di vasi greci, tutti da ammirare per la vivezza dei colori e per l’importanza degli episodi mitologici rappresentati, dei quali sono esempio questi tre magnifici esemplari dei tempi di Empedocle.

02 domenica Nov 2008

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QUAESTIO DE AQUA


Donne alla fontana

Dante AlighieriSia manifesto a tutti voi che, mentre io mi trovavo ad Agrigento, venne sollevata una questione la quale, pur essendo stata già molte volte dibattuta con l’animo rivolto più all’apparenza che alla verità, era rimasta insoluta. Pertanto io, essendomi costantemente nutrito dell’amore della verità fin dalla mia fanciullezza, non potei rinunciare a discutere la suddetta questione, ma volli indicarne la vera soluzione, nonché confutare gli argomenti addotti in contrario, sia per amore della verità che per odio della falsità. Inoltre, per evitare che il livore dei molti che sogliono fingere menzogne in assenza delle persone invidiate deformasse, dietro le spalle, le mie giuste argomentazioni, volli consegnare a queste pagine stese di mio pugno, la soluzione da me data, e delineare per iscritto lo svolgimento organico di tutta la disputa. (Dante Alighieri, Quaestio de Aqua et Terra)

 

E’ l’incipit con il quale il Divin Poeta iniziava una sua operetta minore, alla quale, per parafrasi, è stata sostituita soltanto la parola Mantova, mettendovi Agrigento. Ed in verità l’atavico problema dell’acqua nella Città dei Templi – problema gravissimo e tuttora irrisolto –  si continua a porre in termini così drastici e drammatici da giustificare un esordio dantesco così perentorio – verità/falsità – da lasciare arguire quasi un destino irreversibile  – quasi una colpa – di una popolazione. In uno scritto sulla questione dell’acqua in Sicilia Leonardo Sciascia nel 1963 fece la previsione della fine della grande sete nel 2015, affermando che quasi tutti i problemi dell’Isola si collegavano ai problemi dell’acqua, dell’acqua contesa fino alla violenza e al delitto, dell’acqua che si perde nei meandri della burocrazia e della mafia. Allora quell’anno sembrava così lontano, da lasciar credere la sortita sciasciana una facezia. Ma ora che ci avviciniamo alla fatidica data, e sono passati 55 anni senza trovare soluzione al problema, un interrogativo sembra d’obbligo: finirà la grande sete?

 

“L’ACQUA RADICE ESSENZIALE”

FIRMATO EMPEDOCLE DI AKRAGAS

 

Empedocle di AgrigentoChe l’acqua sia uno degli elementi essenziali della vita dell’uomo, l’intuì tra i primi il filosofo della natura agrigentino Empedocle, quando spiegava a Pausania e agli altri discepoli le origini del cosmo e le sue radici primordiali:

 

Ascoltami, o Pausania,

prole del savio Anchito:

per volere del caso

e per antica necessità

quattro sono le radici del mondo:

Terra, Acqua, Fuoco, Etere.

 

***

Innanzitutto ti dirò l’origine

del sole e d’ogni altra cosa,

ti dirò ancora dell’ondoso mare e della terra,

dell’aria che dentro di sé

tutto chiude e ravvolge,

dell’umido vapore e della luce

e dell’etere poi, che tutto cinge e avviluppa.

 

***

Dovunque vedere l’acqua puoi:

talvolta in neve si trasforma

e facilmente gela.

 

Grande medico e scienziato, Empedocle si rese conto anche della trasmissione di determinate malattie attraverso l’acqua che stagnava ed era inquinata e, per questo, era prodigo con i suoi pazienti di consigli igienico-sanitari. La sua fama e la sua competenza crescevano oltre l’ambito della polis akragantina. Chiamato d’urgenza a Selinunte, perché la gente vi moriva inspiegabilmente a causa di contagi e pestilenze, individuò nell’impaludamento del Selino e di un altro piccolo corso d’acqua i mali della città. Deviò la foce dei fiumi, facendovi affluire le acque del mare e riuscì a risolvere tutti gli inconvenienti. Per questo fu venerato come un Dio e in suo onore fu coniata una moneta con la sua effigie.

 

NELLA GIRGENTI REGNICOLA

UN NOVELLO MOSE’

 

Giuseppe Picone, storico di GirgentiFin dall’antichità l’acqua è stata croce e delizia del popolo agrigentino, in una terra avara di precipitazioni, difficile e ardua da lavorare e, perciò, prevalentemente coltivata

 a mandorlo, olivo, vigneto. Per impadronirsi dei pozzi e per il prezioso liquido si fecero guerre e si ammazzò facilmente. “La via della sete”, determinante in tutta la Sicilia per l’agricoltura, per l’uso potabile, per il commercio e l’industria, è stata da sempre premiante per i potenti che ne detenevano le leve. Per l’approvvigionamento del prezioso liquido si doveva pagare dazio, mentre la cosa pubblica non aveva i mezzi e, assai spesso, la voglia di risolvere definitivamente il problema.

La storia agrigentina ricorda che, il 9 gennaio del 1865, la Giunta municipale di Girgenti – Agrigento di allora – volendo risolvere il problema dell’acqua in città, problema annoso che i Borboni avevano trascurato, stipulava con la ditta Borgetti di Torino il contratto per la conduttura delle acque nella zona alta, alla Bebberria, da dipartirsi poi in tutte le altre parti della città, lungo tre direttrici

E l’acqua arrivò regolarmente il 19 ottobre dello stesso anno:

 

   “19. – L’acqua sgorga nel vallone sotto la Beberria, e il popolo vi concorre, come gli Ebrei al Siloe, con bottiglie brocche boccali, ed altri recipienti ad attingerne, a gustarne. Tutti i ceti, tutte le età, una benedizione universale!…

   22. – Alle 21 l’acqua supera l’erta della Bebberria, e sgorga nella conserva principale. Assiste a quello spettacolo un popolo frenetico di gioia.

   24. – La conduttura interna si compie. L’acqua dalla conserva si fa precipitare, quale un torrente, in talune strade della città, e il popolo n’esulta.

   29. – La mattina scende il clero, e immensa moltitudine di gente nel piazzale del palazzo della Provincia. Si imbandisce un banchetto, ove stanno seduti tutti gli operai di Borgetti, i quali avevano lavorato a quella grande opera, serviti dal prefetto Albenga, e da tutte le notabilità del paese. Il canonico Celauro benedice la vasca, e al dato segno, l’acqua balza dal centro di essa in grosso altissimo zampillo. Qui il tripudio non ha limite. Si vedono volare uccellini, stampe con poesie, razzi e bombe, si ode un grido unanime Viva Borgetti, che fu appellato il novello Mosè…. (Giuseppe Picone, Memorie Storiche Agrigentine)

 

Ma l’entusiasmò durò poco: nel luglio dell’anno successivo la siccità – non cadde una goccia d’acqua lungo l’inverno – fece scemare l’entusiasmo e, mentre la sete bruciava il popolo, il Borgetti, che vantava grossi crediti, diminuiva il volume dell’acqua.

E’ senz’altro il clima, la siccità – come in ogni altra parte del globo –  che rendeva, così come rende, difficile e problematica l’esistenza civile degli agrigentini; tuttavia, contagiato e influenzato da ciò, vi è anche un quid non indifferente nell’atteggiamento umano, come ebbe ad affermare acutamente, qualche tempo dopo, Luigi Pirandello:

 

Luigi Pirandello“Ci ostiniamo purtroppo a volere essere ombre noi, qua, in Sicilia. O inetti o sfiduciati o servili. La colpa è un po’ del sole. Il sole ci addormenta finanche le parole in bocca!”  (Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani)


Veramente da quella triste contrada maledetta dai contadini, costretti a dimorarvi dalla necessità, macilenti, ingialliti, febbricitanti, pareva spirasse nello squallore dell’alba un’angosciosa oppressione di cui anche i rari alberi che vi sorgevano fossero compenetrati: qualche centenario olivo saraceno dal tronco stravolto, qualche mandorlo ischeletrito dalle prime ventate d’autunno. (Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani).

 

L’umorismo pirandelliano descrive in maniera perentoria la logorrea politica e la deleteria tecnica del rinvio – giustificata da vari motivi – che finisce prima o poi per far incancrenire i problemi:

 

“Questo era il tempo delle grandi scoperte, e ogni Amministrazione che avesse veramente a cuore il decoro del paese e il bene dei cittadini, doveva stare in guardia dalle sorprese continue della Scienza. Il consigliere Colacci, pertanto, sicuro d’interpretare i voti del buon popolo milocchese e di tutti i colleghi consiglieri, proponeva la sospensiva sul progetto della Giunta, in vista di nuovi studii e delle nuove scoperte che avrebbero finalmente dato la luce al paese di Milocca” (Luigi Pirandello, Le sorprese della scienza, novella).

 

E così il progresso finisce per rimanere lettera morta:

 

“Vi ricordate di Milocca, beato paese, dove non c’è pericolo che la civiltà debba un giorno o l’altro arrivare, guardato com’è dai suoi sapientissimi amministratori? Prevedono costoro, dai continui progressi della scienza, nuovi e sempre maggiori scoperte, e lasciano intanto Milocca senz’acqua e senza strade e senza luce” (Luigi Pirandello, Acqua e lì, novella).

