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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

~ "La vita o si vive o si scrive" (Luigi Pirandello) – "Regnando Amicizia ogni cosa va ad unirsi" (Empedocle) – "Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano" (Leonardo Sciascia)

Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

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29 venerdì Ago 2008

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LA PROVINCIA DI AGRIGENTO
IL PIU’ IMPORTANTE CONTENITORE
CULTURALE, ARTISTICO, LETTERARIO
DEL MONDO

Leonardo Sciascia

Pirandello giovane a Roma Salvatore QuasimodoLuigi Pirandello, conferenza sulla poesia Luigi Pirandello, tesi di laureaAlessio Di Giovanni Luigi Pirandello


Luigi PirandelloLibretto iscrizione UniversitàDiploma di laurea di PirandelloPirandello studente a Bonn Leonardo Sciascia                 

Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)



Agrigento Tempio della Concordia Agrigento, Tempio di ErcoleAgrigento, Tempio dei Dioscuri I Racconti di Giuseppe Tomasi





Empedocle di AgrigentoPirandello autoritratto 2 Tomasi di LampedusaBallo per le vie cittadineLeonardo Sciascia







E’ inconfutabile: non esiste al mondo una città uguale ad Agrigento, nella quale si è concentrato il più ricco patrimonio culturale, artistico, letterario della Terra. Patrimonio dell’Umanità per la mitica Valle dei Templi, Agrigento ha dato i natali al Premio Nobel, Luigi Pirandello e, prima di lui, al celeberrimo filosofo della Natura, Empedocle, grande poeta e tragediografo, medico e ingegnere, biologo e farmacista. Nella vicina Racalmuto è nato Leonardo Sciascia, lo scrittore della Ragione del Secolo Breve. La vocazione letteraria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è legata indissolubilmente ai luoghi del Gattopardo e dei Racconti, e cioè a Palma di Montechiaro e a Santa Margherita Belice, paesi dell’agrigentino. Anche l’apprendistato poetico dell’altro Premio Nobel siciliano, Salvatore Quasimodo, ha preso le mosse dalla valle del Platani di Agrigento, dove trascorse la fanciullezza, che lo marchiò  a fuoco, ispirandone il canto: gli accenti classici, assimilati tramite il paesaggio agrigentino dell’interno e della costa, non furono mai abbandonati.  Ad Agrigento e ai suoi luoghi si ispirarono, nell’antichità, Pindaro, Simonide di Ceo, Bacchilide, che ivi soggiornarono lungamente. Gorgia da Lentini fu scolaro di retorica del grande Empedocle. La parlata di Girgenti – come dimostra Pirandello nella sua tesi di laurea discussa a Bonn – è il dialetto siciliano che più si avvicina alla lingua italiana. Assieme allo stesso Pirandello,  Alessio di Giovanni – nato nella vicina Cianciana – fu un autorevole cultore del dialetto, teorizzandone anche gli aspetti di vera lingua.  

 
LE RADICI DI EMPEDOCLE

Empedocle di AgrigentoDiogene Laerzio riferisce nelle Vite dei Filosofi che Empedocle (492-420?) nacque a Akragas da famiglia illustre. Il nonno Empedocle era stato allevatore di cavalli e aveva vinto nella LXXI Olimpiade col celete (carro con un solo cavallo). Si dice che anche Empedocle il filosofo e il padre Metone avessero primeggiato alle olimpiadi. Ma ciò è naturale, perché a scendere in campo agonisticamente erano giovani dipendenti delle famiglie aristocratiche, mentre ai nobili andavano i meriti.
Empedocle fu discepolo di Parmenide di Elea (qualcuno dice anche di Pitagora), ma dalla sua concezione monistica si discostò per la pluralità degli elementi, le quattro radici (acqua, terra, fuoco, aria) che contraddistinsero la sua filolosofia della natura. Due forze opposte vitali, Odio ed Amicizia, a seconda del loro prevalere, determinavano la combinazione o lo scioglimento degli elementi. Scrisse due opere filosofiche: Sulla natura e Purificazioni, di cui restano soltanto frammenti. Sulla natura Empedocle spiega la sua concezione filosofica al discepolo Pausania, mentre nelle Purificazioni, a guisa di Pitagora, traccia la palingenesi dell’anima che passa di stato in stato per ritornare all’eterno, trascorse tre volte diecimila stagioni.  
La tradizione l’accredita di un Proemio ad Apollo, di una Spedizione di Serse, di numerosissime tragedie: opere andate perdute (o forse, si dice,  distrutte dalla sorella).
I frammenti rimasti sono, tuttavia, un raro esempio d’altissima poesia d’impronta omerica.

Lucrezio nel Libro I del De rerum natura (Della natura delle cose, versi dal 705 al 829) enuncia la teoria pluralista empedoclea sulla nascita delle cose.

 

Et qui quattuor ex rebus posse omnia rentur
ex igni terra atque anima procrescere et imbri,
quorum Acragantinus cum primis Empedocles est (…)
carmina quin etiam divini pectoris eius
vociferantur et exponunt praeclara reperta,
ut vix humana videatur stirpe creatus.

 

E coloro che da quattro cose pensan che tutto
(da acqua terra e soffio e pioggia) possa accrescersi:
e di questi, tra i primi c’è Empedocle di Agrigento(…)
e davvero i canti del suo divino intelletto
declamano a gran voce, e spiegano luminose scoperte,
sì che appena egli sembri di stirpe umana creato.

