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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

~ "La vita o si vive o si scrive" (Luigi Pirandello) – "Regnando Amicizia ogni cosa va ad unirsi" (Empedocle) – "Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano" (Leonardo Sciascia)

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26 domenica Lug 2009

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agrigento, cultura, dialetto siciliano, letteratura - articoli, liolà, montalbano, pirandello, poesia, racconti, sciascia, sicilia, teatro, vino

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Luigi Pirandello RICORDO DI PIPPO MONTALBANO

ATTORE PIRANDELLIANO

 

Quando tu nascesti, tutti sorridevano,

                       solamente tu piangevi…

                                   Fa’ si che quando morirai, tutti

piangano e solamente tu sorrida

                                     (Anonimo Arabo)

Esergo di “A schiticchiata di Firticchiuni”

 Pippo Montalbano 2007, Premio Sikelè

Con la presentazione agli amici, ai colleghi di lavoro e di teatro, e ai suoi estimatori, della sua composizione “A schiticchiata di Firticchiuni” liberamente ispirata e tratta da “U schiticchiu” di Vincenzo Licata, pubblicazione curata dal figlio Salvatore, è stato ricordato nei giorni scorsi in maniera semplice e antiretorica l’attore agrigentino Pippo Montalbano – una vita intera la sua dedicata al teatro.

Non è facile tracciare il ricordo di Pippo Montalbano, in special modo a chi – come me – ha avuto la fortuna d’incontrarlo e di esserne stato a più riprese beneficato.

Il mio primo incontro è stato all’INPS di Agrigento, dove ho lavorato tre anni, dal marzo ’70 al febbraio ’73, mentre Pippo Montalbano vi prestava servizio già da due anni.

Pippo Montalbano, attore, 1970Conoscevo molto bene le sue doti di attore di teatro, grande interprete di commedie di Pirandello, ma subito mi colpì quel suo modo di essere naturale nella vita, così come sulla scena: umorista per vocazione e generoso per carattere. Sembrava che Pirandello avesse scritto le commedie – Liolà e Il Berretto a sonagli principalmente – proprio per lui. Nelle brevi pause lavorative, nel bar interno dell’INPS, Pippo Montalbano riusciva a sciorinare continue battute con immediatezza, dando estemporaneamente piccoli saggi di recitazione. Non erano digressioni a buon mercato, ma citazioni che avevano un senso di vita. Era la sua ricchissima umanità che traboccava sul lavoro, sulla scena, nella vita privata. Era un uomo di grande coerenza, un umile ma entusiasta Liolà in ogni occasione:

 

Non m’importa di nulla: so recitare

È mia tutta la terra e tutto il mare…

 

Mi sia passata la licenza di aver adattato i due versi del Liolà di Pirandello, sostituendo “cantare” con “recitare”, ma posso testimoniare – e con me lo potrebbero fare in tanti – che i due versi rispecchiano perfettamente il modo di essere e la gioia di recitare di Pippo Montalbano.

E con quanto sentimento l’avevo visto interpretare alla Settimana Pirandelliana il personaggio di Ciampa nel Berretto a sonagli, lui che per la sua creatura, La settimana Pirandelliana appunto, s’era sempre battuto strenuamente e, specialmente negli ultimi tempi, aveva dovuto subire non poche delusioni, per l’ interruzione della rassegna, che prima s’era tenuta regolarmente per molti lustri, anno dopo anno, con grande successo davanti alla casa Natale di Pirandello, splendido scenario naturale per le commedie pirandelliane:

 

“La cassa dell’uomo, signora, comporterebbe di vivere, non cento, ma duecent’anni! Sono i bocconi amari, le ingiustizie, le infamie, le prepotenze, che ci tocca d’ingozzare, che c’infràcidano lo stomaco! Il non poter sfogare, signora! Il non potere aprire la valvola della pazzia!” (Luigi Pirandello, Il berretto a sonagli, commedia)

 

Ma il suo grande cuore, la generosità verso gli altri, gli facevano superare le contraddizioni della vita, e il suo insegnamento dalla scena emergeva sempre e in ogni occasione genuino, così come del resto il suo modo di pensare, che possiamo riassumere negli ultimi versi della sua composizione “La schiticchiata di Firticchiuni”

 Pubblicazione di Pippo Montalbano

E lu penzu e dicu ca tuttu ‘u munnu sanu

avissi bisognu di un tempu stabilitu

ca si verificassi chistu purtentu arcanu:

ch’è chiddu di stari l’unu cu l’autru unitu,

senza ‘mmidia, gelosia, ma dànnusi ‘a manu;

fari di l’amuri regula prima e ritu.

Tantu… ‘a la fini di tutt’a salita

Chi ‘nni rimani chiù di la nostra vita?

 Pensionamento di Pippo Montalbano

Un poemetto giocoso, umoristico il suo, scritto per il suo pensionamento dall’INPS e per quello dei colleghi, Mimma Fiorino, Angela Restivo e Totò Vella, e intonato alla grande festa con una grande mangiata che ne era scaturita nell’ottobre del 2004. La sua composizione è un elogio al vino e al godimento del momento nell’abbondanza, a guisa di tante opere pirandelliane, dove vien fuori lo schietto modo di essere del popolo; ne  La giara, ad esempio:

 

“Zi’ Dima pensò di far festa quella sera insieme coi contadini che, avendo fatto tardi, rimanevano a passare la notte in campagna, all’aperto, su l’aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c’era la luna che pareva fosse raggiornato.

A una cert’ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d’inferno. S’affacciò a un  balcone della cascina e vide su l’aja, sotto la luna, tanti diavoli: i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi’ Dima, là dentro, cantava a squarciagola…” (Luigi Pirandello, La giara, novella)

 

Oppure nel contrasto tra vita e morte della novella Sole e ombra, dove Ciunna, cassiere del magazzino generale dei tabacchi, che ha deciso di suicidarsi per non subire l’onta dell’arresto per essere stato costretto a rubare 2.700 lire per amore del figlio, disoccupato con cinque figli, vive una giornata godereccia e riesce a rinviare la fatale decisione:

 

La sala da pranzo s’era riempita d’una ventina d’amici del Ciunna e dell’Imbrò e gli altri avventori della trattoria si erano messi a desinare insieme, formando così una gran tavolata, allegra prima, poi a mano a mano più rumorosa: risa, urli, brindisi per burla, baccano d’inferno. (Luigi Pirandello, Sole e ombra, novella)

 

Ma il poemetto dialettale di Pippo Montalbano vuol essere un’occasione anche per qualche riflessione storica, pur in momenti giocondi, allietati dal sincero vino siciliano:

 

“Calibardi, s’avissi avutu scienza”

dissi, tuttu arrabbiatu, Lillu Penninu

“quannu sbarcà a Marsala, ‘na dispensa

s’avia accattari e vinniri lu vinu.

Cu st’Italia unita, n’cunfidenza,

ci sunnu sempri sciarri di continû.

Siddu s’avissi dda domiciliatu,

astura ognunu fussi sistimatu.