 Portatrice d

Milocca, ovvio, è una metafora per indicare Girgenti. Un racconto d’altri tempi, ma non troppo, se ancor oggi sulle cronache dei giornali leggiamo quotidianamente i turni dell’acqua, con l’indicazione di vie e quartieri. E i turni raggiungono a volte i 5-7 giorni, con il Sindaco che dichiara l’emergenza acqua e ottiene la “promessa” del Governo a risolvere il problema una volta per tutte.

 

 

L’ESEMPIO DI UN MECENATE

SIR ALEXANDER HARDCASTLE

 

Alexander HardcastleUn episodio storico sulla questione dell’acqua ad Agrigento, è la favola bella di un grande mecenate inglese, il baronetto Sir Alexander Hardcastle (Londra 1872-1933 Agrigento), che pagando di tasca propria 80.000 lire riuscì a portare l’acqua nella Valle dei Templi, per rifornire i contadini e gli abitanti delle zone circostanti e per irrigare i campi.

Il capitano della Reale Accademia militare di Volwich, Alexander Hardcastle, londinese ben fornito di mezzi finanziari, aveva intrapreso una carriera avventurosa, prestando servizio in Malesia e in Sudafrica, durante la guerra anglo-boera. Divenuto riservista, fu richiamato nel 1914 allo scoppio della Grande Guerra, lasciando definitivamente l’esercito nel 1917. Il suo arrivo ad Agrigento è nel 1920.

Villa AureaAlexander Hardcastle (Lomdra 1872- Agrigento 1933)Innamoratosi dei luoghi, decise di comprare una villa a ridosso del Tempio di Eracle, chiamata Aurea, perché vicina alla omonima e più importante porta dell’antica Akragas. Appassionato di archeologia e del mondo classico, l’eclettico inglese si dedicò agli scavi nella Valle, concorrendo anche a finanziarne le campagne con mezzi cospicui.

Tempio di Eracle, AgrigentoIl suo pallino fu, soprattutto, quello di ricostruire il Tempio di Eracle, a ridosso dalla sua abitazione.

Tempio di Ercole, Valle dei Templi AgrigentoAl finanziamento di questa laboriosa opera, più difficile con i mezzi di allora, Hardcastle concorse con quarantamila lire. Finanziò lo scoprimento della cinta muraria orientale di Akragas e per la localizzazione di quello che si credeva il teatro greco, con 50.000 lire. Partecipò a tutti gli scavi della vastissima area archeologica della mitica Valle, elargendo finanziamenti e suscitando l’emulazione di cittadini di Agrigento.

Elargì altre 50.000 lire per salvare il complesso monumentale del Centro Storico di Santo Spirito e destinò 80.000 per realizzare l’elettricità nella Valle dei templi, costituendo già l’attuale parco con vialetto illuminati.

Santo Spirito, AgrigentoAl capitano piaceva anche l’automobilismo e, disponendo di due grosse macchine, lo si vedeva spesso sfrecciare per le strade della città. Ma non era uno snob ed anzi era amato da tutti. Sui templi dorici, cercando bene, possono ancora oggi rinvenirsi i segni delle sue ricerche. Il suo mecenatismo fu premiato con il titolo di Commendatore della Corona d’Italia. Sicuramente si sarebbe distinto per altre iniziative, se non fosse intervenuta la crisi di Wall Street del 1929. Fallita la sua Banca di Londra, Hardcastle perse tutti i suoi averi e cercò di continuare la sua opera, vendendo una villa a Viterbo e, a llo Stato Italiano Villa Aurea. Ma la sua difficile situazione determinò in lui una irreversibile depressione. Si spense nel manicomio di Agrigento nel 1933. Sulla sua tomba è riportato anche il nome del fratello, reverendo Henry Robert, nato il 2 febbraio del 1874, anch’egli venuto ad Agrigento con l’intenzione di rimanervi e di esservi seppellito. Ma durante un suo rientro a Londra, il reverendo Hardcastle morì improvvisamente e il suo corpo non fu mosso dalla capitale britannica.

 

 Alexander Hardcastle, tomba


L’ACQUA AL TEMPO DEL REGIME

DI LEONARDO SCIASCIA

Racalmuto, fontana e castello 

Leonardo Sciascia racconta enfaticamente che il 14 dicembre del 1923 il Consiglio comunale di Regalpetra aveva deliberato il conferimento della cittadinanza onoraria a S,E. Benito Mussolini:

 

Leonardo Sciascia“Il presidente rammenta all’onorevole consesso la viva lotta che molti Comuni Siciliani, compreso il nostro, hanno sostenuto presso i passati governi per la soluzione dell’annoso problema idrico. Finalmente, soggiunge, solo il Governo Fascista ha saputo sollecitamente accontentare i voti di quanti di quel dono della natura vanno privi. Di fronte a sì alto beneficio, questo Consiglio Comunale, interprete dei sentimenti di tutto il popolo di Regalpetra, non potrà diversamente esprimere la sua riconoscenza e devozione al Governo Fascista che conferendo la cittadinanza onoraria al suo Capo Supremo S.E. Benito Mussolini…”

Così sollecitamente il governo fascista risolse il problema idrico che i tubi che dovevano portare l’acqua a Regalpetra giunsero a questo scalo ferroviario nel 1938, furono ammucchiati dietro i magazzini, da principio se ne interessarono i ragazzi, per giuoco vi si inconigliavano dentro, poi l’erba li coprì, restarono dimenticati nell’erba alta. L’acqua arrivò nel 1950, fu festa grande per il paese” (Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra).

 

Una storia emblematica sulla “via della sete”, una storia che ricorda tanto i nostri giorni.

Portatrici d

 

 

L‘ANGOLO DELLA SOLIDARIETA’

L

29 venerdì Ago 2008

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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LA PROVINCIA DI AGRIGENTO
IL PIU’ IMPORTANTE CONTENITORE
CULTURALE, ARTISTICO, LETTERARIO
DEL MONDO

Leonardo Sciascia

Pirandello giovane a Roma Salvatore QuasimodoLuigi Pirandello, conferenza sulla poesia Luigi Pirandello, tesi di laureaAlessio Di Giovanni Luigi Pirandello


Luigi PirandelloLibretto iscrizione UniversitàDiploma di laurea di PirandelloPirandello studente a Bonn Leonardo Sciascia                 

Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)



Agrigento Tempio della Concordia Agrigento, Tempio di ErcoleAgrigento, Tempio dei Dioscuri I Racconti di Giuseppe Tomasi





Empedocle di AgrigentoPirandello autoritratto 2 Tomasi di LampedusaBallo per le vie cittadineLeonardo Sciascia







E’ inconfutabile: non esiste al mondo una città uguale ad Agrigento, nella quale si è concentrato il più ricco patrimonio culturale, artistico, letterario della Terra. Patrimonio dell’Umanità per la mitica Valle dei Templi, Agrigento ha dato i natali al Premio Nobel, Luigi Pirandello e, prima di lui, al celeberrimo filosofo della Natura, Empedocle, grande poeta e tragediografo, medico e ingegnere, biologo e farmacista. Nella vicina Racalmuto è nato Leonardo Sciascia, lo scrittore della Ragione del Secolo Breve. La vocazione letteraria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è legata indissolubilmente ai luoghi del Gattopardo e dei Racconti, e cioè a Palma di Montechiaro e a Santa Margherita Belice, paesi dell’agrigentino. Anche l’apprendistato poetico dell’altro Premio Nobel siciliano, Salvatore Quasimodo, ha preso le mosse dalla valle del Platani di Agrigento, dove trascorse la fanciullezza, che lo marchiò  a fuoco, ispirandone il canto: gli accenti classici, assimilati tramite il paesaggio agrigentino dell’interno e della costa, non furono mai abbandonati.  Ad Agrigento e ai suoi luoghi si ispirarono, nell’antichità, Pindaro, Simonide di Ceo, Bacchilide, che ivi soggiornarono lungamente. Gorgia da Lentini fu scolaro di retorica del grande Empedocle. La parlata di Girgenti – come dimostra Pirandello nella sua tesi di laurea discussa a Bonn – è il dialetto siciliano che più si avvicina alla lingua italiana. Assieme allo stesso Pirandello,  Alessio di Giovanni – nato nella vicina Cianciana – fu un autorevole cultore del dialetto, teorizzandone anche gli aspetti di vera lingua.  