Ammiratore convinto ed entusiasta della poesia di Empedocle, Lucrezio ne esalta l’immortalità del canto, approfondendone anche la concezione filosofica.
Della terra akragantina, Empedocle colse il senso del tragico, gli umori delle fazioni politiche, le lotte incessanti tra aristocratici e democratici. Si dice che abbia riassunto tutto ciò in Scritti politici. Grande viaggiatore, raggiunse l’Egitto (e forse la Mesopotamia e l’India), dove studiò medicina nei sacri recinti dei templi di Eliopoli. Ritornato in patria, fondò una scuola di medicina e una di retorica. Suoi discepoli furono Gorgia di Lentini, Corace e Tisia.
Grande democratico, dal popolo gli fu offerto il governo della polis. Vi rinunciò,  a vantaggio del reggimento democratico dei Mille, da lui insediato alla guida della città. A seguito della restaurazione di un governo aristocratico fu esiliato, ritirandosi nel Peloponneso. Dice la leggenda che sia morto, cadendo nel cratere dell’Etna, accidentalmente o per suicidio rituale. Famosa la definizione sui suoi concittadini:

“Gli agrigentini costruiscono come se non dovessero mai morire e mangiano come se dovessero morire l’indomani”

  
PINDARO E IL MITO

I Telamoni del Tempio di Zeus di AgrigentoPindaro (nt. 522 o 518 a Cinocefale, mt. ad Argo 443 o 442) fu ad Agrigento,  alla corte di Terone, divenendo il poeta della polis e il cantore del reggimento aristocratico-oligarchico e dei suoi valori: la ricchezza, le glorie, la prestanza fisica, le vittorie agonistiche. Cuore delle sue odi fu il mito, che aveva lo scopo di celebrare ciò che è grande, eroico, divino. La musica, che accompagnava tutte le sue odi, rendeva la sua poesia unica, sublime. C’è chi definisce Pindaro poeta arcaico, tradizionale, magniloquente e c’è chi l’ha ritenuto “poeta a chiave”, simbolista, impressionista. Certo sono famosi i suoi “voli pindarici” e taluni pensieri che mostrano approfondimenti anche filosofici. Ma la vera natura di Pindaro, secondo la critica, resta quella capacità di rappresentare e celebrare ciò che è epico, evocativo, sublime. E’ un poeta comunque che andrebbe ristudiato al di là del contesto storico in cui si muoveva.
Dei fasti agrigentini rappresentò ed esaltò il mondo aristocratico di una città-stato che, assieme a Siracusa, diventò grande e famosa e trionfò nella battaglia d’Imera, sconfiggendo i cartaginesi, tradizionali rivali nel dominio del Mediterraneo. Poeta vate, quindi, dell’aristocrazia, valore assoluto della società di allora. Egli paragonò Terone di Agrigento al divino Eracle:

 

Se l’acqua primeggia
e tra i beni l’oro è il più venerabile,
ora al confine estremo Terone approda,
e da meriti propri sbarca alle colonne di Eracle.
Oltre è precluso a saggi e non saggi.
Io non voglio provarci. Sia folle, prima!

Cantò anche la vittoria olimpica del figlio di Terone, Senocrate, vincitore alle olimpiadi con il carro.

 Numismatica agrigentina

Numismatica agrigentinaUdite: il campo di Afrodite
occhi vivaci o delle Grazie
noi ariamo, muovendo al tempio
ombelico della terra altitonante;
qui, agli Emmenidi felici, alla fluviale Agrigento
e a Senocrate per la vittoria pitica
è costruito, nella valle ricca d’oro
di Apollonia, un tesoro d’inni,
che mai la pioggia invernale
– esercito irruento e spietato –
nuvola risonante, né il vento con detriti
confusi, percuotendolo, mai sospingeranno
negli abissi del mare…

 

Come tutti i poeti del tempo non si volle esimere dal pronunciare aforismi, di cui ricordiamo una perla di saggezza:

 “L’unico vero giudice della verità è il tempo”

 

SIMONIDE DI CEO
LE NENIAE CEAE

Filosofia greca Più vecchio di Pindaro, Simonide di Ceo (556-467) fu nello stesso periodo alla corte di Terone ad Agrigento, di cui divenne il poeta “nazionale”, non senza contrasti con il suo rivale più giovane. Simonide s’impose per la sua fedeltà al regime teroniano, fino a morire nella città dei templi. La grandezza di Simonide fu indiscussa, tanto da primeggiare a ottant’anni in una gara poetica con un ditirambo, anche se gli fu sempre preferito il rivale Pindaro. I suoi epinici che celebravano i trionfi agonali furono all’altezza di  quelli di Pindaro, tuttavia se ne distinsero per un più terrestre senso religioso. Simonide è, tuttavia, più ricordato per il valore epigrammatico di un filone della sua poesia e per i canti funebri, in cui evidenziava il pathos del suo canto, che passò alla storia letteraria con il nome di lacrime simonidee, Neniae Ceae.

 

Volo di mosca 

Poi che uomo tu sei,
non dire ciò che avverrà domani

 e poi che hai visto un essere felice,
non dire quanto tempo durerà:

 volo di mosca,
che l’ali ha sottili,
non è altrettanto veloce
quanto il mutamento di fortuna.