Ammeci lassà Marsala e lu vinu,

li sordi suli di Palermu si purtà.

Spuglià parrini, ricchi e pupulinu

e li sordi a Cavurru ‘l cunzignà.

‘Nzumma: nni cangià la vita e distino

picchì chistu bon vinu unn’assapurà.

‘U nostru stemma, a ditta di tutti,

‘a st’ura fussi ‘na putenti vutti.

 

PROFETA IN PATRIA

APPREZZATO DOVUNQUE

Pippo Montalbano, Nino Bellomo, Giovanni MoscatoUn attore non è amato soltanto per quello che recita e per come sa renderlo sulla scena. Un vero attore va amato oltre la sua professionalità: per quello che sa esprimere nella vita di relazione. Pippo Montalbano era l’uno e l’altro. Il suo stigma era l’umiltà, che non vuol dire modestia, ma che significa essere sempre se stesso, alla portata di tutti, popolare, senza orpelli, apparenze o nascondimenti. Anche nella recitazione dei brani per la presentazione di libri in sede locale teneva ad andare agli appuntamenti già preparato e non si negava a nessuno o declinava impegni. Una serietà la sua che è una caratteristica degli attori agrigentini.

Brani teatrali del mio romanzo “Una contrada chiamata Consolida”, di cui fa parte integrante un piccolo dramma “Falaride”, hanno avuto la fortuna nel novembre del 2004 di essere stati recitati da attori agrigentini: Pippo Montalbano, Nino Bellomo, Giovanni Moscato, Lia Rocco. Grazie a loro la sala Zeus del Palacongressi di Agrigento si riempì di oltre 200 spettatori, venuti ad ascoltarli. Mi è rimasta scolpita nel cuore la recitazione finale di Pippo Montalbano, nei panni di Falaride:

 

FALARIDE: (irato) Appare strano, o cittadini, come uno straniero voglia subornare voi giudici e venga ad intentare un processo alla mia persona senza averne l’autorità, trasformandolo in una tracotante accusa ed esautorandomi nella facoltà di decidere, ed esautorando il popolo stesso, da me delegato a giudicare secondo discrezione.

Ciò è oltraggio alle leggi, scritte e non scritte, divine e umane.

E poi quale sarebbe la mia colpa?

Quella di avere fatto grande e ricca una città?

Molti errori del passato sono stati riparati, ad altri si potrà porre rimedio.

Il mio primo ministro è uomo di talento, giusto e timorato: voi ne avete apprezzato già i pregi.

Non incorrete nell’errore della mia piccola isola, che anzitempo mi mandò in esilio ed oggi si pente di averlo fatto. Queste che io vi leggerò (tira fuori un messaggio) sono le parole di un cittadino di Astifalea che, dopo tanti anni di governo aristocratico, si continua a dolere della sua esistenza. Volete anche voi cadere in quest’inganno?

 

Legge recitando:

 

Maledetto paese

Lontano dalla civiltà,

tagliato fuori dal mondo intero!

Esecrabile è l’esistenza

In questa terra mediocre

Grigia

Senza orgoglio di patrie memorie

E di tradizioni

Senza stimolo di immaginazioni

O conforto di sognanti abbandoni…

 

Falaride viene interrotto da un improvviso volo di colombi. Guarda in alto e tutti l’imitano. Pitagora ne approfitta per prendere la parola.

 

PITAGORA: (puntando l’indice verso l’alto) Popolo di Akragas, guarda come una grande moltitudine di uccelli viene inseguita da un nibbio solitario! Basterebbe che i colombi avessero più animo per volgere in fuga il prepotente. Cosa può fare un uomo solo contro la coalizione di molti? Suvvia! Questo è il momento opportuno per liberarsi dalla tirannide (agita il pugno verso il tiranno, il popolo grida “morte al tiranno”).

 

Telemaco lancia un sasso verso Falaride, imitato dai popolani. La sassaiola si fa più fitta…

 

FALARIDE: (cercando inutilmente di parare i colpi con un braccio) Muoio! Morire ora… così… sulla pubblica piazza è una stoltezza, che tu, o popolo, pagherai a caro prezzo (cade).

 

La grande dote di Pippo Montalbano?

Rendeva grandi anche le cose piccole. Era il suo stile, la sua natura, quello di recitare sempre, in ogni luogo, per grazia ricevuta.

 

L’ULTIMO RECITAL

 Ultima recita di Montalbano

L’ultima recita di Pippo Montalbano è stata il 14 febbraio di quest’anno a Favara, nel recital tra musica e poesia “Viaggio nel mondo dei sentimenti”, organizzato dall’Associazione Culturale “Il libero canto di Calliope”, presieduto dalla poetessa Liliana Arrigo.

Fu felice di recitare dei brani di un mio racconto su un amore giovanile di Luigi Pirandello. Purtroppo, chiamato da impegni inderogabili fuori sede, non fui in grado di partecipare a quella grande manifestazione di amicizia, di signorilità, di disponibilità, che Pippo Montalbano mi tributò, con lo stesso impareggiabile spirito con il quale riusciva sempre a gratificare gli agrigentini che ne ammiravano la sua bravura.

 

La prima infatuazione di Luigi Pirandello a quindici anni

 

(brani dal racconto In famiglia, di Ubaldo Riccobono)

 

 

Jenny Schultz Lander Dieci anni aveva Giovanna; ma fanciulla in pieno rigoglio, ne dimostrava almeno quindici. E bella era, anzi bellissima, leggiadra come una piccola dea, con le treccine nere e gli occhi grandi di Madonna. Luigi l’incontrava spesso sul portone di casa, o per la via, sempre accompagnata dal padre oppure dalla madre, o a volte dalla sorella maggiore; e quelle sue labbra di corallo e gli occhi sfavillanti gli facevano sognare i primi baci d’amore e in segreto lo facevano smaniare. Quando Giovanna passava, i loro sguardi s’incrociavano per un attimo ed egli, alla sua vista, si sentiva rimescolare e borbottava un saluto sommesso e precipitoso, arrossendo sin nel bianco degli occhi.

Chiuso nella sua cameretta a studiare, di pomeriggio, se ne stava lungamente a meditare e i suoi pensieri volavano subito a lei, che stava al piano di sopra. Era una malia: possibile che una bambina di appena dieci anni potesse destargli quei sentimenti?

Avrebbe voluto vederla, parlarle a lungo, farla sorridere allegramente, come quando la sorprendeva per strada in conversazioni fitte fitte e innocenti coi familiari, ilare e disincantata. A costo di apparirle stupido, quante parole tenere le avrebbe sussurrato, se avesse avuto la fortuna di starle vicino per qualche momento.