 
LE RADICI DI EMPEDOCLE

Empedocle di AgrigentoDiogene Laerzio riferisce nelle Vite dei Filosofi che Empedocle (492-420?) nacque a Akragas da famiglia illustre. Il nonno Empedocle era stato allevatore di cavalli e aveva vinto nella LXXI Olimpiade col celete (carro con un solo cavallo). Si dice che anche Empedocle il filosofo e il padre Metone avessero primeggiato alle olimpiadi. Ma ciò è naturale, perché a scendere in campo agonisticamente erano giovani dipendenti delle famiglie aristocratiche, mentre ai nobili andavano i meriti.
Empedocle fu discepolo di Parmenide di Elea (qualcuno dice anche di Pitagora), ma dalla sua concezione monistica si discostò per la pluralità degli elementi, le quattro radici (acqua, terra, fuoco, aria) che contraddistinsero la sua filolosofia della natura. Due forze opposte vitali, Odio ed Amicizia, a seconda del loro prevalere, determinavano la combinazione o lo scioglimento degli elementi. Scrisse due opere filosofiche: Sulla natura e Purificazioni, di cui restano soltanto frammenti. Sulla natura Empedocle spiega la sua concezione filosofica al discepolo Pausania, mentre nelle Purificazioni, a guisa di Pitagora, traccia la palingenesi dell’anima che passa di stato in stato per ritornare all’eterno, trascorse tre volte diecimila stagioni.  
La tradizione l’accredita di un Proemio ad Apollo, di una Spedizione di Serse, di numerosissime tragedie: opere andate perdute (o forse, si dice,  distrutte dalla sorella).
I frammenti rimasti sono, tuttavia, un raro esempio d’altissima poesia d’impronta omerica.

Lucrezio nel Libro I del De rerum natura (Della natura delle cose, versi dal 705 al 829) enuncia la teoria pluralista empedoclea sulla nascita delle cose.

 

Et qui quattuor ex rebus posse omnia rentur
ex igni terra atque anima procrescere et imbri,
quorum Acragantinus cum primis Empedocles est (…)
carmina quin etiam divini pectoris eius
vociferantur et exponunt praeclara reperta,
ut vix humana videatur stirpe creatus.

 

E coloro che da quattro cose pensan che tutto
(da acqua terra e soffio e pioggia) possa accrescersi:
e di questi, tra i primi c’è Empedocle di Agrigento(…)
e davvero i canti del suo divino intelletto
declamano a gran voce, e spiegano luminose scoperte,
sì che appena egli sembri di stirpe umana creato.

Ammiratore convinto ed entusiasta della poesia di Empedocle, Lucrezio ne esalta l’immortalità del canto, approfondendone anche la concezione filosofica.
Della terra akragantina, Empedocle colse il senso del tragico, gli umori delle fazioni politiche, le lotte incessanti tra aristocratici e democratici. Si dice che abbia riassunto tutto ciò in Scritti politici. Grande viaggiatore, raggiunse l’Egitto (e forse la Mesopotamia e l’India), dove studiò medicina nei sacri recinti dei templi di Eliopoli. Ritornato in patria, fondò una scuola di medicina e una di retorica. Suoi discepoli furono Gorgia di Lentini, Corace e Tisia.
Grande democratico, dal popolo gli fu offerto il governo della polis. Vi rinunciò,  a vantaggio del reggimento democratico dei Mille, da lui insediato alla guida della città. A seguito della restaurazione di un governo aristocratico fu esiliato, ritirandosi nel Peloponneso. Dice la leggenda che sia morto, cadendo nel cratere dell’Etna, accidentalmente o per suicidio rituale. Famosa la definizione sui suoi concittadini:

“Gli agrigentini costruiscono come se non dovessero mai morire e mangiano come se dovessero morire l’indomani”

  
PINDARO E IL MITO

I Telamoni del Tempio di Zeus di AgrigentoPindaro (nt. 522 o 518 a Cinocefale, mt. ad Argo 443 o 442) fu ad Agrigento,  alla corte di Terone, divenendo il poeta della polis e il cantore del reggimento aristocratico-oligarchico e dei suoi valori: la ricchezza, le glorie, la prestanza fisica, le vittorie agonistiche. Cuore delle sue odi fu il mito, che aveva lo scopo di celebrare ciò che è grande, eroico, divino. La musica, che accompagnava tutte le sue odi, rendeva la sua poesia unica, sublime. C’è chi definisce Pindaro poeta arcaico, tradizionale, magniloquente e c’è chi l’ha ritenuto “poeta a chiave”, simbolista, impressionista. Certo sono famosi i suoi “voli pindarici” e taluni pensieri che mostrano approfondimenti anche filosofici. Ma la vera natura di Pindaro, secondo la critica, resta quella capacità di rappresentare e celebrare ciò che è epico, evocativo, sublime. E’ un poeta comunque che andrebbe ristudiato al di là del contesto storico in cui si muoveva.
Dei fasti agrigentini rappresentò ed esaltò il mondo aristocratico di una città-stato che, assieme a Siracusa, diventò grande e famosa e trionfò nella battaglia d’Imera, sconfiggendo i cartaginesi, tradizionali rivali nel dominio del Mediterraneo. Poeta vate, quindi, dell’aristocrazia, valore assoluto della società di allora. Egli paragonò Terone di Agrigento al divino Eracle:

 

Se l’acqua primeggia
e tra i beni l’oro è il più venerabile,
ora al confine estremo Terone approda,
e da meriti propri sbarca alle colonne di Eracle.
Oltre è precluso a saggi e non saggi.
Io non voglio provarci. Sia folle, prima!

Cantò anche la vittoria olimpica del figlio di Terone, Senocrate, vincitore alle olimpiadi con il carro.

 Numismatica agrigentina

Numismatica agrigentinaUdite: il campo di Afrodite
occhi vivaci o delle Grazie
noi ariamo, muovendo al tempio
ombelico della terra altitonante;
qui, agli Emmenidi felici, alla fluviale Agrigento
e a Senocrate per la vittoria pitica
è costruito, nella valle ricca d’oro
di Apollonia, un tesoro d’inni,
che mai la pioggia invernale
– esercito irruento e spietato –
nuvola risonante, né il vento con detriti
confusi, percuotendolo, mai sospingeranno
negli abissi del mare…

 

Come tutti i poeti del tempo non si volle esimere dal pronunciare aforismi, di cui ricordiamo una perla di saggezza:

 “L’unico vero giudice della verità è il tempo”

 

SIMONIDE DI CEO
LE NENIAE CEAE

Filosofia greca Più vecchio di Pindaro, Simonide di Ceo (556-467) fu nello stesso periodo alla corte di Terone ad Agrigento, di cui divenne il poeta “nazionale”, non senza contrasti con il suo rivale più giovane. Simonide s’impose per la sua fedeltà al regime teroniano, fino a morire nella città dei templi. La grandezza di Simonide fu indiscussa, tanto da primeggiare a ottant’anni in una gara poetica con un ditirambo, anche se gli fu sempre preferito il rivale Pindaro. I suoi epinici che celebravano i trionfi agonali furono all’altezza di  quelli di Pindaro, tuttavia se ne distinsero per un più terrestre senso religioso. Simonide è, tuttavia, più ricordato per il valore epigrammatico di un filone della sua poesia e per i canti funebri, in cui evidenziava il pathos del suo canto, che passò alla storia letteraria con il nome di lacrime simonidee, Neniae Ceae.

 

Volo di mosca 

Poi che uomo tu sei,
non dire ciò che avverrà domani

 e poi che hai visto un essere felice,
non dire quanto tempo durerà:

 volo di mosca,
che l’ali ha sottili,
non è altrettanto veloce
quanto il mutamento di fortuna.

 

BACCHILIDE
IL DESTINO DELL’UOMO

 Agrigento, Cratere a figure rosse

In Bacchilide (507?-431?) la grandezza del mito è frammisto alla caducità della vita e alla temporaneità dell’esistenza. La gloria, la felicità umana e lo stesso canto del poeta appaiono transeunti. Questi furono gli elementi distintivi rispetto alla ispirazione eternante delle composizioni di Pindaro, del quale il poeta di Ceo fu un grande rivale. Introdotto a corte da Simonide – zio per parte di madre -, Bacchilide fu, oltre che a Siracusa, ad Agrigento, nello stesso periodo di Simonide e di Pindaro. Bacchilide fu tacciato ingiustamente di mediocrità, forse dalla fazione che parteggiava a spada tratta per Pindaro. Tuttavia, è indubbia la sua capacità a cantare e a mitizzare l’impresa olimpica, pur cogliendone la componente emozionale del momento e rendendola più umana e terrestre. E di questa pensosità esistenziale citiamo:

 Per l’uomo meglio non essere nato,
non aver mai visto la luce del sole;
ma nessun profitto c’è nei lamenti;
dobbiamo dire piuttosto
ciò che è destinato a compirsi.
C’è nella casa del coraggioso Eneo
una figlia vergine, che ti assomigli?

Di lei sarei lieto di fare la mia splendida sposa.

 Simposio

GORGIA IL SOFISTA 

Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)Singolare è la figura di Gorgia da Lentini (485-385), grande maestro dell’arte retorica. Come i siracusani Corace e Tisia, Gorgia fu alla scuola agrigentina di Empedocle. Empedocle, oltre ad essere un filosofo della natura, era un grande retore.
E’ famoso il rimprovero di Empedocle alla iattanza di Gorgia:

“Da te dovrei pretendere cinquanta per insegnarti a parlare, e cinquanta per insegnarti a tacere”

Pare anche che Gorgia fosse renitente ad accettare la filosofia della natura del suo maestro, dedicandosi al virtuosismo della parola, che tutto può dimostrare, come affermò nell’opera Elena:

“La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare gioia, e ad aumentare pietà”

Se è vero che i sofisti seppero riportare il filosofare sul terreno dell’umano (umanizzazione della cultura) e della dialettica, essi basarono il loro linguaggio prevalentemente sul momento irrazionale del profitto e della forza come primario nell’ordine sociale, trascurandone le esigenze etico-storiche.