 

BACCHILIDE
IL DESTINO DELL’UOMO

 Agrigento, Cratere a figure rosse

In Bacchilide (507?-431?) la grandezza del mito è frammisto alla caducità della vita e alla temporaneità dell’esistenza. La gloria, la felicità umana e lo stesso canto del poeta appaiono transeunti. Questi furono gli elementi distintivi rispetto alla ispirazione eternante delle composizioni di Pindaro, del quale il poeta di Ceo fu un grande rivale. Introdotto a corte da Simonide – zio per parte di madre -, Bacchilide fu, oltre che a Siracusa, ad Agrigento, nello stesso periodo di Simonide e di Pindaro. Bacchilide fu tacciato ingiustamente di mediocrità, forse dalla fazione che parteggiava a spada tratta per Pindaro. Tuttavia, è indubbia la sua capacità a cantare e a mitizzare l’impresa olimpica, pur cogliendone la componente emozionale del momento e rendendola più umana e terrestre. E di questa pensosità esistenziale citiamo:

 Per l’uomo meglio non essere nato,
non aver mai visto la luce del sole;
ma nessun profitto c’è nei lamenti;
dobbiamo dire piuttosto
ciò che è destinato a compirsi.
C’è nella casa del coraggioso Eneo
una figlia vergine, che ti assomigli?

Di lei sarei lieto di fare la mia splendida sposa.

 Simposio

GORGIA IL SOFISTA 

Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)Singolare è la figura di Gorgia da Lentini (485-385), grande maestro dell’arte retorica. Come i siracusani Corace e Tisia, Gorgia fu alla scuola agrigentina di Empedocle. Empedocle, oltre ad essere un filosofo della natura, era un grande retore.
E’ famoso il rimprovero di Empedocle alla iattanza di Gorgia:

“Da te dovrei pretendere cinquanta per insegnarti a parlare, e cinquanta per insegnarti a tacere”

Pare anche che Gorgia fosse renitente ad accettare la filosofia della natura del suo maestro, dedicandosi al virtuosismo della parola, che tutto può dimostrare, come affermò nell’opera Elena:

“La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare gioia, e ad aumentare pietà”

Se è vero che i sofisti seppero riportare il filosofare sul terreno dell’umano (umanizzazione della cultura) e della dialettica, essi basarono il loro linguaggio prevalentemente sul momento irrazionale del profitto e della forza come primario nell’ordine sociale, trascurandone le esigenze etico-storiche.

Asinello

LA PIU’ BELLA CITTA’ DEI MORTALI

 

Agrigento Tempio della Concordia Akragas fu definita da Pindaro “la più bella città dei mortali”. Non fu un giudizio settario, il suo, perché la polis akragantina con Terone era assurta a grande potenza del Mediterraneo e all’indomani della battaglia di Imera (480), che aveva visto le forze agrigentine-siracusane sconfiggere i Cartaginesi, era diventata città molto opulenta e crocevia dei traffici del mondo allora conosciuto. La bellezza del suo porto e dei suoi splendidi e numerosi santuari ne fecero un luogo leggendario e meta ambita di commercianti e poeti. Per celebrare la vittoria, Terone fece edificare il gigantesco Tempio di Giove Olimpico, che rimase tuttavia incompiuto. Passò anche alla storia la proverbiale concordia agrigentina e il culto dell’accoglienza nei confronti dei forestieri, come testimonia la figura dell’albergatore Gellia.

 Agrigento, Tempio di Ercole

Agrigento, Tempio dei Dioscuri Pirandello al tempio della ConcordiaTempio della Concordia, AgrigentoAgrigento, Tempio di Castore e PolluceIl chiostro del monastero di S.SpiritoCapo Rossello (Ag)

LUIGI PIRANDELLO
LA COMMEDIA DI VIVERE

Pirandello autoritratto 1Pirandello autoritratto 2  
Il giudizio di regionalismo o di folclorismo, affibbiato all’opera di Pirandello, da parte di alcuni critici, tra i quali Gramsci, appare datato, riduttivo e improntato ad un aspetto  assai circoscritto dell’arte del Premio Nobel. Non sussistono ormai dubbi sullo spessore europeo di Pirandello, che nel periodo della formazione a Bonn venne a contatto con la grande filosofia tedesca, che ne impregnò definitivamente il modo di essere. Tuttavia, è indubbio che Pirandello abbia attinto dalla realtà della sua terra tipi e casi, riuscendo con il suo umorismo a trasformarli in rappresentazioni poetiche universali. Secondo la citazione epigrammatica di Simonide di Ceo “la città è maestra dell’uomo”, Pirandello fa assurgere la sua terra ad universo, riprendendo le categorie primigenie ivi esistenti, del dramma e di quella tragicommedia che è il vivere del siciliano e in particolare dell’agrigentino.
La commedia è un genere letterario che Pirandello trova quasi per partenogenesi, e le sue novelle possono considerarsi un itinerario naturale verso il teatro, laddove doveva esplodere, irreversibilmente, tutta la sua arte. Non ci sarebbe stato il teatro pirandelliano, se non fosse esistito Pirandello novelliere. Si può dire che per Pirandello il teatro è la vita, e la vita il teatro; e “la vita o si vive o si scrive”, o forse si scrive, vivendola o si vive scrivendola.  

 Casa Natale di Pirandello oggi

LA PARLATA DI GIRGENTI

A Bonn

A  seguito del contrasto con il suo docente di latino, Onorato Occioni, Preside della facoltà di lettere dell’Ateneo romano, a Pirandello fu consigliato da parte di Ernesto Monaci di andare a Bonn per proseguire gli studi filologici. Fu raccomandato da Monaci a Wendelin Foerster, il quale era interessato ai dialetti siciliani e sardi.