 

Luigi fu al settimo cielo perché Giovanna ora scendeva spesso a trovare la sorella Annetta e, se avesse voluto, egli avrebbe potuto vederla in qualsiasi momento. Ma era stranamente ritroso: forse l’età di lei lo intimidiva,  o forse temeva di mancare di delicatezza nel rivolgerle la parola, perché intuiva che le ragazze era abili a leggere perfino nei meandri del cuore. Le rare volte che entrava, con il cuore in tumulto, nella stanza delle sorelle, quella visione angelica della fanciulla, che gli si rivolgeva con un meraviglioso sorriso, gli destava un desiderio impetuoso e folle di baciarla.

 

L’idillio sbocciò improvviso: era un giorno tiepido di primavera e Luigi s’era messo a studiare sul balconcino. Ogni tanto distoglieva lo sguardo dal libro che stava leggendo e, mettendo un dito per segno tra pagina e pagina, volgeva lo sguardo verso l’alto, al balconcino della stanzetta di Giovanna. Lei, quel giorno, apparve, celestiale visione, e sporgendosi gli rivolse per la prima volta la parola.

Pur potendo parlare a piacimento, i loro furono dialoghi timidi, frasi spezzate, discorsi indeterminati. Quando rimaneva solo, Luigi si diceva ch’era uno stupido: avrebbe potuto dirle tante cose. Dirle ad esempio che le voleva bene. Ma sempre, quand’era il momento, credeva di compromettersi troppo con parole definitive, serie, da grandi, che forse riteneva false; e desisteva. Era diventato un gioco tra loro, che si parlavano solo al balcone e mai

allorchè la fanciulla scendeva a trovare Annetta. E come in un gioco, a Luigi venne l’idea di mandarle dei messaggi, nei quali poterle esprimere i suoi sentimenti. La prima volta, scrisse un breve pensiero su un foglio di carta, lo avvolse ad un piccolo sasso e, con timore e mille titubanze, lo lanciò nel balcone di sopra.

 

Luigi cominciò a tempestarla di biglietti, sempre più coraggiosi; lei, sì, stava al gioco, ma si mostrava sempre la stessa, indecifrabile. Un giorno che s’era sporto più del dovuto per lanciare un biglietto, Luigi rischiò di cadere di sotto. Riuscì ad aggrapparsi all’inferriata all’ultimo momento, ma per fortuna se l’era cavata con un dente scheggiato.

Rientrato stanco dal lavoro, il padre, messo al corrente dell’accaduto, si arrabbiò. I biasimi del padre misero fine alla corrispondenza amorosa: pochi mesi più tardi, la famiglia di Giovanna andò a vivere in una città del nord, dove il padre era stato trasferito.

 

DEDICHE ALL’ATTORE

 

Nino Agnello, poeta, scrittore, saggistaGrande Finale

di Nino Agnello

 

Voce gesto corpo

Grido d’anima che se ne va

dietro le quinte di palcoscenico astrale.

 

Noi qui, astanti smarriti,

pronti a recitare l’ultimo atto

del suo capolavoro – la vita vissuta –

appena ricompare in punta di piedi

il regista, lui

l’eterno Liolà della Valle.

 

Siamo già coro compatto all’applauso,

al grande finale che l’incoroni

Maestro del dramma

che resta tutto per noi.

 

Lodi

a lui che ci precede,

a noi

il rimpianto dell’incompiuta

ultima cena in comune.

 

Università St.Andrews (Scozia) Lezione Sulla scena vuota

 di Ubaldo Riccobono

 

Sulla scena vuota

– dove parole erompevano

ed erano applausi

dalla platea formicolante –

la recitazione è conclusa.

 

In un’eco sonora

soltanto il ricordo

può effondersi ora

e durare in eterno.

 

Un marzo avaro di primavera

chiude il sipario di una vita

ma il tempo non potrà cancellare

nei cuori il Sogno dell’attore.

 

 

 

BIOGRAFIA DELL’ATTORE

 

Pippo Montalbano nasce ad Agrigento l’1 febbraio 1940. Esordisce a 14 anni, con "Pinocchio" di Collodi. Con alcuni amici fonda, nel 1963, la Compagnia di Prosa "Maschere Nude" che, nel 1965, è diventata la cooperativa ‘Piccolo Teatro Pirandelliano Città di Agrigento’ e nel 1989 ‘Piccolo Teatro Città di Agrigento’.  Dal 1 aprile 1968 al 30 aprile 2004 presta attività lavorativa presso l’INPS di Agrigento.
I registi teatrali e cinematografici con i quali ha collaborato sono:
Filippo TORRIERO, Ruggero JACOBBI, Emanuele PAGANI, Francesco ROSI, Giuseppe DI MARTINO, Andrea CAMILLERI, Gianni SALVO, Guglielmo FERRO, Silvio BENEDETTO, Marco PARODI, Fernando BALESTRA, Pino PASSALACQUA, Josè Maria SANCEZ, Alessandro DE ROBILANT, Marco Tullio GIORDANA, Roberta TORRE, Alberto SIROLI, Fabrizio CATALANO SCIASCIA, Giulio BASE, Graziano DIANA.

Principali rappresentazioni teatrali:

Luigi PirandelloDi Luigi Pirandello: LIOLA’, nei panni del protagonista dal 1973 al 1993, con quattro diverse edizioni e regie. Con l’edizione del 1976, della quale ha curato anche la regia, ha vinto il 2° premio al festival nazionale d’arte drammatica di Pesaro. Con l’edizione del 1986, con regista Gianni Salvo, ha vinto il premio come migliore attore protagonista della 4^ rassegna ‘Teatroclassicoggi’ di Mantova, anno 1992. Nel 2005, in una nuova messa in scena presentata alla XXXIII settimana Pirandelliana, ha interpretato il ruolo del co-protagonista don Simone.
CAPPIDDAZZU PAGA TUTTU di Pirandello-Martoglio, nel ruolo del protagonista don ‘Nzulu con la quale, nel 1985, ha vinto il festival nazionale d’arte drammatica di Pesaro.

Sempre di Luigi Pirandello ha interpretato:
COSI’ E’ (SE VI PARE), in tre diverse edizioni e, rispettivamente nei ruoli del consigliere Agazzi, del signor Ponza e di Lamberto Laudisi.
IL BERRETTO A SONAGLI, in quattro diverse edizioni e regie (alcune delle quali hanno previsto l’utilizzazione del testo dialettale ‘A BIRRITTA CU I CIANCIANEDDI dello stesso autore) nel ruolo di Ciampa.
PENSACI GIACOMINO, in tre diverse edizioni e regie.
‘A LA CALATA D’O SULI, della quale ha curato elaborazione testi e regia.
LA SAGRA DEL SIGNORE DELLA NAVE, in tre diverse edizioni e regie.
L’UOMO, LA BESTIA E LA VIRTU’, in due diverse edizioni e regie.