Asinello

LA PIU’ BELLA CITTA’ DEI MORTALI

 

Agrigento Tempio della Concordia Akragas fu definita da Pindaro “la più bella città dei mortali”. Non fu un giudizio settario, il suo, perché la polis akragantina con Terone era assurta a grande potenza del Mediterraneo e all’indomani della battaglia di Imera (480), che aveva visto le forze agrigentine-siracusane sconfiggere i Cartaginesi, era diventata città molto opulenta e crocevia dei traffici del mondo allora conosciuto. La bellezza del suo porto e dei suoi splendidi e numerosi santuari ne fecero un luogo leggendario e meta ambita di commercianti e poeti. Per celebrare la vittoria, Terone fece edificare il gigantesco Tempio di Giove Olimpico, che rimase tuttavia incompiuto. Passò anche alla storia la proverbiale concordia agrigentina e il culto dell’accoglienza nei confronti dei forestieri, come testimonia la figura dell’albergatore Gellia.

 Agrigento, Tempio di Ercole

Agrigento, Tempio dei Dioscuri Pirandello al tempio della ConcordiaTempio della Concordia, AgrigentoAgrigento, Tempio di Castore e PolluceIl chiostro del monastero di S.SpiritoCapo Rossello (Ag)

LUIGI PIRANDELLO
LA COMMEDIA DI VIVERE

Pirandello autoritratto 1Pirandello autoritratto 2  
Il giudizio di regionalismo o di folclorismo, affibbiato all’opera di Pirandello, da parte di alcuni critici, tra i quali Gramsci, appare datato, riduttivo e improntato ad un aspetto  assai circoscritto dell’arte del Premio Nobel. Non sussistono ormai dubbi sullo spessore europeo di Pirandello, che nel periodo della formazione a Bonn venne a contatto con la grande filosofia tedesca, che ne impregnò definitivamente il modo di essere. Tuttavia, è indubbio che Pirandello abbia attinto dalla realtà della sua terra tipi e casi, riuscendo con il suo umorismo a trasformarli in rappresentazioni poetiche universali. Secondo la citazione epigrammatica di Simonide di Ceo “la città è maestra dell’uomo”, Pirandello fa assurgere la sua terra ad universo, riprendendo le categorie primigenie ivi esistenti, del dramma e di quella tragicommedia che è il vivere del siciliano e in particolare dell’agrigentino.
La commedia è un genere letterario che Pirandello trova quasi per partenogenesi, e le sue novelle possono considerarsi un itinerario naturale verso il teatro, laddove doveva esplodere, irreversibilmente, tutta la sua arte. Non ci sarebbe stato il teatro pirandelliano, se non fosse esistito Pirandello novelliere. Si può dire che per Pirandello il teatro è la vita, e la vita il teatro; e “la vita o si vive o si scrive”, o forse si scrive, vivendola o si vive scrivendola.  

 Casa Natale di Pirandello oggi

LA PARLATA DI GIRGENTI

A Bonn

A  seguito del contrasto con il suo docente di latino, Onorato Occioni, Preside della facoltà di lettere dell’Ateneo romano, a Pirandello fu consigliato da parte di Ernesto Monaci di andare a Bonn per proseguire gli studi filologici. Fu raccomandato da Monaci a Wendelin Foerster, il quale era interessato ai dialetti siciliani e sardi.

“Presi nel marzo del 1891 la laurea di dottore di filologia romanza con grande soddisfazione dell’indimenticabile mio maestro romano Ernesto Monaci ed il seguente anno scolastico restai ancora a Bonn in qualità di Lector di lingua italiana nell’Università”

Luigi Pirandello, tesi di laureaLa tesi di Pirandello “Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti” (Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti) venne accolta positivamente.
La parlata di Girgenti secondo Pirandello è la più pura e quella che più si avvicina alla lingua italiana, sulla cui origine aveva idee abbastanza chiare e non lungi dal vero.

“Dire che la lingua italiana l’abbia fatta Dante levando il parlar fiorentino a dignità di lingua o sposando, per dirla con l’Ascoli, il tipo fonetico, il tipo morfologico e lo stampo sintattico del linguaggio di Firenze al pensiero italiano, è così grande errore come sarebbe per esempio affermare che la lingua tedesca l’abbia fatta Lutero traducendo la Bibbia nella lingua della cancelleria di Sassonia. La verità è che così l’uno come l’altro non hanno fatto che proporre con le loro opere immortali un tipo, a cui letterariamente si son venuti adattando tutti gli altri parlari, recandovi ciascuno il proprio contributo”

 

Leonardo SciasciaLEONARDO SCIASCIA
RAGIONE E SAGGEZZA

Grazie a Leonardo Sciascia (1921-1989), Racalmuto viene identificato come il paese della Ragione. Sciascia trova proprio nella sua terra, soprattutto nel mondo contadino, un’antica saggezza che gli fornisce una potente chiave di lettura della realtà. La sua lente osserva secondo un proposito già tracciato:

“Le cose che scrivo partono sempre da un’idea e si svolgono su uno schema. Voglio “dimostrare” qualcosa servendomi della rappresentazione di un fatto immaginato o inventato; e dico inventato nel senso di trovato nella storia e nella cronaca”  

La scrittura per Sciascia è memoria, memoria delle cose “trovate”, soprattutto dei primi dieci-dodici anni di vita, come soleva affermare. Come il contadino, che era avvezzo a lavorare e a formarsi una sua coscienza alla luce del sole, egli con la scrittura fa emergere la realtà, verità o impostura non importa, perché la Ragione deve tutto rivelare, vero e falso. E nel rivelare l’ingiustizia e la prevaricazione, l’intolleranza e la disumanità, non c’è la sconfitta della Ragione, ma anzi il suo trionfo. E’ sempre la Ragione che rivela la realtà effettuale (verità o menzogna): sta all’uomo ritrovare la sua umanità per sconfiggere il male. E in questo senso la Sicilia – e i suoi mali – diventano metafora del mondo.

Racalmuto Castello Chiaramontano

I LUOGHI DI TOMASI DI LAMPEDUSA

Tomasi al monastero di Palma Montechiaro

Palma di Montechiaro

 Palma di Montechiaro (Ag)

La Beata Corbera Quale valore assumono i luoghi nell’economia del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), Il Gattopardo, e nell’altro suo libro I racconti?
Tanto, tantissimo. La cura ambientale e descrittiva del Gattopardo, unitamente alle rievocazioni di Ricordi d’infanzia ci danno la chiave di un mondo in dissoluzione e in disfacimento, ineluttabilmente perduto, a più rimarcare il dramma del declino irreversibile del ceto aristocratico.

“Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso quando essa da dodici anni non è più che un ricordo”

Questo era il legame di Giuseppe Tomasi di Lampedusa con i luoghi della sua infanzia, un legame forte, totale, che gli diede l’incentivo a creare i suoi capolavori. Senza la casa e il castello di Palma di Montechiaro, la Donnafugata gattopardiana, e la grande casa di Santa Margherita Belice, la preferita dei Ricordi, non ci sarebbe stata la grande creazione del Gattopardo. Troppi, essenziali sono i collegamenti intimi dell’infanzia di Tomasi con i filoni ispiratori delle vicende del romanzo. Nulla osta quindi a concludere che lo scrittore non si sarebbe mai imbarcato per un viaggio così importante all’interno della sua anima e della sua cultura, se non avesse mai sperimentato il viaggio in quelle contrade, che nelle sue opere diventa il “viaggio della memoria”.

Santa Margherita Belice

“Il fascino dell’avventura, del non completamente comprensibile che è tanta parte del mio ricordo di S.Margherita, cominciava con il viaggio per andarvi”

 Viaggio nella memoria, nell’anima, nella vita, con e nella scrittura. E per questo si può affermare che i luoghi tomasiani della provincia di Agrigento costituiscono la chiave di volta per comprendere nella sua vera essenza la reale statura del Gattopardo e dei suoi personaggi.