“Presi nel marzo del 1891 la laurea di dottore di filologia romanza con grande soddisfazione dell’indimenticabile mio maestro romano Ernesto Monaci ed il seguente anno scolastico restai ancora a Bonn in qualità di Lector di lingua italiana nell’Università”

Luigi Pirandello, tesi di laureaLa tesi di Pirandello “Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti” (Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti) venne accolta positivamente.
La parlata di Girgenti secondo Pirandello è la più pura e quella che più si avvicina alla lingua italiana, sulla cui origine aveva idee abbastanza chiare e non lungi dal vero.

“Dire che la lingua italiana l’abbia fatta Dante levando il parlar fiorentino a dignità di lingua o sposando, per dirla con l’Ascoli, il tipo fonetico, il tipo morfologico e lo stampo sintattico del linguaggio di Firenze al pensiero italiano, è così grande errore come sarebbe per esempio affermare che la lingua tedesca l’abbia fatta Lutero traducendo la Bibbia nella lingua della cancelleria di Sassonia. La verità è che così l’uno come l’altro non hanno fatto che proporre con le loro opere immortali un tipo, a cui letterariamente si son venuti adattando tutti gli altri parlari, recandovi ciascuno il proprio contributo”

 

Leonardo SciasciaLEONARDO SCIASCIA
RAGIONE E SAGGEZZA

Grazie a Leonardo Sciascia (1921-1989), Racalmuto viene identificato come il paese della Ragione. Sciascia trova proprio nella sua terra, soprattutto nel mondo contadino, un’antica saggezza che gli fornisce una potente chiave di lettura della realtà. La sua lente osserva secondo un proposito già tracciato:

“Le cose che scrivo partono sempre da un’idea e si svolgono su uno schema. Voglio “dimostrare” qualcosa servendomi della rappresentazione di un fatto immaginato o inventato; e dico inventato nel senso di trovato nella storia e nella cronaca”  

La scrittura per Sciascia è memoria, memoria delle cose “trovate”, soprattutto dei primi dieci-dodici anni di vita, come soleva affermare. Come il contadino, che era avvezzo a lavorare e a formarsi una sua coscienza alla luce del sole, egli con la scrittura fa emergere la realtà, verità o impostura non importa, perché la Ragione deve tutto rivelare, vero e falso. E nel rivelare l’ingiustizia e la prevaricazione, l’intolleranza e la disumanità, non c’è la sconfitta della Ragione, ma anzi il suo trionfo. E’ sempre la Ragione che rivela la realtà effettuale (verità o menzogna): sta all’uomo ritrovare la sua umanità per sconfiggere il male. E in questo senso la Sicilia – e i suoi mali – diventano metafora del mondo.

Racalmuto Castello Chiaramontano

I LUOGHI DI TOMASI DI LAMPEDUSA

Tomasi al monastero di Palma Montechiaro

Palma di Montechiaro

 Palma di Montechiaro (Ag)

La Beata Corbera Quale valore assumono i luoghi nell’economia del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), Il Gattopardo, e nell’altro suo libro I racconti?
Tanto, tantissimo. La cura ambientale e descrittiva del Gattopardo, unitamente alle rievocazioni di Ricordi d’infanzia ci danno la chiave di un mondo in dissoluzione e in disfacimento, ineluttabilmente perduto, a più rimarcare il dramma del declino irreversibile del ceto aristocratico.

“Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso quando essa da dodici anni non è più che un ricordo”

Questo era il legame di Giuseppe Tomasi di Lampedusa con i luoghi della sua infanzia, un legame forte, totale, che gli diede l’incentivo a creare i suoi capolavori. Senza la casa e il castello di Palma di Montechiaro, la Donnafugata gattopardiana, e la grande casa di Santa Margherita Belice, la preferita dei Ricordi, non ci sarebbe stata la grande creazione del Gattopardo. Troppi, essenziali sono i collegamenti intimi dell’infanzia di Tomasi con i filoni ispiratori delle vicende del romanzo. Nulla osta quindi a concludere che lo scrittore non si sarebbe mai imbarcato per un viaggio così importante all’interno della sua anima e della sua cultura, se non avesse mai sperimentato il viaggio in quelle contrade, che nelle sue opere diventa il “viaggio della memoria”.

Santa Margherita Belice

“Il fascino dell’avventura, del non completamente comprensibile che è tanta parte del mio ricordo di S.Margherita, cominciava con il viaggio per andarvi”

 Viaggio nella memoria, nell’anima, nella vita, con e nella scrittura. E per questo si può affermare che i luoghi tomasiani della provincia di Agrigento costituiscono la chiave di volta per comprendere nella sua vera essenza la reale statura del Gattopardo e dei suoi personaggi.