E ancora:


MA NON E’ UNA COSA SERIA – LA NUOVA COLONIA – LUMIE DI SICILIA – LA GIARA – LAZZARO – IL GIOCO DELLE PARTI – ‘U CICLOPU – VESTIRE GL’IGNUDI – IL PIACERE DELL’ONESTA’ – ‘A VILANZA di Pirandello/Martoglio

Interpretazioni di autori vari:
IL TEATRINO DI DON CANDELORO da G. Verga di Maricla Boggio
Leonardo SciasciaL’ONOREVOLE di Leonardo Sciascia in tre diverse edizioni e regie
IL RE MUORE di Jonesco
IL MARCHESE DI RUVOLITO – SAN GIOVANNI DECOLLATO di Martoglio
NOZZE DI SANGUE di Federico Garciaa Lorca
LA LUPA di Giovanni Verga
IL CAMALEONTE di Lo Presti
EUFROSINA di A. Zaccaria
SABATO, DOMENICA E LUNEDI’ di Eduardo De Filippo
IL VITALIZIO da Pirandello di Andrea Camilleri, in due diverse edizioni e regie
IL BELL’ANTONIO da Vitaliano Brancati, di Antonia Brancati – con Paolo Calissano e Guia Jelo
IL GIORNO DELLA CIVETTA da Leonardo Sciascia, di Gaetano Aronica – con Giulio Base e Milena Miconi – Regia di Fabrizio Catalano Sciascia. Con questo testo sono state effettuate due importanti tournèe invernali, nei mesi di gennaio/marzo del 2006 e del 2007, recitando nei più importanti teatri italiani.
MALERBA E LA LUPA di G. Volpe (da LA LUPA di G. Verga) nel ruolo di Malerba.
LUNA PAZZA da L. Pirandello di e regia di Gaetano Aronica, con Daniela Poggi.

 

Esperienze televisive e cinematografiche:

Anno 1974 – LE CHAMIN DE LA CROIX per conto della televisione nazionale francese, canale 2 di Marsiglia
Anno 1978 – LA MANO SUGLI OCCHI, tre puntate su RAIDUE, sceneggiato tratto dal Romanzo di A. Camilleni “Il corso delle cose”. Protagonisti: Leopoldo Trieste, Ida Di Benedetto, Massimo Mollica, regia di Pino Passalacqua
Anno 1982 – WESTERN DI COSE NOSTRE, tre puntate su RAIDUE, con Domenico Modugno, Raimond Pellegrin, regia di Pino Passalacqua
Anno 1993 – IL GIUDICE RAGAZZINO, con Giulio Scarpati, Sabrina Ferilli, regia di Alessandro De Robilant
Anno 1995 – UNA MADRE INUTILE, con Leo Gullotta, Athina Cenci, regia di Josè Maria Sanchez
Anno 1999 – I CENTO PASSI, con Tony Sperandeo, Luigi Burruano, Luigi Lo Cascio e la regia di Marco Tullio Giordana.
Il film, presentato alla 52^ mostra del cinema di Venezia, ha vinto il Leone d’oro per la migliore sceneggiatura ed è stato scelto per rappresentare l’italia per l’assegnazione dell’oscar del 2001. Ha vinto cinque “DAVID DI DONATELLO” nel 2001. il film è stato proiettato in tutte le più importanti sale italiane ed estere ed è stato e continua ad essere trasmesso da tutte le televisioni italiane ed internazionali. Viene utilizzato, spesso, per arricchire incontri e dibattiti sulla legalità e contro la violenza mafiosa.

Andrea Camilleri Anno 2000- “TOCCO D’ARTISTA” dalla serie del “Commissario Montalbano” di Andrea Camilleri, regia di Alberto Siroli, con Luca Zingaretti, trasmesso da RAI/DUE in prima serata, il 16.05.2001, e più volte replicato.
Anno 2001 -“ANGELA”, per la regista Roberta Torre, film che ha partecipato al Festival del cinema di Cannes del 2002
Anno 2002- “LA MEGLIO GIOVENTU”, con Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, regia di Marco Tullio Giordana. Il film ha partecipato al festival di Cannes del 2003, vincendo il premio speciale “un certain regard”. Ha anche inaugurato la 50^ edizione del film-festival di Taormina il 7 e l’8 giugno 2003.
Anno 2005- “TAROCCHI DI SANGUE”, dalla serie “DON MATTEO”, trasmessa da RAI/UNO, in prima serata, il giorno 1 febbraio del 2006, con Terence Hill, Nino Frassica, Flavio Insinna, regia di Giulio Base. L’episodio è stato replicato, su RAI/UNO, il 01.07.07 ed il 26.08.08.
“THE INQUERY”, film storico-religioso ambientato al tempo di Gesù Cristo. Girato in lingua inglese tra la Tunisia e la Bulgaria, cooproduzione Italo-Americana con Daniele Liotti, Monica Cruz, Ornella Muti e il Premio Oscar Murray Abraham, due puntate trasmesse da RAI/UNO il 2 e il 3 aprile 2007, in prima serata.
Anno 2006- “MARASCIA’…un eroe antimafia”,nel ruolo del maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso dalla mafia nei 1989. E’ stato realizzato un DVD distribuito in Italia dall’Assoc. Culturale “Dietro le quinte”.
Anno 2007-“UNA VITA RUBATA” film tratto da un fatto di cronaca con protagonista Beppe Fiorello e la regia di Graziano Diana. Il film è stato trasmesso da RAIUNO, in prima serata, il 10.03.08.

 

Riconoscimenti

 Pippo Montalbano 2007, Premio Sikelè

1976: premio “LA ROSA DI PESARO” al 29° festival nazionale d’arte drammatica.
1985: premio “LA ROSA DI PESARO” al 38° festival nazionale d’arte drammatica.
1987: premio “MASCHERE NUDE”, 3’ edizione, comune di Porto Empedocle.
1988: premio speciale “LA TORRETTA D’ORO” città di Grotte.
1988: premio speciale “CIULLO D’ALCAMO” come migliore attore protagonista nel ruolo di LIOLA’ al teatro di Alcamo.
1992: premio speciale come migliore attore protagonista alla rassegna nazionale “TEATROCLASSICOGGI” di Mantova.
1992: premio speciale “SCENA” alla carriera, comune di Zafferana Etnea.
1997: premio “PIRANDELLO NEL CUORE”, comune di Porto Empedocle.
1998: premio “SALVO RANDONE” come migliore attore protagonista nel personaggio di Marabito del “VITALIZIO”, al 6° festival nazionale teatro di base città di Sciacca.
1999: premio “EURAKO ’99”, come migliore attore protagonista, nel ruolo di CIAMPA de “Il berretto a sonagli”, a Termini Imerese.
1999: premio speciale alla carriera “TELEACRAS-PUNTO FERMO” Agrigento.
2001: premio “ALESSIO DI GIOVANNI” per i successi teatrali e cinematografici.
2001: premio internazionale “CAOS” 2001 per tutti i personaggi pirandelliani a cui ha dato vita e vigore e per essere l’unico attore sempre in scena in tutte le 28 edizioni della “SETTIMANA PIRANDELLIANA”.