 Tomasi Palazzo Filangeri Cutò


SALVATORE QUASIMODO
NELLA VALLE DEL PLATANI

Salvatore Quasimodo 

…Forse
dà fiato dai pianori d’Acquaviva,
dove il Plàtani rotola conchiglie
sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli
di pelle uliva…

La poesia di Salvatore Quasimodo (1901-1968) appare scandita dai temi della propria terra, come perdita del paradiso perduto e dell’innocenza, che viene tradita e disillusa dalla brevità della vita umana, consumata nella società metropolitana.
La Valle del Platani, fiume che scorre per la quasi totalità in territorio agrigentino, segnò con il suo paesaggio la sua ispirazione poetica, dalla quale mai riuscì a distaccarsi, rimanendone sempre smarrito:

…La ragazza seduta sull’erba alza
dalla nuca i capelli ruvidi e ride
della corsa e del pettine smarrito…

(Tempio di Zeus ad Agrigento)

 Ma il presagio della morte atterrisce:

…Il telamone è qui, a due passi
dall’Ade (mormorio afoso, immobile),
disteso nel giardino di Zeus…

(Tempio di Zeus ad Agrigento)

Agrigento, Telamone, Tempio di Giove

 Il tempo rode persino il cuore dei giganti di dura selce:

 

Là dura un vento che ricordo acceso
nelle criniere dei cavalli obliqui
in corsa lungo le pianure, vento
che macchia e rode l’arenaria e il cuore
dei telamoni lugubri, riversi
sopra l’erba…

(Strada di Agrigentum)

 

 Salvatore Quasimodo, Michele Lizzi

‘NFERNU VERU, DI ALESSIO DI GIOVANNI

 

Alessio Di GiovanniLeonardo Sciascia così dice di Alessio Di Giovanni (1872-1946) ne La corda pazza

 “…di questa galera che è la zolfara, il poeta che più realmente e intimamente ne abbia vissuto il travaglio, la tragedia, è senza dubbio Alessio Di Giovanni”

Il dialetto di Alessio Di Giovanni, agrigentino di Cianciana, sembra il più indicato a rappresentare il grido di dolore di un mondo di rinuncia, di abiezione, di segregazione, un mondo infernale d’oscurità e di miseria, dove la vita conta poco, anzi niente.

 Scinninu a la pirrera cu li spicchia
nmanu comu l’armuzzi dicullati
quannu a la notti so, ntra canti e picchia
vannu a li casi di l’appuriatu

 Scinninu pi na scala ca scruciddia
cu l’altri ni lu scuru nabissati
scinninu adaciu e ad ogni tanticchia
ringrazianu di Diu la gran buntati

 Ma cumincianu doppu lu travagliu
ca li strudi l’ammazza e li ruvina
vastinniannu ddu Diu ca l’hà criati

 E fannu di ddi timpi lu bersagliu
di l’odiu ca li coci e li nvilina
poviri carni umani sfracillati!…

Disastro miniera Cozzo Disi 1913Un dialetto, quello di Alessio Di Giovanni, tra i più puri, che scaturiva da uno studio profondo della lingua siciliana. Di Giovanni criticò anche Verga a proposito del dialetto, di cui rivendicò, sulla falsariga di Pirandello, la purezza contro le contaminazioni che se ne facevano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

08 martedì Apr 2008

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LA CINA E’ VICINA

Simbolo dei giochi olimpiciTibet freeLa fiaccola di Pechino



La fiaccola olimpica sta facendo il giro dei cinque continenti, ma le polemiche, le contestazioni e le prese di posizione sulle Olimpiadi  di Pechino non cessano; anzi aumentano dietro l’impulso delle notizie drammatiche che continuano a pervenire dal Tibet. Certamente la fiaccola viene svilita nel suo significato originario, mentre l’opportunità di boicottare i giochi di Pechino acquistano consistenza.

 

 EMPEDOCLE, OLIMPIONICO DELL’ANTICHITA’

 
Lo spirito pacifico dei giochi sportivi, visti come insopprimibile fratellanza tra i popoli,   risale alle origini delle città-stato della Grecia e trova antecedenti già nell’uomo delle caverne.

Grotte dellOlimpia Tutti i greci, con spirito unitario nazionale, si fermavano ogni quattro anni, cessavano anche le guerre, per onorare Giove nella città di Olimpia. La tradizione risale ad Ifito e Licurgo nell’880 a. C. e, considerata la importanza, dal 776 le Olimpiadi divennero la base della cronologia antica, sino al 4° secolo d.C. I giochi si aprivano con cerimonie religiose e con sacrifici,  e gli atleti partecipanti giuravano davanti a Giove di comportarsi con onore: il loro premio era una corona intrecciata coi rami di un sacro ulivo selvatico.

Giove Olimpico, statua di Fidia

Copia del Discobolo di Mirone

Seguivano, dopo le premiazioni, sontuosi banchetti, allietati da suoni e danze, nonché da declamazioni da parte di poeti.





L’antica Akragas (Agrigento) aveva forti tradizioni olimpioniche e partecipò sempre ai giochi, portando varie volte alla vittoria i suoi atleti.

Agrigento, Cratere a figure rosseNumismatica agrigentina

Numismatica agrigentina
Pindaro cantò nei suoi inni le gesta sportive dei protagonisti dei giochi, e, tra gli altri, celebrò  il tiranno di Akragas, Terone, vincitore ad Olimpia nella corsa dei cavalli.

 

“Agrigento

è la meta, e diremo alte

con cuore sincero parole giurate:

non partorì in un secolo questa città

uomo di pensieri premurosi,

di mano munifica verso gli amici

più di Terone”

 

“Ai Tindaridi ospitali e a Elena,

bella di riccioli, voglio

piacere,  onorando Agrigento famosa

ed ergendo per Terone ad inno

olimpionico il fiore di cavalli

dai piedi instancabili. Certo per questo la Musa

mi fu vicina, e trovavo un modo brillante,

un accordo nuovo di voce festosa e di ritmo

dorico. Ora da me le ghirlande

annodate alla chioma

reclamano un debito eretto dal dio:

che io fonda in giusta misura il vario

tono di cetra e clamore di flauti e una

trama di voci per il figlio di Enesidemo”

 Anche Simonide di Ceo (morto ad Agrigento) e il nipote Bacchilide celebrarono con inni ufficiali i vincitori di Olimpia, sia pure con accenti diversi di quelli di Pindaro.
Empedocle di AgrigentoEmpedocle non fu soltanto un grande filosofo della natura, medico, biologo, ingegnere, oratore e retore, ma partecipò anche e si distinse ai giochi di Olimpia , come afferma  Satiro nelle Vite: vinse con il celete, così come il nonno Empedocle il vecchio, prima di lui, e il padre Metone. Favorino  nelle Memorie ricorda che in quell’occasione, Empedocle avesse festeggiato offrendo un grande bue di miele e farina. Proprio relativamente a quell’Olimpiade, si tramanda che il rapsodo Cleomene abbia recitato di Empedocle  il poema, Le purificazioni, e pare che il pubblico ne sia  uscito commosso, tributandogli il massimo riconoscimento. Empedocle, inoltre, fu un grande democratico e, pur appartenendo ad una famiglia aristocratica, lottò a favore dei diseredati. Coerente negli atteggiamenti, quando gli fu offerta la corona reale, vi rinunciò, insediando un governo di mille persone. Ma ciò non riuscì a salvarlo dalla reazione dell’oligarchia di Akragas, che lo fece condannare all’esilio.
Le fonti – Diogene Laerzio in particolare- evidenziano dubbi intorno alla sua morte, avvenuta con la caduta, per suicidio  rituale o per imprudenza, in un cratere dell’Etna, oppure dovuta alla caduta dal suo cocchio, o in ultima analisi per vecchiaia nel Peloponneso, dove s’era ritirato in esilio.   

Filosofia greca 
CINA E OCCIDENTE

La muraglia cineseL’impenetrabilità del mondo cinese può essere rappresentata, fino a un momento dato  della storia, dalla grande muraglia cinese, la più imponente opera in muratura mai costruita dagli uomini, lunga 3.500 chilometri. Ad essa lavorò un terzo della popolazione del celeste Impero. Scopo ne fu la costituzione di un baluardo per impedire l’invasione dei barbari, anche se in verità a ciò valse poco.  Ma voleva costituire anche un confine netto con le popolazioni, diverse per mentalità  e tradizioni, che si trovavano ai confini: la Cina insomma ci teneva a rimanere separata dall’Occidente.

Marco PoloLo stesso Marco Polo, nel Milione, parla della  Cina (Katai) come un mondo fiabesco, lontano anni-luce da quello occidentale.

“Quando l’uomo si parte di questa provincia ch’i’ v’ò contato, l’uomo discende per una grande china, ch’è bene due giornate e mezzo pur a china. E in quelle 2 giornate (e mezzo) no àe cosa da contare, salvo che v’à una grande piazza, ove si fa certa fiera certi dí de l’anno. E quine vegnono molti mercatanti, che recano oro e ariento e altre mercatantie assai, ed è grandissima fiera”

 Vi è la possibilità di commerciare, ma il modo di vivere e le tradizioni rimangono impenetrabili, off limits.  Anche del Tibet Polo rivendica l’autonomia rispetto alla Cina.

