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QUANDO LA PRIMAVERA S’AVVICINA…
Non è ancora primavera conclamata, ma già si sente nell’aria l’incipiente stagione, che Salvatore Quasimodo sapeva captare da queste parti, quand’era ragazzo – il padre era capostazione di Comitini, poco distante da Agrigento -.
Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul fosso.
E tutto sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.
Accenti d’autentica effusione lirica, che gli fecero anche dire in “Quasi un madrigale”:
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Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.
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Questa vena introspettiva riesce ad evidenziare la stupefatta meraviglia dell’io, di fronte alla bellezza della natura e all’amore per la vita, con la constatazione però che tutto ha un epilogo. Lo stesso atteggiamento ambivalente echeggia nella quarta ode – libro primo – di Orazio, laddove il poeta latino nota questo passaggio “prodigioso” di stagione:
Solvitur hiems grata vice veris et Favoni
(Si scioglie l’aspro inverno alla grata vicenda della primavera)
La gioia e l’apprezzamento della nuova stagione è occasione anche per il cambiamento esteriore:
Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto
aut flore, terrae quem ferunt solutae;
(Ora è bello cingere il capo nitido di verde
mirto o di fiori sbocciati dalle chiuse zolle😉
Ma Orazio avverte il felice Sestio che breve è la stagione umana e che di fronte alla morte si è tutti uguali:
Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas
regumque turris. O beate Sesti,
vitae summa brevis spem noc vetat inchoare longam;
(La pallida Morte batte con piede uguale le povere capanne
e le torri dei re. O mio felice Sestio,
il breve corso della vita vieta lunghe speranze.)
Questo contrasto, forse categoria dell’animo umano, sembra un modo di sentire comune a tutti gli uomini. Negli artisti e nei poeti diventa gioia incontenibile celebrare sempre la “creazione” artistica, come momento irripetibile e per ciascuno eterno, ma c’è anche una sorta di chiaroveggenza della limitatezza del viaggio umano, così come cantò Empedocle on versi sublimi:
Solo una parte della vita
che non è vita
vedono gli uomini:
condannati a pronta morte
si dileguano come fumo.
Però la regressione all’infanzia, le piccole cose dell’esistenza quotidiana, i nonnulla della vita, a volte possono ispirare i pittori, i quali sono sognatori per eccellenza.
Per il neo espressionista pittore agrigentino, Rino Pony – anche musicista di blues e da poco riscoperto attore – la vita assomiglia a un veliero, che non si sa se stia partendo, sia in navigazione o se ne stia ancorato in un porto. La vita è un viaggio – questo solo si può cogliere da questo quadro – e la vicenda umana, per quanto felice, è destinata ineluttabilmente a concludersi.
Tuttavia, la vita merita di essere vissuta fino in fondo, assaporandola in pieno, anche se con il rammarico di dover lasciare tutto, così come Pony rappresenta in questa pensosa poesia.
M ´ ASSETTU E PENSU
M´ assettu e pensu
`ncapu a na petra russa do me` paisi.
m ´assettu e sentu
u ciavuru da me` terra comu na vota,
m´ assettu e dicu
chi biddizzi ca avi stu mari,
chi splinduri ca avi stu suli .
M´ assettu e pensu
accussi` senza sensu,
m´assettu stancu
cu u cori `nmanu rammaricatu,
picchi` sacciu ca sta petra haia a lassari
e n´ avutra mi n´haia ghiri a truvari.
SIEDO E PENSO
Siedo e penso
sopra una pietra rossa del mio paese.
Siedo e sento
il profumo della mia terra come una volta
Siedo e dico
che bellezze ha questo mare
che splendore ha questo sole
Siedo e penso
così, senza senso
con il cuore in mano, rammaricato
perché so che questa pietra devo lasciare
e un’altra me ne devo andare a trovare.