2007: Premio Sikelè per il teatro

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31 giovedì Lug 2008

Posted by ubaldoriccobono in Senza categoria

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cantina la torre, carbone, dalessandro, dialetto siciliano, letteratura - articoli, pirandello, poesia, racalmuto, sciascia, vino


VINO & LETTERATURA

Racalmuto, Cantina La Torre

Logo Cantina La TorreMai titolo è stato più indicato per l’evento culturale svoltosi la settimana scorsa all’interno della Cantina Sociale “La Torre” di Racalmuto, con la presentazione di due libri, una silloge poetica in dialetto di Piero Carbone, “Pensamenti” (Coppola editore, € 7,50) e un racconto lungo di Nicolò D’Alessandro, “Buagimi, un’estate” (Coppola editore, € 7,50), presentato dallo scrittore Alfonso Gueli con letture di Lia Rocco, attrice del Piccolo Teatro Pirandelliano. E’ stato un battesimo felice tra il vino e la letteratura, elementi che in Racalmuto trovano addentellati fortissimi. Non a caso Leonardo Sciascia, memore dei meriti agricoli del suo paese e della prolificità dei suoi vigneti, che danno  vini generosi, intitolò una delle opere più note: “Il mare colore del vino”. Ma un altro legame dello stesso segno esiste per la cantina La Torre, che sorge nella contrada Montagna, zona di miniere, una delle quali, in quota parte, Caterina Ricci Gramitto portò  in dote a Stefano Pirandello, padre dello scrittore premio Nobel, Luigi, con atto del 15 novembre del 1863.

Contratto di Dote genitori di PirandelloContratto di Dote genitori di PirandelloE’ un polo letterario di primo livello, quello di Racalmuto, arricchito da una cultura enologica di grande spessore, i cui vini sono ricordati da Sciascia in diverse opere (ad esempio Il contesto). Giustificata appare, quindi, la ferma volontà dell’ingegnere Angelo Cutaia, presidente de “La Torre”, di fare della cantina un luogo fisso d’incontro per eventi culturali, in un paese dove insistono il Parco Letterario e la Fondazione “Leonardo Sciascia, un Castello chiaramontano, completamente restaurato, un Teatro dell’Ottocento, chiese e conventi e altri monumenti notevoli. Tutto parla di Leonardo Sciascia in questa cittadina della Ragione, come giustamente è stata definita.

“PENSAMENTI”

di Piero Carbone

 Silloge in dialetto

Alla ricerca del dialetto perduto

 
Piero Carbone E’ toccato al sottoscritto l’onore di presentare la raccolta poetica, Pensamenti, di Piero Carbone (con letture dell’ottimo Giovanni Sardone, Presidente del Piccolo Teatro Pirandelliano): 60 poesie in dialetto racalmutese che abbracciano prevalentemente il periodo tra il 1980 e il 1990.. Ed è stata per me una fortuna, perché in prima battuta mi sono sentito trascinato nel crogiuolo della questione letteraria della lingua italiana. Piero Carbone, uno studioso e profondo conoscitore della sua Racalmuto, ha compiuto con l’ausilio del linguista Salvatore Trovato, ordinario di Linguistica generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, una grande operazione di recupero del dialetto racalmutese originario, che quasi s’identifica con il dialetto di Girgenti, definito da Pirandello nella sua tesi di Bonn (Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti) la parlata più pura, più ricca di suoni, più vicina alla lingua italiana.

Diploma di laurea di PirandelloE’ vero che ogni dialetto, secondo il Premio Nobel, ha suoni e sviluppi di suoni, ma quello di Girgenti ( ed anche quello di Racalmuto quasi identico, salva qualche dittongazione con taluni strascichi) concorse più degli altri alla formazione  della lingua italiana. Il Professore di filologia Pirandello – è il caso di dirlo – non si sottrasse alla polemica sulla “vexata quaestio” della Lingua, chiamatovi obtorto collo per rivendicare inoppugnabilmente l’importanza, in quel contesto, della Lingua Siciliana. Avere restituito, quindi, al dialetto di Racalmuto la sua originalità e la sua primitiva purezza, costituisce un risultato di valore assoluto nell’ambito degli studi linguistici e si colloca, rinverdendoli, nel solco delle elaborazioni filologiche pirandelliane. Quanto alla sostanza, il titolo “Pensamenti” la dice lunga sul significato linguistico dell’opera. Pensamento è un termine plurisignificato, quasi filosofico-evocativo, usato spesso dai poeti eccelsi in varie accezioni. E Carbone lo usa “ex professo”, come lui stesso spiega nel Preambolo dell’opera: 

Trovo segnato nei manoscritti che questi pensamenti poetici, così detti per gli echi e i sentori cui alludono (“piensa el sentimiento, siente el pensamiento”), sono quasi tutti datati nel decennio che va dal 1980 al 1990, solo alcuni precedono o seguono tale periodo: A lu Castiddruzzu è il più antico, Era ura! il più recente. Quelli qui pubblicati esemplificano la scrematura, nel numero, e nella forma, di quattro potenziali raccolte inedite ritrovate. Parecchie poesie sono state pubblicate su periodici e hanno partecipato e vinto premi, sono state recitate in pubblici consessi. Poi me ne sono allontanato.

A distanza di anni, nel bel mezzo di occupazioni  – o distrazioni – pratiche, m’è venuta voglia di rileggerle, col vivo desiderio di rinfrancarmi l’animo rievocando antichi trasporti; solo in parte, ovviamente, mi sono ritrovato in sintonia con l’antico sentire, ma ho raggiunto ugualmente lo scopo.

Col senno di poi, riguardo ai contenuti, penso che così come il ghiotto prende a mani nude un favo e ne fa colare il miele in un barattolo, io ho preso da Seneca, da Unamuno, da Bequer, da Félipe, da Prévert e tentato di far trasmigrare il loro frutto nel musicale dialetto siciliano, racalmutese in particolare: nel leccarmi le dita ricolme di miele, il sentimento loro ho immaginato fosse il  mio. E continuo ad immaginarlo.

Riguardo alla forma linguistica, ho cercato di temperare le incertezze ortografiche di allora discutendone col mio amico Salvatore Trovato. Non volevo accodarmi alla riottosa schiera di coloro che incrementano l’anarchia ortografica spacciandola per libertà. Per venire incontro alle difficoltà che incontrano i poeti nella scrittura del dialetto, il prof. Trovato auspica da anni l’uniformità grafica del siciliano. Speriamo voglia darci al più presto un manualetto di ortografia. Intanto, seguendo il consiglio dell’amico linguista di non appesantire visivamente la pagina con formicolanti segni diacritici e apicetti vari non riconosciuti – tra l’altro – dal computer, accetto volentieri le seguenti sue proposte, che faccio volentieri mie, puntando su un tipo di trascrizione che dia rilievo alle singole parole del siciliano, su una trascrizione cioè di tipo morfematico, piuttosto che fonetico.