 Tomasi Palazzo Filangeri Cutò


SALVATORE QUASIMODO
NELLA VALLE DEL PLATANI

Salvatore Quasimodo 

…Forse
dà fiato dai pianori d’Acquaviva,
dove il Plàtani rotola conchiglie
sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli
di pelle uliva…

La poesia di Salvatore Quasimodo (1901-1968) appare scandita dai temi della propria terra, come perdita del paradiso perduto e dell’innocenza, che viene tradita e disillusa dalla brevità della vita umana, consumata nella società metropolitana.
La Valle del Platani, fiume che scorre per la quasi totalità in territorio agrigentino, segnò con il suo paesaggio la sua ispirazione poetica, dalla quale mai riuscì a distaccarsi, rimanendone sempre smarrito:

…La ragazza seduta sull’erba alza
dalla nuca i capelli ruvidi e ride
della corsa e del pettine smarrito…

(Tempio di Zeus ad Agrigento)

 Ma il presagio della morte atterrisce:

…Il telamone è qui, a due passi
dall’Ade (mormorio afoso, immobile),
disteso nel giardino di Zeus…

(Tempio di Zeus ad Agrigento)

Agrigento, Telamone, Tempio di Giove

 Il tempo rode persino il cuore dei giganti di dura selce:

 

Là dura un vento che ricordo acceso
nelle criniere dei cavalli obliqui
in corsa lungo le pianure, vento
che macchia e rode l’arenaria e il cuore
dei telamoni lugubri, riversi
sopra l’erba…

(Strada di Agrigentum)

 

 Salvatore Quasimodo, Michele Lizzi

‘NFERNU VERU, DI ALESSIO DI GIOVANNI

 

Alessio Di GiovanniLeonardo Sciascia così dice di Alessio Di Giovanni (1872-1946) ne La corda pazza

 “…di questa galera che è la zolfara, il poeta che più realmente e intimamente ne abbia vissuto il travaglio, la tragedia, è senza dubbio Alessio Di Giovanni”

Il dialetto di Alessio Di Giovanni, agrigentino di Cianciana, sembra il più indicato a rappresentare il grido di dolore di un mondo di rinuncia, di abiezione, di segregazione, un mondo infernale d’oscurità e di miseria, dove la vita conta poco, anzi niente.

 Scinninu a la pirrera cu li spicchia
nmanu comu l’armuzzi dicullati
quannu a la notti so, ntra canti e picchia
vannu a li casi di l’appuriatu

 Scinninu pi na scala ca scruciddia
cu l’altri ni lu scuru nabissati
scinninu adaciu e ad ogni tanticchia
ringrazianu di Diu la gran buntati

 Ma cumincianu doppu lu travagliu
ca li strudi l’ammazza e li ruvina
vastinniannu ddu Diu ca l’hà criati

 E fannu di ddi timpi lu bersagliu
di l’odiu ca li coci e li nvilina
poviri carni umani sfracillati!…

Disastro miniera Cozzo Disi 1913Un dialetto, quello di Alessio Di Giovanni, tra i più puri, che scaturiva da uno studio profondo della lingua siciliana. Di Giovanni criticò anche Verga a proposito del dialetto, di cui rivendicò, sulla falsariga di Pirandello, la purezza contro le contaminazioni che se ne facevano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

15 domenica Giu 2008

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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40° DELLA MORTE
RICORDO DI SALVATORE QUASIMODO
NELLA TERRA DI PIRANDELLO E SCIASCIA

Salvatore Quasimodo
<<Egli avvertì la poesia come parola assoluta, da cogliere nella “quantità che le è propria nella piega della voce che la pronuncia”, in una disposizione non di tono, ma di durata… (…) e un modo di evocazione “musicale” (non “sonora”)>>
         Luciano Anceschi

Questa musica “trascendentale”, Salvatore Quasimodo cominciò ad avvertirla subito nella primissima infanzia letteraria, nei luoghi soprattutto che furono di Pirandello e Sciascia, quando la famiglia – il padre era capostazione – si stabilì a Comitini, ad Aragona Caldare, ad Acquaviva Platani. Affiora sempre nei ricordi del poeta la mitica Valle solcata dal Platani, l’antico corso d’acqua greco, l’Alikòs, che nasce sotto le Madonie, attraversa tutta la provincia di Agrigento e sfocia, dopo numerosi meandri, a Capo Bianco, anticamente Eraclea Minoa.

 Eraclea Minoa

Che vuoi, pastore d’aria?

 Ed è ancora il richiamo dell’antico
corno dei pastori, aspro sui fossati
bianchi di scorze di serpenti. Forse
dà fiato dai pianori d’Acquaviva,
dove il Plàtani rotola conchiglie
sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli
di pelle uliva. O da che terra il soffio
di vento prigioniero, rompe e fa eco
nella luce che già crolla; che vuoi,
pastore d’aria? Forse chiami i morti.
Tu con me non odi, confusa al mare
dal riverbero, attenta al grido basso
dei pescatori che alzano le reti.

 (da  Nuove Poesie 1936/1942)

 Eraclea Minoa

Giustamente è stato affermato che Quasimodo è il poeta del situare, egli si esprime come  un impareggiabile disegnatore di siti, sintesi eccelsa della professione di geometra e di profondo conoscitore della classicità greca e latina: esprit de géométrique e esprit de finesse si concentrano nella sua poetica. E il sito di Agrigento è costante fonte d’evocazione, come musica ancestrale vissuta e ben assimilata.

 I Telamoni del Tempio di Zeus di AgrigentoStrada di Agrigentum

 

Là dura un vento che ricordo acceso

nelle criniere dei cavalli obliqui

in corsa lungo le pianure, vento

che macchia e rode l’arenaria e il cuore

dei telamoni lugubri, riversi

sopra l’erba. Anima antica, grigia

di rancori, torni a quel vento, annusi

il delicato muschio che riveste

i giganti sospinti giù dal cielo.

Come sola nello spazio che ti resta!

E più t’accori s’odi ancora il suono

che s’allontana verso il mare

dove Espero già striscia mattutino

il marranzano tristemente vibra

nella gola del carraio che risale

il colle nitido di luna, lento

tra il murmure d’ ulivi saraceni.