“Tebet è una grandissima provincia, e ànno loro linguaggio; e sono idoli e confinano co li Mangi e co molte altre province. Egli sono molti grandi ladroni. E è sí grande, che v’à bene 8 reami grandi, e grandissima quantità di città e di castella. E v’à in molti luoghi fiumi e laghi e montagne ove si truova l’oro di paglieola in grande quantità. E in questa provincia s’espande lo coraglio, e èvi molto caro, però ch’egli lo pongono al collo di loro femine e de’ loro idoli, e ànnolo per grande gioia. E ‘n questa provincia à giambellotti assai e drappi d’oro e di seta; e quivi nasce molte spezie che mai non furo vedute in queste contrade. E ànno li piú savi incantatori e astrologi che siano in quello paese”

Bertrand RussellQuesta diversa mentalità tra mondo occidentale e mondo orientale si è mantenuta per millenni, e viene evidenziata dal filosofo inglese Bertrand Russell, in The problem of China nochè in Sceptical Essays, ritenendo che più che nell’Occidente turbolento, in Cina si potesse trovare grande tolleranza e la pace contemplativa della mente. Siamo già negli anni venti del XX secolo. Tuttavia Russell conclude quasi profeticamente:

“Se tutto il mondo fosse come la Cina, tutto il mondo potrebbe essere felice, ma, finchè gli altri saranno guerreschi ed energici, i cinesi, ora che non sono più isolati, saranno costretti a copiare, entro certi limiti, i nostri vizi se vorranno conservare la loro indipendenza nazionale. Ma non c’illudiamo che questa imitazione sia un perfezionamento” 

La Cina aveva – e continua ad avere – alle spalle, rispetto all’Europa e all’Occidente intero, il taoismo, il buddismo, e soprattutto il confucianesimo, che tra di loro  non confliggevano e della vita davano una visione meno esasperata. I governatori cinesi preferivano le massime confuciane sul dominio di sé, sulla benevolenza e sulla cortesia, unite a una grande insistenza sul bene che può essere fatto da un governo saggio; mentre la morale occidentale era quella del successo materiale ottenuto per mezzo della lotta, sia per le nazioni quanto per gli individui. Tuttavia, come aveva previsto bene Russell, l’esigenza della Cina era quella di scrollarsi di dosso l’isolamento e di entrare nel novero delle grandi potenze.

 

DAL NAZIONALISMO AL COMUNISMO

 
La Cina era il grande malato dell’Estremo Oriente. Fin dai Trattati di Nanchino del 1842 (guerra  anglo cinese, dell’oppio), del Tientsin del 1861 (guerra anglo-francese-cinese),  di Shimoneseki del  1895 (guerra cino-giapponese), nonché dalla spedizione internazionale del 1900, che aveva sedato la rivolta dei Boxers, l’Occidente  aveva l’interesse a non curarne la condizione di bisogno e di minorità in cui si trovava, preferendo fare dell’antico impero un grande fruttuoso mercato.  
Estromesso il governo imperiale, il Kuo Min Tang, partito nazionalista creato da Sun Yat-sen (primo presidente della Repubblica cinese, 1912), nel quale s’era imposto il generale Chiang Kai-shek, cercò di spezzare questa dipendenza dall’occidente, collaborando inizialmente con il partito comunista, fondato nel 1921 a Shanghai. I comunisti, tra i quali Mao Tse-tung e Chou En-lai, ottennero per questo posti di responsabilità nel governo. Ma ciò non impedì che scoppiasse la guerra civile e Mao Tse-tung, che nel frattempo aveva assunto la leadership, portò i comunisti, dopo una lunga e durissima marcia attraverso tutta la Cina, nello Shanhsi settentrionale, dove aveva più facilità di resistenza. Ma la guerra cino-giapponese del 1937 consigliò le due fazioni a lottare il nemico comune. Alla fine del secondo conflitto mondiale, che vide il Giappone tra gli sconfitti e la Cina tra i vincitori grazie all’accordo di Chiang Kai-shek con la Russia, si riproposero le questioni tra i due partiti, rimaste sopite a causa della guerra. Questa volta, i comunisti erano più forti e, malgrado gli aiuti degli Stati Uniti al Kuo Min Tang, Mao ebbe il sopravvento, divenendo (1° ottobre 1949) il Presidente del Governo popolare della Repubblica  popolare cinese.. La Cina, sia pure in posizione di parità e d’indipendenza, si allineava alle posizioni dell’URSS e si poneva contro gli occidentali in Estremo Oriente. Nel 1950 le truppe cinesi entravano prepotentemente in Tibet, mentre il quindicenne Dalai Lama abbandonava Lhasa.

Il Dalai LamaDopo lunghe trattative il Tibet accettò la sovranità della Cina, con l’impegno della garanzia dell’autonomia e con truppe militari cinesi a presidio.

 

LA RIVOLUZIONE CULTURALE
E IL LIBRETTO ROSSO

Nato da famiglia contadina, Mao Tse-tung non poteva non perseguire gli interessi della sua classe contro la borghesia terriera. Il suo obiettivo fu quello di favorire il grande balzo della economia agraria, per favorire la commercializzazione dei prodotti agricoli con l’Unione Sovietica, in cambio di prodotti industriali e di tecnologia. In politica estera, la Cina di Mao avversava l’imperialismo occidentale e degli Stati Uniti. La politica economica fu giudicata fallimentare e Mao rischiò di essere scavalcato a sinistra da Liu.
Il libretto rosso di MaoPerò l’inossidabile Mao nel 1966 lanciò la rivoluzione culturale, scavalcando a sua volta la gerarchia comunista, con la costituzione delle famose Guardie Rosse: gruppi di giovani, che avevano anche poteri di giudicare. Tutto il patrimonio culturale, giudicato “borghese” dalle Guardie Rosse, compresi importanti monumenti e opere d’arte, fu distrutto e i dissidenti vennnero imprigionati. Il Libretto Rosso con le citazioni di Mao divenne il vangelo del nuovo maoismo e permise al presidente di governare fino alla fine dei suoi giorni.
La propaganda del comunismo cinese fece larghissima presa sugli studenti occidentali delle generazioni degli anni ’60 e ’70, per i quali le citazioni di Mao assumevano valore dirompente, al di là anche di una sorta di popolare ingenuità e dell’impraticabilità di taluni assunti filosofico-ideologici, peraltro non originali.
Parise a Pechino

Anche su numerosi intellettuali, il Libretto Rosso di Mao esercitò un certo fascino, come ad esempio su Renato Guttuso, che dipinse lo scrittore Goffredo Parise, inviato del Corriere della Sera in Cina, ritraendolo in visita alla fabbrica dei libretti rossi.



La cina è vicinaNel 1967, Marco Bellocchio ricavava da un suo soggetto unMarco Bellocchio film dal titolo suggestivo “La Cina è vicina”.  E’ la storia di un maestro di scuola, che, tentando la scalata politica, deve cimentarsi nella ibrida relazione con una donna, che si è data a lui per ripicca al fidanzato. Il fidanzato, factotum del maestro, per opportunismo intreccia un rapporto con la sorella di costui. Le due relazioni si concluderanno con due matrimoni e due annunci di nascite. Il fratello minore del maestro, protagonista da cui nasce la storia della contestazione giovanile, è un giovane studente ribelle e idealista. Studente in un collegio di preti, acceso sostenitore d’idee estremiste, va scrivendo a destra e a manca lo slogan “La Cina  è vicina” e sabota il comizio finale del fratello, sguinzagliando una muta di cani e di gatti.
La Cina è vicina


Le tematiche sono evidenti: la velleitaria contestazione giovanile, l’ipocrisia borghese, l’illusione di un riformismo che diventa trasformismo,  le stanchezze sordide dell’ambiente di provincia.

A distanza di anni, questo film ci spiega quale presa effimera ebbe sui giovani il maoismo: se ne sentirono coinvolti, ma ne rimasero alla lunga delusi. Furono quelli gli anni del Movimento studentesco, precedettero però la caduta delle ideologie, fenomeno che trovò spiazzati un po’ tutti.

 




LA CINA DI OGGI

All’indomani della morte di Mao (1976) il processo di modernizzazione della Cina non fu immediato. Le nuove idee venivano a scontrarsi con le gerarchie del partito e ogni fermento giovanile era stroncato sul nascere.

Pechino, piazza TiananmenE’ il caso del massacro di studenti di piazza Tiananmen del 1989 a Pechino, proprio nell’anno in cui il quattordicesimo Dalai  Lama, Tenzin Gyatso, fu  insignito del Premio Nobel per la pace. Il Dalai Lama riconobbe inoltre l’undicesima reincarnazione del Panchen Lama, una delle più alte personalità religiose tibetane, nel bambino Choekyi Nyima. Subito dopo il bambino, assieme ai genitori, fu prelevato dalle autorità cinesi, e da allora di lui non si sa più niente. In una Cina, che ancora rimane tabù per l’occidente, i diritti umani, la libertà di pensiero e di espressione sono ancora tutt’altro che riconosciuti. Degli stati al mondo, la Cina è quella con più esecuzioni capitali. La pena di morte, peraltro, è applicata anche per taluni reati fiscali o per delitti non violenti. Anche a livello internazionale la Cina esercita un controllo pesante nel Sud Est asiatico: in Birmania sostiene un governo dittatoriale, che ha represso nel sangue la ribellione pacifica dei monaci buddisti. In Tibet da oltre 50 anni il governo cinese si è macchiata di torti e di violenze inaudite nei confronti del popolo inerme.  Nel mese scorso, la rivolta dei monaci è stata stroncata con la forza, sfociando nel sangue. Sono all’ordine del giorno violenze e negazione dei più elementari diritti umani. E tutto ciò mentre la locomotiva cinese continua a marciare a vele spiegate in campo economico e avvicina la Cina ai modelli capitalistici e di mercato occidentali, avviandosi a diventare la prima potenza del mondo, riconosciuta e convalidata dagli interessi prettamente economici dei potenti della terra.
Dalai Lama e Daniel GolemanEcco perché le idee che vengono dal Tibet sono ideologicamente “pericolose” per il governo cinese. La dottrina professata dal Dalai Lama è quella di bilanciare il progresso scientifico  e materiale con il senso di responsabilità che deriva dalla crescita interiore. Il dialogo tra religione e scienza, secondo tale impostazione, può portare grande beneficio all’umanità. Uno degli obiettivi  centrali della pratica buddista, infatti,  è quello di ridurre  il potere delle emozioni distruttive sulla nostra esistenza. In un mondo come la Cina, ancora impregnato profondamente del senso della vita, sorge stridente il contrasto con un modello capitalistico sfrenato, non sentito e non destinato alla grande massa del popolo, ma di cui beneficiano cricche e lobby affaristico-borghesi, che si paludano sotto l’etichetta del socialismo.
E’ chiaro, quindi, che gli attuali giochi olimpici di Pechino rappresentano un grosso businnes economico-pubblicitario. Non a caso,
le maggiori agenzie di relazioni pubbliche americane e inglesi sono state contattate dal governo per poter gestire l’immagine internazionale della Cina. Ma non sarà un’operazione di cosmesi economica, pur di notevole consistenza, a poter rivalutare un’immagine deteriorata.
I giochi di Pechino non saranno ufficialmente boicottati, ma una possibilità di boicottaggio esiste per tutti. Basta non vedere le riprese televisive.