Il lettore, intanto, resti avvertito che la tavola qui di seguito riportata dà conto della pronuncia dei grafemi adoperati e rende conto di alcune alterazioni fonosintattiche:

<ddr> trascrive l’affricata prepalatale sonora forte, tipica di Racalmuto e di parecchi dialetti della Sicilia centroccidentale, come ad es. in cavaddru, beddru, iddru, gaddru ecc.;

<hi> seguito da vocale trascrive la fricativa postpalatale sorda, tipica dei dialetti della Sicilia centrale, come ad es. in hiatu ‘fiato’, hiuri ‘fiore’, hiascu ‘fiascu’ ecc.;

<j> si pronuncia quasi come una /i/, ma non è una vocale vera e propria, ma quasi una consonante. Essa, quando è preceduta da n o da elementi che provocano rafforzamento fonosintattico dà luogo ai seguenti processi fonologici: un juornu da leggere ugnuornu, un jitu da leggere ugnitu, un judici da leggere ugnùdici e ancora pi jucari da leggere pigghjucari, pi jiri da leggere pigghjiri e jiva ‘e andava’ da leggere egghjiva ecc.

Quale lingua si scrive esattamente come si pronuncia e non presenta regole per una corretta lettura del suo sistema ortografico?

Pensamento è, intanto, il cogitamen latino, come lo intese Dante in chiusura del Canto XVIII del Purgatorio:

“Che gli occhi di vaghezza ricopersi

e il pensamento in sogno trasmutai”

Pensieri vaghi e vani che fanno passare dalla veglia al sonno. Ma pensamento significa anche: “contemplazione, meditazione” (Collazione dei Santi Padri); “divisamento, accordo, trattato” (Guido Giudice delle Colonne, messinese, 1200); “affanno, cordoglio, travaglio” (Pietro Bembo). Nel canto del poeta ci sta tutto questo, perché egli sa che limitata è la sua stagione poetica: chi canta non può essere certo che la sua voce sarà ascoltata:

 

Canta lu pueta

Canta lu pueta

– pirchì canta? –

si canta

unn arricampa nenti,

prima ca nascissi

un lu sintieru

e fra cent’anni

nuddru cchjù lu senti.

 

Questo dubbio, questo straniamento esistenziale, Carbone l’ha assimilato da un suo concittadino illustre, Giuseppe Pedalino  Di Rosa, genuino poeta dialettale racalmutese dimenticato e, soltanto di recente, accomunato a Ignazio Buttitta, nel gemellaggio Bagheria-Racalmuto. A lui Carbone, come rivalsa, dedica l’intera Silloge. Ma il dubbio è insito nella poesia dialettale, considerata spesso, a torto, figlia di un Dio minore? A fugare ogni equivoco sta, a mo’ di protasi, l’esergo che precede la prima parte della raccolta, un brano esplicito sulla rivendicazione della piena validità del dialetto, tratto da Gli anni perduti di Vitaliano Brancati:

 

“Ecco, bene, professore! Fateli convinti, una buona volta,

che l’essere autore di poesie dialettali

non è un disonore per nessun galantuomo”

 
Il dialetto, cantato, per secoli è stato memoria popolare e anche difesa civile nell’assumere certi atteggiamenti di fronte agli eventi storici. Esso ha impregnato di sé la vita familiare, i rapporti civili, commerciali, sociali; il dialetto poetico è stato il giusto punto di riferimento del concetto di giustizia e di onestà. Il dialetto, all’origine, è una creatura in cui convergono i pensieri di tutti, che circolano e si diffondono per un mutuo scambio d’interessi umani.
Racalmuto Castello ChiaramontanoLa poesia dialettale, quindi, vuol dire ritrovare le radici, i luoghi, le persone e le memorie di un tempo, che mai possono essere cancellati. In tal senso, la poesia di Carbone è dialetto d’invenzione, alla maniera con cui Sciascia intendeva la parola invenzione (dal lat. invenio, trovare). Carbone, prima che in se stesso, ritrova, nei luoghi e negli altri, il suo canto. Egli è un “canta-storie” privilegiato ed eccellente delle cose della sua Racalmuto e della sua gente, che ritrova e racconta.

 

A lu paisi 

Ogni tantu tuornu a lu paisi

e viegnu a truovu sempri carti scritti,

mpiccicati n cantunèra di li casi,

Camìnu nni la chjazza, e cosa viju?

Sulu carti di muorti, e tiempi antichi.

Caminu, e l’uocchji sempri ddrà mi vannu:

unni cci su li nomi di l’amici.

Eramu na chenca burdillara.

Eramu na rocchja schiticchjara.

Ora sugnu

comu ntre dicièmmiri la nuci:

si lu vientu tanticchja l’arrimina

si scoddra di la rama

e si mpussuna.

 

 A lu Castiddruzzu

 
Bieddru castieddru miu ca ti scurdaru

n capu na muntagnola abbannunata

d’un circu russu lu suli a lu scurari

ti circunna e mpacci lu paisi po’ taliari.

Seculi, dimmi, quantu nn’ a’ sfidatu

cu ssi macigni di rocchi a sustintari,

supirchjarii quantu n’ a’ vidutu

nni ddru paisi ca ti voli scurdari

Sicuru e fermu, livatu ni l’antu,

tu sienti lu vientu hiuhhiari e quarchi

rocca chi ddra ssutta sempri cadi.

Ancora, bieddru miu, ca ncapu a’ stari

comu n’aquila cu l’uocchji grifagni

chi accuvacciata ncapu lova av’ a cuvari.

 1975

 

Luna e scrusciu di carrettu

 
Nni la notti na lanterna

s’arrimina di luntanu.

Canta un cori vacabunnu

na canzuna senza suonu.

Nni la coffa cc’ è attaccatu

un canazzu e va abbajannu.

Canta, penza, avi pi liettu

luna e… scrusciu di carrettu.

 

 Cantava lu minaturi

 Cantava lu minaturi,

lu so cantu

si pirdiva

nni li vudeddra di la terra.

 

La seconda parte della silloge, Carbone la intitola “Malapinsera”, ma non nel significato riduttivo di cattivi pensieri, ma piuttosto nel senso di pensieri di un male sociale diffuso, del quale il poeta non può non prendere atto. La dedica all’abate Giovanni Meli, il sistematore della lingua siciliana eccellente, testimonia la consapevolezza  delle cose come stanno e del male dell’Isola, ma rappresenta anche il coraggio del poeta di voler attingere l’esempio da chi, prima di lui, ha lottato e ha fatto grande il dialetto siciliano con sentimento e verità.

 Oh, Meli, Meli!

 E l’Abbatuzzu

rigorda e amminazza

la so palora è chjù forti di na mazza:

riji lu jtu, ccu iddru un ci la puonnu

pirchì scrivi li cosi comu stannu.

Oh, Meli, Meli!

di seculu sbagliasti:

lu to giudiziu ci vurrissi ancora.

Oh, Meli, Meli!

scunzulati siemmu

pirchì sbagliammu e mancu lu sapiemmu.

 

 

Li cosi comu stannu

 
Scrivu li cosi chi viju comu stannu,

curpa nun aju si sunnu comu sunnu.

Chissa è la zita, sutta nun cc’è ngannu,

spissu lu dicu dispostu a jiri n funnu.