Rino Pony
PIRANDELLO E LA PRIMAVERA
Nello studio in cui se ne stava rintanato, Luigi Pirandello sentiva sempre irrompere la primavera. Dopo aver aperto le finestre e indugiato a dare un lungo sguardo al panorama che aveva di fronte, ritornava al lavoro consueto. La sua natura solitaria e schiva, ma introspettiva, gli permetteva di catturare tutte le sottigliezze: le cose che si fanno istintivamente, i minimi cambiamenti, i cicli, i mutamenti e i ritmi della natura. L’arrivo della primavera, un evento che si ripete ogni anno, che passa ai più inosservato pur consumandosi in un arco di diversi giorni, più o meno lunghi, gli fece concepire una novella, intitolata “Filo d’aria”.
Essere nella vita e non accorgersene è questo il tema essenziale del racconto, in cui i protagonisti vivono la loro vita inconsapevolmente, con il ritmo e le abitudini routinarie di tutti i giorni, senza porre mente ai piccoli eventi, anche impercettibili, che si verificano. Una nipotina, il padre e la madre, e una servetta, che assiste un vecchio, ammalato di idropisia e quasi moribondo, costretto all’immobilità in un seggiolone, si preoccupano di organizzare e standardizzare la sua vita. Loro, “che sono dentro la vita”, non si rendono conto dei minimi particolari, che invece possono essere importanti e determinanti per chi, come il nonno, dalla vita, dalla loro vita, è escluso.
“Soltanto, ma proprio appena, egli poteva ancora tentare di muovere una mano, la sinistra, dopo essersela guardata a lungo, con quegli occhi, quasi a infonderle il movimento. Lo sforzo di volontà, arrivato al polso, riusciva a stento a sollevare un poco dalle coperte quella mano; ma durava un attimo; la mano ricadeva inerte. Il vecchio s’ostinava di continuo in quell’esercizio di volontà, perché quel lieve moto momentaneo, ch’egli poteva ancor trarre dal corpo, era per lui la vita, tutta quanta la vita, in cui tutti gli altri si muovevano liberamente, a cui gli altri partecipavano interi, a cui ancora poteva partecipare anche lui, ma ecco: per quel tanto e non più.”
Questa situazione determina un’incomunicabilità radicale e un odio viscerale del vecchio nei confronti dei familiari, che, presi dalle loro occupazioni e dal fluire della vita, non ne rilevano i bisogni.
Qualche cosa era accaduta, o doveva accadere quel giorno, che volevano tenergli nascosta. Ma che cosa?
S’erano appropriato il mondo, figlio, nuora e nipotina; il mondo creato da lui, in cui li aveva messi. Non solo; ma anche il tempo s’erano appropriati, come se ancora nel tempo non ci fosse anche lui! Come se non fosse anche suo, il tempo, non lo vedesse, non lo respirasse, non lo pensasse anche lui! Egli respirava ancora, vedeva tutto e più, più di loro vedeva, e pensava tutto!
L’impotenza e l’isolamento fanno credere al vecchio che non vi sia comunione di vita, di pensieri, di sentimenti con quell’unico figlio. Il vecchio non riesce neanche a spiegarsi il sospiro inconsapevole della servetta che lo accudisce e il compiacimento per i suoi capelli della nuora, fatti che per lui sottendono una novità, che gli altri gli vogliono celare. La risposta però gli arriva tutt’a un tratto dal balcone, che si schiude piano piano, un poco, a un filo d’aria, perché la nipotina, in mattinata, aveva lasciato la maniglia girata.
Il vecchio sente, improvvisamente, tutta la stanza riempirsi di un delizioso inebriante profumo che sale dai giardini. E’ allora che il vecchio si spiega perché la sua vita non può saldarsi a quella degli altri, che scorre su altri binari.
“Gli altri non potevano vederlo, non potevano sentirlo in sé, gli altri, perché erano ancora dentro la vita. Egli, che ormai n’era quasi fuori, egli lo aveva veduto, egli lo aveva sentito in loro. Ecco, ecco perché, quella mattina, la bimba non tremava soltanto, ma fremeva tutta; ecco perché la nuora rideva e si compiaceva tanto dei suoi capelli; ecco perché sospirava quella servetta; ecco perché tutti avevano quell’aria insolita e nuova, senza saperlo. Era entrata la primavera.”
Un filo d’aria, muovere un dito, per lui è tutto; è sentirsi agganciato alla vita, anche se per poco: cose che si possono soltanto sentire quando si è ormai all’uscita.