OSCURIAMO LE NOSTRE TV, OSCURIAMO I GIOCHI DI PECHINO.  

 

IL LIBRETTO ROSSO
DI LUIGI PIRANDELLO

Luigi PirandelloNon si sa per quale motivo le citazioni di Mao Tse-Tung furono edite come Il libretto rosso.
Ma è strana la coincidenza del titolo con quello di una novella pirandelliana, chiamata dallo scrittore Il libretto rosso.
Il libretto di Pirandello permette alle famiglie povere, prive di mezzi per vivere, di sognare, così come il libretto di Mao nutriva e faceva sognare la mente di generazioni di giovani – anche se poi si sarebbe rivelato un’autentica illusione.
La morte dei bambini diventa nella novella pirandelliana un espediente di vita, un modo di campare, perché le donne con il loro latte possono fare da balie ai trovatelli dell’ospizio, in cambio di un tot al mese.

“Ma quelli che muojono in fasce ajutano a crescere e a prendere stato quei tre o quattro, non si sa se più fortunati o sfortunati; chè ogni donna, subito dopo la morte d’uno di quei figliuoli, corre all’ospizio dei trovatelli e se ne prende uno, con la scorta d’un libretto rosso, che vale per parecchi anni trenta lire al mese”

Il libretto “provvidenziale” permette di sposare le ragazze da marito.

“Tutti i mercanti di tele e di altre stoffe sono a Nisia Maltesi… fanno a Nisia affaroni: fanno incetta di quei libretti rossi; danno per ciascun libretto duecento lire di roba: un corredo da sposa. Le ragazze a Nisia si maritano tutte così, coi libretti dei trovatelli, a cui le mamme in compenso dovrebbero dare il latte”

Marenga Rosa De Nicolao è la più famosa in municipio: da più di vent’anni nutre l’usura dei maltesi con quei libretti rossi, tanto che è ridotta male e non si sa se l’ultimo trovatello riuscirà a sostenerlo. Ma lei ne è convinta, perché dall’ultimo libretto uscirà il corredo per la figlia Tuzza. Non trovandosi Maltesi ben disposti a rischiare, bisogna contentarsi dell’offerta di centoquaranta lire di corredo, prendere o lasciare. Ma Tuzza accetta ad occhi chiusi, i soldi basteranno. E la madre e i due fidanzati, soddisfatti dell’accordo, escono a passeggiare al chiaro di luna. Ma al ritorno la sorpresa.

“Che disgrazia! che disgrazia!  La fune s’è strappata, chi sa come! S’è strappata, e il bimbo è caduto dalla culla, ed è morto! L’hanno trovato morto, per terra, freddo e duro! Che disgrazia! che disgrazia!”

Ma Rosa Marenga non s’arrende, ha ancora del latte, lei. E, l’indomani, mentre il bambino morto viene composto nella bara, lei va in municipio per ottenere un altro trovatello.

“Tra gli urli di meraviglia e altri lazzi e altri fischi della folla, sopravviene raggiante e trionfante Rosa Marenga con in braccio un altro trovatello.
– Eccolo! eccolo! – grida, mostrandolo da lontano alla figlia che sorride tra le lagrime, mentre il carro funebre s’avvia lentamente al cimitero”

Vita e morte, realtà cruda: mai in Pirandello furono rappresentate con tale incisiva e lucida freddezza, come due facce della stessa medaglia.

 

 

 

 

 

01 sabato Mar 2008

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ARTE E CULTURA
ALLA CASA NATALE DI PIRANDELLO

 Casa Natale di Pirandello oggi

La Casa Natale del Premio Nobel Luigi Pirandello è un contenitore d’arte eccezionale, che si presta moltissimo alla fruizione dei visitatori, inserita com’è in un contesto naturale unico.
Qui mosse i primi passi lo scrittore, come ricorda  nella sua poesia:

 

“Casa romita in mezzo a la natia

campagna, aerea qui, su l’altipiano

d’azzurre argille, a cui sommesso invia

fervor di spume il mare aspro africano,

te sempre vedo, sempre, da lontano,

se penso al punto in cui la vita mia

s’aprì piccola al mondo immenso e vano:

da qui – dico – da qui presi la via.

Da questo sentieruolo tra gli olivi,

di mentastro, di salvie profumato,

m’incamminai pe‘l mondo, ignaro e franco.

E tanto e tanto, o fiorellini schivi

tra l’erma siepe, tanto ho camminato

per ricondurmi a voi, deluso e stanco”

 
Qui Luigi, la sorella Rosolina e il fratello Innocenzo fecero le prime esperienze pittoriche e, a volte, Lina e Luigi gareggiavano. Rosolina amava riprendere il paesaggio del Caos e della marina di Porto Empedocle:

 Casa Natale di Pirandello

                                       Rosolina Pirandello, La casa Natale

La marina di P.Empedocle e il CaosRosolina Pirandello, Marina di P.Empedocle

Luigi Pirandello, non solo si cimentava nella pittura, ma si dilettava anche a disegnare familiari,  amici o personaggi del suo microcosmo che riuscivano ad ispirarne la scrittura, come nel caso di Gaetano Navarra, personaggio di Tano il Monaco nel romanzo I vecchi e i giovani.

 Caricamento dello zolfo

Luigi Pirandello, Caricamento dello zolfo a P.Empedocle

Lo zio Rocco Ricci GramittoPirandello, Foto dello zio Rocco

Luigi Pirandello,  Lo zio Rocco (a destra foto)

Pirandello Innocenzo

Pirandello Innocenzo, foto Luigi Pirandello, Il fratello Innocenzo (a destra foto)

Luigi Pirandello, pittoreLuigi Pirandello, Tano il Monaco e la luna

Aveva un tocco di mano rapido ed essenziale che gli fece eseguire interessanti autoritratti, che per certi versi ricordano quelli di Van Gogh.

 Pirandello autoritratto 1

Pirandello autoritratto 2 Luigi Pirandello, Autoritratti

Il fratello Innocenzo, che dipingeva episodicamente, affrescò una sopraporta, che tuttora si può ammirare all’interno della Casa Natale.

 Casa Natale Pirandello, sovraporta

                                             Innocenzo Pirandello, Affresco sovraporta Casa Natale

La casa Natale si poteva considerare un culto di tutta la famiglia Pirandello, che d’estate vi veniva sempre a soggiornare. Al Caos s’erano conosciuti lo scrittore e la moglie Antonietta Portulano, in un incontro suscitato dalle rispettive famiglie, così come rievoca uno schizzo di Calogero De Castro, il cognato di Pirandello, marito della sorella Rosolina. La carrozza con  Calogero Portulano e la figlia Antonietta era arrivata sullo stradone dove se ne stavano a passeggiare Luigi e il padre Stefano. Il matrimonio, però, si concluse con la pazzia della moglie Antonietta e il suo internamento in una casa di cura romana.

Casa Natale di Luigi Pirandello Calogero De Castro, disegno del Caos


Lo scrittore era legatissimo alla Casa Natale, dove peraltro aveva trascorso la luna di miele con Antonietta, e vi ritornava spesso.

Pirandello alla sua Casa Natale Pirandello alla Casa Natale


Ritorno
 

Ecco la casa antica, ecco il terrazzo,

cassero d’una nave a cui volgeva

prospera allora e lieta la fortuna.