Sciancata, senza dota, ngrasciatuna.

Mischinu ddr’ omu chi scunta  ssa pena:

nguaiànnusi na ciavula e la mprena.

 

L’arrivo del Papa Giovanni Paolo II in Sicilia (20 e 21 novembre 1982) è un momento di riflessione umoristica.

Vinni lu Papa

 Vinni lu Papa e fici un gran casinu,

vinni lu Papa e fu gran pompa magna,

vinni lu Papa duoppo tanti inviti,

mièritu nn’appi Totò lu Cardinali.

Vinni lu Papa e vinni vulannu,

di l’alicottiru jiva binidiciènnu,

e ppi li strati strati di Palermu

cci fu na fuddra enormi a mari magnu.

“Si vidi” “Nun si vidi” “Unn’ammuttati”

“Figli di… bona matri, lu mè caddru”

“Viva lu Papa!” “Cumpari n cantunera”.

Lu Cardinali, ncapu a la Land Rover,

secunnu mia avia sti pinzera,

stannu a la dritta a hiancu di lu Papa

(di cuntintizza lu cori ci scuppiava):

“Tal’è chi fuddra, nun mi l’aspittava!

Parinu surdi comu li campani

quannu ci dicu:’Fratelli, jiti in chjesa’,

e ora sunnu ccà a battiri mani.

A’iu fussi Papa, ssa festa fussi mia,

e a latu avissi stu babbu di Woitila”.

La festa durà un juòrnu, cchjù o menu,

ma duoppu tanti applausi e fistini,

iu m’addrumannu:”E ora chi nn’arresta?”

Sulu li marciapeda senza crusti,

barcuna rutti vistuti di stoffa

e quarchi strata secunnaria senza scaffa.

Un disidderiu mi resta ancora a fari:

ca, si per casu, Santità, scinniti arrieri,

e passiriti lu Strittu ncapu un Ponti,

ssst! un lu diciti, scinniti a l’ammucciuni,

ccussì viditi, senza suonu e banna,

n mani a cu sièmmu.

 E comu nni cumanna.

 

(Versi composti in occasione della storica venuta di Papa Giovanni Paolo II a Palermo il 20 e 21 novembre 1982. Grande fu l’aspettativa. Si acrisse sui giornali, ci furono convegni, le strade vennero transennate. Ho immaginato subito una seconda venuta perché la prima non svanisse come una folata, come svanirono le chilometriche transenne, rastrellate dai magri rivenditori di ferro vecchio, nella stessa notte della sua partenza.)

 
Ma il poeta non deve demordere, il poeta ha un ruolo importante, decisivo e non deve mai abdicare, anzi deve stimolare e sollecitare. E’ questo il messaggio conclusivo ed esaustivo di Piero Carbone, in tempi contrassegnati dall’impoeticità della società.

 

Forza, Pueta, nun t’arritirari

 
Forza, Pueta, nun t’arritirari,

dìcila la palora ca ci voli,

jùdici un sì e ti tocca giudicari:

cu unn’è pueta, mancu na vota

voli scanciari vinu ppi cicuta.

Cunnanna a tutti, si tu sì Pueta:

lu culuri d’un partitu o di na chjesa

nun esisti prima di spintari

o si spìccica duoppo ca si mori,

e resta sulu l’omu, tali e quali.

Cunnanna a tutti l’uomini birbanti

chi scancianu putiri ppi putìa,

lu travagliu ncapu l’antri ppi passìu

e li spirpanu puliti comu pira.

Scìppali li zzicchi di li cani.

Cunnanna a chiddri, tu, ccu du’ palori,

ma palori di chiddri scucìvuli,

chi fannu nvirdicari tanti uòmini

o li stravijanu ppi terra e ppi mari

comu un paraccu na tana di furmiculi.

Cumanna a tutti, Pueta di la terra,

cunnanna a tutti, Pueta di l’uomini,

l’uocchji un t’attuppari.

La virità è di cu la voli vidiri.

A cu sbaglia pùddracci la frunti,

spàragna sulu cu ppi l’antru mori.

 

BIOGRAFIA
Piero Carbone è nato nel 1958 a Racalmuto. Vive a Palermo dove insegna nella scuola media. Tra il 1985 e il 1987 ha ideato e realizzato Zmaragdos e nivuretta, due spettacoli di cultura etnografica. Ha curato una serie di mostre di artisti siciliani e i suoi testi figurano in numerose edizioni d’arte. Collabora con giornali e riviste. Nel 1996 a Pierrefeu du Var, in Provenza, è stata realizzata la mostra fotografica Lune sicilienne, ispirata al suo libro di poesie La luna. Nell’ambito del “Festival Italia 1997” ha tenuto a Stuttgart un recital di brani tratti dalle sue opere. Con il racconto breve “Dieci passi avanti, dieci passi indietro” ha vinto nel 2001 il premio di narrativa inedita “pordenonelegge.it”. Tra le sue opere: A lu raffu e Saracinu, Storia pi cantastorii (lavoro e altro nei luoghi d’acqia racalmutesi), Sicilia che brucia, Il mio Sciascia, Notturno in via Atenea, Il giardino della discordia – Racalmuto nella Sicilia dei Whitaker.

 

“A Buagimi un’estate”

Racconto di Nicolò Dalessandro

 Nicolò D’Alessandro, ritorno alle origini

 

Nicolò DI ricordi affiorano a sprazzi, ad ondate successive, sono immagini concrete che balzano dalle parole, fanno vedere e s’impressionano sulla retina. Così comincia un’estate di fanciullo, rivista attraverso l’adulto, che racconta e si racconta e fa scoprire un mondo sommerso nell’anima, un mondo che riemerge imperioso, conosciuto da ogni fanciullezza. Sono tanti quadri, come finestre aperte nel passato di ognuno, quelli ricostruiti da Nicolò D’Alessandro, non a caso pittore e grafico di talento.
Gìà dall’incipit si evince quella che l’Editore-Prefatore Salvatore Coppola definisce “il richiamo della memoria”: in senso sciasciano oseremmo dire, perché la scrittura per Sciascia era essenzialmente memoria, dei primi dieci-dodici anni di vita.

“Bagascia, gridò con quanto fiato aveva in gola. Sei una lurida bagascia! Faceva sempre così, quando non aveva a portata di mano soluzioni ai problemi che non poteva risolvere. S’accalorava improvvisamente e sputava fuori tutto il contrario di ciò che realmente pensava. E lo tirava fuori con rabbia. Una violenza così sprezzante e spropositata, da far paura. Proprio così: paura.

Bagascia, continuò a gridare a squarciagola, paonazzo e sudato. Gesticolava e sudava e l’impressione più immediata, per chi gli stava accanto, era che stesse lì lì per esplodere.

E’ proprio riandando a quel lontano giorno in cui G. gridava come un ossesso che gli sovvenne il volto di quella dolcissima ragazzina, l’oggetto di tanto accalorato furore giovanile, di così disperata rabbia. Gli tornò in mente anche lo stupore di quella ragazzina e di quegli occhi che esprimevano tutto. Timore, anche.