 (da  Nuove Poesie 1936/1942)

La parola di Quasimodo è sortilegio della memoria, mito personale, evocazione del mondo sommerso, irriducibile impegno morale.

 
Tempio di Zeus ad Agrigento
 

Agrigento, Telamone, Tempio di GioveLa ragazza seduta sull’erba alza
dalla nuca i capelli ruvidi e ride
della corsa e del pettine smarrito.
Il colore non dice o se strappato
dalla mano rovente che lontana
saluta dietro un mandorlo o finito
sul mosaico del cervo greco in riva
al fiume o in un fosso di spine viola.
E ride la follia dei sensi, ride
continua alla sua pelle di canicola
meridiana dell’isola
e l’ape lucida zufola e saetta
veleni e vischi d’abbracci infantili.

 In silenzio guardiamo questo segno
d’ironica menzogna: e per noi brucia
rovesciata la luna diurna e cade
al fuoco verticale. Che futuro
ci può leggere il pozzo
dorico, che memoria? Il secchio lento
risale dal fondo e porta erbe e volti
appena conosciuti.
Tu giri antica ruota di ribrezzo,
tu malinconia che prepari il giorno
attenta in ogni tempo, che rovina
fai d’angeliche immagini e miracoli,
che mare getti nella luce stretta
d’un occhio! Il telamone è qui, a due passi
dall’Ade (mormorio afoso, immobile),
disteso nel giardino di Zeus e sgretola
la sua pietra con pazienza di verme
dell’aria; è qui, giuntura su giuntura,
fra alberi eterni per un solo seme.

 (da  Il falso e vero verdeNuove Poesie 1949/1955)

1961 La rozza pietra, tomba di PirandelloIl 10 dicembre 1961, giorno del 25° anniversario della morte diPirandello giovane a Roma Luigi Pirandello, la cerimonia di traslazione delle ceneri, sotto il pino, fu sobria, anche se, tra le tante Autorità, ci furono tre personaggi che contavano più di tutti, a rendere l’evento di risonanza mondiale.
Impeccabile nella sua commozione, che riusciva appena a mascherare dietro scure lenti, era presente con i suoi ricordi Marta Abba, impareggiabile interprete del teatro pirandelliano. E, per il mondo della letteratura, erano venuti a rendere omaggio a Luigi, Salvatore Quasimodo e Leonardo Sciascia. Quasimodo lo fece da siciliano a siciliano, da artista ad artista, da premio Nobel a premio Nobel.

Riccobono2Tra i numerosi studenti liceali presenti del Liceo Empedocle di Agrigento, dove aveva studiato Pirandello, Quasimodo mormorò sommessamente a mo’ di commemorazione, un suo verso della poesia Tempio di Zeus ad Agrigento”:

 “E’ QUI…FRA ALBERI ETERNI PER UN SOLO SEME”

Salvatore QuasimodoFu un grande omaggio al grande Maestro agrigentino, da lui molto ammirato e studiato, con il quale sentiva in comune l’interesse per la musica e per la parola. E sulla falsariga del tre atti (in cinque quadri) La Favola del figlio cambiato di Pirandello, musicata da Gian Francesco Malipiero, Quasimodo scrisse un mito, L’amore di Galatea, libretto per un’opera lirica. A musicarla (1964) provvederà, non a caso, un agrigentino, il maestro Michele Lizzi (Agrigento,1915 – Messina  1972), che della cultura classica e del pensiero pirandelliano fu squisito interprete. Michele Lizzi, nella sua opera prima (su libretto del poeta agrigentino Gerlando Lentini), la Pantea, aveva già fatto conoscere e rivivere liricamente la mitica e miracolistica guarigione-resurrezione di una nobile di Akragas grazie ad Empedocle, mentre con la sua riduzione della Sagra del Signore della nave di Pirandello, da lui musicata, aveva dato un saggio lirico dell’opera pirandelliana, vibrante di emozioni e sensazioni.

Salvatore Quasimodo, Michele LizziL’accoppiata Quasimodo-Lizzi assicurò al mito di Aci e Galatea un grande successo, mentre l’opera lirica, La Sagra del Signore della nave, fece conoscere un aspetto inedito della vita di Pirandello, il quale aveva amato molto la musica, tanto da mandare da Bonn alla sorella Rosolina i fiori colti sulla tomba di Schumann.

La smania di Coop, ricordata da PirandelloFiori colti da Luigi PirandelloLa poetica dei grandi letterati è destinata, per forza di cose, a spaziare, perché l’arte per antonomasia è assoluto e non patisce limiti di spazio, di luogo e di tempo. I collegamenti, i rimandi e le influenze s’intersecano continuamente. Così è il caso della poesia  Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto, laddove il fascino misterioso ed ermetico del personaggio storico d’Ilaria si lega alla voce del poeta e alla sua solitudine, nel ricordo di un luogo o di un tempo remoti, in un itinerario totale che percorrerà per altri versi successivamente Leonardo Sciascia.

Jacopo della QuerciaDavanti al simulacro d’Ilaria del Carretto

 Sotto tenera luna già i tuoi colli,
lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse
e turchine si muovono leggere.
Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio
perde colore, e ogni ora s’allontana,
e il gabbiano s’infuria sulle spiagge
derelitte. Gli amanti vanno lieti
nell’aria di settembre, i loro gesti
accompagnano ombre di parole
che conosci. Non hanno pietà; e tu
tenuta dalla terra, che lamenti?
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto
forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento.
Remoti i morti e più ancora i vivi,
i miei compagni vivi e taciturni.