Ero ragazzo,

e di lì m’affacciavo a rimirare,

con una vaga idea

del mondo e della vita, a lungo il mare

e questa dolce luna

che, come allora, un palpito v’accende

d’innumeri faville ed un solingo

grillo ne la scogliera

desta, il cui canto vince il borboglio

continuo di tutta la riviera…

 

Architetto Calogero CarboneL’architetto Calogero Carbone, Direttore della Biblioteca Museo Regionale “Luigi Pirandello”, in collaborazione  con il Centro studi Erato ha organizzato il progetto “Raccontare per immagini – Arte contemporanea nei luoghi di Pirandello”, allo scopo non solo di richiamare la vocazione pittorica di tutta la famiglia Pirandello  – anche Fausto, il figlio di Luigi, fu pittore apprezzatissimo in tutto il mondo e il più valente della famiglia -, ma anche per arricchire la fruizione dei visitatori che vengono da tutte le parti del mondo a visitare la Casa Natale del Premio Nobel. Lo scopo è quello di vivacizzare i luoghi pirandelliani con eventi di spessore, che possano durare tutto l’anno. Il vernissage di questa iniziativa, che sarà realizzata in sei momenti, si è tenuto ieri con la personale di Pasquale Vinciguerra, un artista autodidatta che opera da oltre trent’anni nel campo della pittura e che propone le sue opere più recenti, iniziando un nuovo ciclo pittorico, da lui definito “arte speculare”. Le opere rimarranno in mostra fino al 30 marzo.

 

PASQUALE VINCIGUERRA
DAL SIMULTANEISMO ANALITICO
ALLA PITTURA SPECULARE

Il pittore Pasquale Vinciguerra Pasquale Vinciguerra, nativo di Palma di Montechiaro, ma operante nel capoluogo, con la sua nuova proposta artistica lascia la sua prima esperienza pittorica, designata con il nome di “Simultaneismo Analitico”, per proporre un nuovo ciclo artistico, definito da alcuni critici “equilibri di forme inconsuete”  e dallo stesso autore “arte speculare”. In verità, anche se egli passa dal figurativo al più puro astrattismo, la tendenza al messaggio introspettivo, simbolico e “religioso” non viene meno. L’ordine, anche se dissecato, è pur sempre la sua impronta precipua, un ordine che vuol far meditare attraverso simmetrie, geometrie, distribuzioni volumetriche di forme, con variabilità cromatiche disparate, che però compongono un unicum gradevole come l’opera di un demiurgo. Nella prima fase del Simultaneismo Analitico, Vinciguerra riesce ad esprimere la scomposizione dell’io, evidenziando il lato psicologico della forma estetica. La psicologia del profondo emerge dal rapporto uomo-donna, sorriso-pianto, giovane-vecchio, essere-dover essere, in una dualità, la cui cifra artistica si esprime in una divisione di spazi e di colori nelle figurazioni.

 Modigliani

Pasquale Vinciguerra, Modigliani

Giorgio De chirico

Pasquale Vinciguerra,  De Chirico

Pablo Picasso

Pasquale Vinciguerra,  Pablo Picasso

La Gioconda e Freud

Pasquale Vinciguerra, Freud e Leonardo

Ritratto di Leonardo

Pasquale Vinciguerra,  La Gioconda-Leonardo

C. Koll e A. HopkinsLeonardo e Monet


                       C.Koll-A.Hopkins                                                                        Monet-Leonardo


In questo nuovo modo artistico, Vinciguerra, servendosi di oggetti di consumo o residuati industriali, riproduce forme, che destano ritmi e movimenti inconsueti, ma con tale alternanza spaziale da far percepire una visione concettuale e religiosa, se non metafisica. Un’arte nuova che si arricchisce di temi speculativi e speculari come muto linguaggio di comprensione carismatica tra artista e fruitore.

 Pasquale Vinciguerra

Pasquale VinciguerraPasquale VinciguerraPasquale VinciguerraPasquale VinciguerraPasquale Vinciguerra
AGRIGENTO TERRA DI PITTURA

Sembra causalità, ma la pittura fu un elemento comune ai tre grandi artisti della terra agrigentina: Empedocle, Pirandello e Sciascia.
Empedocle di Agrigento Il filosofo Empedocle, oltre ad essere un grande filosofo, fu un attento osservatore delle technai del mondo greco e della pittura, della quale si servì per immagini poetiche:

 

Come esperto pittore

sa i suoi quadri variar,

da appendere in dono ai numi

alle colonne del tempio

con mano alacre pigliando

ora questo or quel color,

mischiandoli con tale armonia

da ottener immagini simili agli oggetti:

uomini, donne, fiere, piante

e uccelli d’acqua nutriti

oppure i numi di secoli lunghissimi

celebri per gli inni

e di onori eccellenti;

così per certo la mente non s’inganna

se narra che ogni cosa mortale

è fonte soltanto di quegli elementi.

 Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)

Leonardo SciasciaAnche Leonardo Sciascia, al pari di Empedocle e come Pirandello, aveva una visione pittorica. Il caso più eclatante è il romanzo Todo Modo, dove viene descritta la dissoluzione della società moderna rievocando l’opera grandiosa di Théodore Gèricault, La zattera della Medusa.

La Zattera della Medusa Il personaggio, protagonista della vicenda, è un pittore, il quale, stanco esistenzialmente di una pittura ormai ridotta al rango di mestiere commerciale, cerca invano un nuovo modo di essere. L’opera fu ispirata a Sciascia da un secentesco dipinto del senese Rutilio Manetti, Sant’antonio abate tentato da un diavolo con gli occhiali.
Concludendo, quindi, con Kandinskji, la pittura non fa altro che produrre un effetto psichico, dovuto alla vibrazione spirituale, attraverso cui il colore raggiunge l’anima. E gli scrittori, che sono anime sensibili, non possono non essere sedotti dai messaggi della pittura.  

 

 

01 martedì Gen 2008

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agrigento, akragas, archeologia, capodanno, dialetto siciliano, empedocle, gellia, oleificio, ospitalità, sicilia, tre torri, turismo, unesco

IL CAPODANNO E L’OSPITALITA’ AGRIGENTINA

 

 

La tradizionale e proverbiale ospitalità agrigentina rivive annualmente ad inizio di anno all’Hotel Tre Torri

Hotel tre Torri Auguri

Hotel Tre Torri, ingressoHotel Tre Torri piscina esternacon il caratteristico pranzo di Capodanno che ha ispirato una bella poesia in dialetto su alcune prelibatezze siciliane, come augurio di prosperità e di felicità per il Primo dell’Anno, stando a tavola in bella compagnia.

 Poesia augurale in dialetto

La traduzione in italiano è la seguente:

 

Fidanzate da baciare e

lumache da succhiare

sono cose che non possono

mai saziare

Latte di capra

ricotta di pecora

e formaggio di vacca

ora sì che si può riempire

la bisaccia;

olio vergine di oliva

vino tra una portata e l’altra

dulcis in fundo,

pigliati un caffè saltando

e una cioccolata riposando

perché chi alle Tre Torri

passa il Capodanno

avrà felicità e prosperità

tutto l’anno.

 Quello di godere il “gusto” vero della vita con buoni commensali fu ribadito da Empedocle con il proverbiale epigramma sugli agrigentini:

Gli Agrigentini mangiano come se dovessero morire l’indomani
e costruiscono come se non dovessero morire mai

 La saggezza agrigentina del “carpe diem” è assai rinomata ed è stata trasfusa nell’altro detto “abballa mentri la furtuna sona”, con l’applicazione di una previsione quasi magica, che vuole una festa trascorsa in letizia per il primo dell’anno “durare tutto l’anno”; e l’invito quindi a reiterarla sempre.

Il senso dell’ospitalità dell’antica Akragas divenne un modo di essere dell’animo agrigentino, come dimostra la vita dell’albergatore Gellia, il quale, ricchissimo, impiegava il  suo patrimonio per dare lavoro e aiutare i bisognosi. Nei suoi alberghi egli accoglieva cittadini e stranieri e poteva dare alloggio e ristoro contemporaneamente a centinaia di persone. Gellia fu anche ambasciatore e patriota, morendo mentre appiccava il fuoco a un tempio, per non far cadere la città di Akragas in mano ai Cartaginesi.

Agrigento Tempio di Castore e Polluce
Di lui è nota una singolare vicenda raccontata da Diodoro Siculo:

gellia agrigentino

La tradizione di ospitalità, di arguzia, di messaggio di comunicazione tra i popoli, è passata dalla leggenda alla realtà, in una città ad alta vocazione turistica, la cui Valle è Patrimonio dell’Umanità e l’hinterland un serbatoio immenso di archeologia e di cultura. I prodotti genuini della terra agrigentina, come frumento, olio e vino rientravano nella commercializzazione di tutta l’area del Mediterraneo già nell’antica Grecia, di cui Akragas fu crocevia insostituibile. Relativamente all’olio è stato ritrovato  presso la Rupe Atenea, ad opera dell’olandese Joseph Devale un oleificio in piena regola, del IV-III secolo a.c. Le olive pestate con pietre o macinate con grossi pesi venivamo messe in vasche d’acqua; l’olio veniva raccolto, vergine e puro, quando affiorava dal fondo dall’impasto spremuto, perché più leggero. Anche i vini erano esportati in tutta la Grecia, e pure tra i barbari. Le guerre tra gli Agrigentini e i Cartaginesi furono originate quindi da ragioni di dominio commerciale. Recentemente il Parco Archeologico della Valle dei Templi sta rilanciando la bontà dell’olio della Valle, ricca di ulivi, e si appresta anche a produrre un buon vino doc prodotto in situ.


 

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