 (da  Nuove Poesie 1936/1942)

 
RacalmutoDal sarcofago mirabile di Jacopo della Quercia, monumento funebre di Ilaria del Carretto nella cattedrale di San Martino a Lucca (1404), simbolo mitico per Quasimodo, al sarcofago di un altro Del Carretto, Girolamo II (1622), presso la chiesa del Carmine di Racalmuto, avvio delle memorie sciasciane.

“Nella chiesa del Carmine c’è un massiccio sarcofago di granito, due pantere rincagnate che lo sostengono. Vi riposa “l’Ill.mo don Girolamo del Carretto, conte di questa terra di Regalpetra, che morì ucciso da un servo a casa sua, il 6 maggio 1622”

E’ l’incipit de Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia, opera che racconta secoli di prevaricazioni e nella quale l’episodio del Conte è l’inizio della storia che si ripete senza soluzione di continuità.

Racalmuto Castello Chiaramontano

Leonardo Sciascia“Il conte stava affacciato al balcone alto tra le due torri guardando le povere case ammucchiate ai piedi del castello, quando il servo Antonio Di Vita, facendoglisi da presso, l’assassinò con un colpo d’arma da fuoco. Era un sicario, un servo che si vendicava; o  il suo gesto scaturiva da una più segreta e appena sospettata vicenda? Donna Beatrice, vedova del conte, perdonò al servo Di Vita, e lo nascose, affermando con più che cristiano buonsenso che la morte del servo non ritorna in vita il padrone.”

“Ammazzato, da due sicari del barone di Sommartino, morì anche il padre di Girolamo, uomo anch’esso vendicativo ed avido.”

La storia, i luoghi, il contesto sono assai significativi nella poetica dei letterati, perché acquisiscono forza di mito, personale o collettivo che sia, in una universale visione e concezione, in cui la parola rappresenta tutto, travalicando in maniera totale il tempo e lo spazio. La creazione diventa, cioè, essa stessa vita.

15 sabato Mar 2008

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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Tag

arte e cultura, empedocle, letteratura - articoli, orazio, pirandello, pittura, poesia, quasimodo, sciamè

QUANDO LA PRIMAVERA S’AVVICINA…

PRIMAVERA Flora Non è ancora primavera conclamata, ma già si sente nell’aria l’incipiente stagione,  che Salvatore Quasimodo sapeva captare da queste parti, quand’era ragazzo – il padre era capostazione di Comitini, poco distante da Agrigento -.

 Maestro Vincenzo Sciamè

Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul fosso.
E tutto sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.

 
Accenti d’autentica effusione lirica, che gli fecero anche dire in “Quasi un madrigale”:

…………………………………………….

Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.

…………………………………………….

Riccobono2Questa vena introspettiva riesce ad evidenziare la stupefatta meraviglia dell’io, di fronte alla bellezza della natura e all’amore per la vita, con la constatazione però che tutto ha un epilogo. Lo stesso atteggiamento ambivalente echeggia nella quarta ode – libro primo – di Orazio, laddove il poeta latino nota questo passaggio “prodigioso” di stagione:

Solvitur hiems grata vice veris et Favoni
(Si scioglie l’aspro inverno alla grata vicenda della primavera)

 

Orazio, poeta LatinoLa gioia e l’apprezzamento della nuova stagione è occasione anche per il cambiamento esteriore:

 

Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto
aut flore, terrae quem ferunt solutae;

(Ora è bello cingere il capo nitido di verde
mirto o di fiori sbocciati dalle chiuse zolle😉

 

Ma Orazio avverte il felice Sestio che breve è la stagione umana e che di fronte alla morte si è tutti uguali:

 

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas
regumque turris. O beate Sesti,
vitae summa brevis spem noc vetat inchoare longam;

(La pallida Morte batte con piede uguale le povere capanne
e le torri dei re. O mio felice Sestio,
il breve corso della vita vieta lunghe speranze.
)

Questo contrasto, forse categoria dell’animo umano, sembra un modo di sentire comune a tutti gli uomini. Negli artisti e nei poeti diventa gioia incontenibile celebrare sempre la “creazione” artistica, come momento irripetibile e per ciascuno eterno, ma c’è anche una sorta di chiaroveggenza della limitatezza del viaggio umano, così come cantò Empedocle on versi sublimi:

Solo una parte della vita
che non è vita
vedono gli uomini:
condannati a pronta morte
si dileguano come fumo.

Però la regressione all’infanzia, le piccole cose dell’esistenza quotidiana, i nonnulla della vita, a volte possono ispirare i pittori, i quali sono sognatori per eccellenza.
Per il neo espressionista pittore agrigentino, Rino Pony  – anche musicista di blues e da poco riscoperto attore – la vita assomiglia a un veliero, che non si sa se stia partendo, sia in navigazione o se ne stia ancorato in un porto. La vita è un viaggio – questo solo si può cogliere da questo quadro – e la vicenda umana, per quanto felice, è destinata ineluttabilmente a concludersi.

Rino Pony, pittore naifTuttavia, la vita merita di essere vissuta fino in fondo, assaporandola in pieno, anche se con il rammarico di dover lasciare tutto, così come Pony rappresenta in questa pensosa poesia.

                

Rino Pony, pittore NaifM ´ ASSETTU E PENSU
          

M´ assettu e pensu
`ncapu a na petra russa do me` paisi.

m ´assettu e sentu
u ciavuru da me` terra comu na vota,

m´ assettu e dicu
chi biddizzi ca avi stu mari,
chi splinduri ca avi stu suli .

M´ assettu e pensu
accussi` senza sensu,

m´assettu stancu
cu u cori `nmanu rammaricatu,
picchi` sacciu ca sta petra haia a lassari
e n´ avutra mi n´haia ghiri a truvari.

  


SIEDO E PENSO

Siedo e penso
sopra una pietra rossa del mio paese.

 Siedo e sento
il profumo della mia terra come una volta

 Siedo e dico
che bellezze ha questo mare
che splendore ha questo sole

 Siedo e penso
così, senza senso
con il cuore in mano, rammaricato
perché so che questa pietra devo lasciare
e un’altra me ne devo andare a trovare.

 Rino Pony

 

 PIRANDELLO E LA PRIMAVERA

Pirandello nel suo studio
Nello studio in cui se ne stava rintanato, Luigi Pirandello sentiva sempre irrompere la primavera. Dopo aver aperto le finestre e indugiato a dare un lungo sguardo al panorama che aveva di fronte, ritornava al lavoro consueto. La sua natura solitaria e schiva, ma introspettiva, gli permetteva di catturare tutte le sottigliezze: le cose che si fanno istintivamente, i minimi cambiamenti, i cicli, i mutamenti e i ritmi della natura. L’arrivo della primavera, un evento che si ripete ogni anno, che passa ai più inosservato pur consumandosi in un arco di diversi giorni, più o meno lunghi, gli fece concepire una novella, intitolata “Filo d’aria”.

Maestro Toto Cacciato, AgrigentoEssere nella vita e non accorgersene è questo il tema essenziale del racconto, in cui i protagonisti vivono la loro vita inconsapevolmente, con il ritmo e le abitudini routinarie di tutti i giorni, senza porre mente ai piccoli eventi, anche impercettibili, che si verificano. Una nipotina, il padre e la madre, e una servetta, che assiste un vecchio, ammalato di idropisia e quasi moribondo, costretto all’immobilità in un seggiolone, si preoccupano di organizzare e standardizzare la sua vita. Loro, “che sono dentro la vita”, non si rendono conto dei minimi particolari, che invece possono essere importanti e determinanti per chi, come il nonno, dalla vita, dalla loro vita, è escluso.

“Soltanto, ma proprio appena, egli poteva ancora tentare di muovere una mano, la sinistra, dopo essersela guardata a lungo, con quegli occhi, quasi a infonderle il movimento. Lo sforzo di volontà, arrivato al polso, riusciva a stento a sollevare un poco dalle coperte quella mano; ma durava un attimo;  la mano ricadeva inerte. Il vecchio s’ostinava di continuo in quell’esercizio di volontà, perché quel lieve moto momentaneo, ch’egli poteva ancor trarre dal corpo, era per lui la vita, tutta quanta la vita, in cui tutti gli altri si muovevano liberamente, a cui gli altri partecipavano interi, a cui ancora poteva partecipare anche lui, ma ecco: per quel tanto e non più.”

 Questa situazione determina un’incomunicabilità radicale e un odio viscerale del vecchio nei confronti dei familiari, che, presi dalle loro occupazioni e dal fluire della vita, non ne rilevano i bisogni.

 Qualche cosa era accaduta, o doveva accadere quel giorno, che volevano tenergli nascosta. Ma che cosa?

S’erano appropriato il mondo, figlio, nuora e nipotina; il mondo  creato da lui, in cui li aveva messi. Non solo; ma anche il tempo s’erano appropriati, come se ancora nel tempo non ci fosse anche lui! Come se non fosse anche suo, il tempo, non lo vedesse, non lo respirasse, non lo pensasse anche lui! Egli respirava ancora, vedeva tutto e più, più di loro vedeva, e pensava tutto!

L’impotenza e l’isolamento fanno credere al vecchio che non vi sia comunione di vita, di pensieri, di sentimenti con quell’unico figlio. Il vecchio non riesce neanche a spiegarsi il sospiro inconsapevole della servetta che lo accudisce e il compiacimento per i suoi capelli della nuora, fatti che per lui sottendono una novità, che gli altri gli vogliono celare. La risposta però gli arriva tutt’a un tratto dal balcone, che si schiude piano piano, un poco, a un filo d’aria, perché la nipotina, in mattinata, aveva lasciato la maniglia girata.
Il vecchio sente, improvvisamente, tutta la stanza riempirsi di un delizioso inebriante profumo che sale dai giardini. E’ allora che il vecchio si spiega perché la sua vita non può saldarsi a quella degli altri, che scorre su altri binari.

 Maestro Toto Cacciato, Agrigento

“Gli altri non potevano vederlo, non potevano sentirlo in sé, gli altri, perché erano ancora dentro la vita. Egli, che ormai n’era quasi fuori, egli lo aveva veduto, egli lo aveva sentito in loro. Ecco, ecco perché, quella mattina, la bimba non tremava soltanto, ma fremeva tutta; ecco perché la nuora rideva e si compiaceva tanto dei suoi capelli; ecco perché sospirava quella servetta; ecco perché tutti avevano quell’aria insolita e nuova, senza saperlo. Era entrata la primavera.”

Un filo d’aria, muovere un dito, per lui è tutto; è sentirsi agganciato alla vita, anche se per poco: cose che si possono soltanto sentire quando si è ormai all’uscita.

 

 

 

 

 

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