Trascorse quell’estate caldissima ed assolata nella campagna di Buagimi. Legato all’immenso carrubbo, vicino al grande casotto, chiamavano l’asino. Camillo alzava la testa, muovendo sempre la coda per allontanare le mosche che lo assediavano, rispondendo al loro petulante richiamo.”

Luigi Pirandello Nicolò D’Alessandro si muove in questo suo agile racconto tra Pirandello e Sciascia. E’ al Pirandello, scrittore di cose e non di parole, cui egli s’ispira. Le sue parole sono piene, concrete come pennellate di una tela, a dipingere in modo variegato una lunga estate, tra timori e tremori, desideri e paure, sogni e realtà, in una campagna che si apre alle prime insidie della vita, all’aspirazione del fanciullo a fare cose d’adulto, illudendosi così di diventare adulto. I ricordi di un’estate che si allargano a tutta una fanciullezza, arrivata a un punto di snodo, con l’illusione di poter diventare ricchi con il tesoro di Businè.

“Qualcuno sosteneva che dentro la collina da sempre fosse nascosto un tesoro, così grande che sarebbe bastato da solo a rendere l’isola ricca per sempre. Ed ancora le nonne ai nipoti, in paese, dicono che ogni sette anni la montagna si apre e chi, per caso, si trova a passare vede una grande luminosa fiera dove il fortunato può acquistare con pochissimi centesimi immense ricchezze poiché tutto ciò che si vende è in oro puro. Preziosissimo.”

Sono i sogni dell’infanzia dei popoli di vichiana memoria, la fantasia che trasforma la dura realtà del mondo contadino, fatto di lavoro e di fatica, di povertà e di aridità, dove però tutto può apparire magico agli occhi dei ragazzi, per i quali nulla è proibito, giacchè vanno alla ricerca di sensazioni forti, e perfino di scherzi crudeli.
Non manca, come saldatura dei vecchi e dei giovani, la sentenziosa saggezza popolare che trapassa di padre in figlio in modi proverbiali.

 

“Nenti fari ca nenti si sapi"  (Non fare niente, che niente si saprà)

 

"Calati juncu, chi passa la china" (Calati giunco che passa la piena)

 

"Si vo’ passari la vita cuntenti statti luntanu di li tò parenti" (Se vuoi passare la vita contento stai lontano dai tuoi parenti).

 

"Ccu amici e ccu parenti ‘unn’accattari e ‘un vinniri nenti" (Con amici e con parenti non comprare e non vendere niente)

 

"Lu tempu assicuta lu tempu" (Il tempo insegue il tempo)

 

"Prestu, prestu, ca la cira squagghia" (Presto, presto, che la cera squaglia)

 

"Dissi lu surci alla nuci: dunami tempu quantu ti perciu" (Disse il sorcio alla noce: dammi tempo che ti buco)

 

"L’anni passanu supra di nui" (Gli anni passano sopra di noi)

 

"Bonu tempu e malu tempu nun dura tuttu u tempu" (Buon tempo e mal tempo non durano per sempre)

 

"Ogni beni di la campagna veni" (Ogni bene viene dalla campagna)

 

E’ un mondo  di suoni, di rumori, di canti, di versi, di odori, di sapori, di paure e di allegrie.

“Suoni, canti e latrati di cani festeggiavano la vita in campagna a Buagimi. Per tutto il pranzo. Sotto il grande carrubbo grosse angurie rosso acceso, gonfie d’acqua promettevano refrigerio e ulteriore allegria… La mandola, il violino e le chitarre segnarono, quel giorno, con genuina spensieratezza campagnola il canto di tutti i commensali…”

Un’estate trascorsa da fanciulli attraverso esperienze positive e negative, con la confusa percezione di diventare adulti, scoprendo la pubertà. Una parentesi di vita, che si apre e si chiude a comando come un sipario, ma sempre a disposizione e fruttuosa nel difficile percorso di crescita giovanile. Ma anche un mondo che non esiste più, sepolto da questi tempi avari e restii, e di cui sentiamo nostalgia. Un testo poetico – l’ha definito  lo scrittore Alfonso Gueli –  che si legge d’un fiato e si gusta come mille quadri di una mostra .

 Nicolò D

BIOGRAFIA
Nicolò D’Alessandro nasce a Tripoli da genitori siciliani nel 1944. Vive a Palermo. Partecipa alla vita artistica italiana dal 1961 esponendo per invito a numerose collettive nazionali ed internazionali in Italia e all’estero. Dal 1963 ha tenuto novanta mostre personali e oltre centottanta collettive su inviti di gallerie, enti ed istituzioni. Vastissima la bibliografia. Molto è stato scritto  sul suo lavoro in Italia e all’estero. Numerosissime le pubblicazioni, ricordiamo tra le più recenti: Tra etica ed estetica; Il gioco delle apparenze; Passeggiata nei territori immaginativi, Del perdere la testa, a proposito di alcune fotografie.


Ubaldo Riccobono

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

13 domenica Mag 2007

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LEONARDO SCIASCIA


Leonardo Sciascia

                                          

Il mare colore del vino

Durante la produzione letteraria, Leonardo Sciascia amava abbandonare, di tanto in tanto, il suo ruolo di lucido razionalista, per vestire panni, per così dire, “artigianali”, lasciando parlare la sorgiva del cuore. Ciò avveniva, soprattutto, allorquando sentiva l’urgenza e la necessità di rifugiarsi nella sua isola-paese, microcosmo che gli serviva a stemperare le ansie e le tensioni. Non era evasione però la sua, perchè Leonardo Sciascia era sempre combattente scomodo, mai domo, avvezzo e consapevole che la competizione tra dominatori e dominati, tra forti e deboli, tra prevaricatori e agnelli sacrificali, sarebbe stata incessante, fino alla fine dei tempi. E non esitava ad affrontare, malgrado tutto, le battaglie chisciottesche contro i mulini a vento. Si rifugiava, quindi, in quel mondo (Racalmuto e la campagna della contrada “La Noce”) che aveva il pregio di stimolare la sua memoria, che diveniva più pronta, prensile, viva nel far riemergere la sua fanciullezza. Diceva sempre, il maestro di Regalpetra, che “si è come si è stati nei primi dieci anni della vita” e, siccome “la scrittura è memoria”, lasciava che i ricordi, il sentimento affiorassero quasi naturalmente. Certo, il linguaggio era quello scaltrito con l’operazione di togliere parole, piuttosto che aggiungerne; ma il sentimento e l’umorismo, il rimpianto contenuto, la memoria rimossa, tutto ciò era la materia viva e incandescente del suo cuore, che si traduceva con immediatezza in versi e racconti. Poeta di parole era Leonardo Sciascia e novelliere finissimo, dal tocco di mano carezzevole e suadente.
Tra il 1959 e il 1972 aveva scritto i racconti: Reversibilità, Il lungo viaggio, Il mare colore del vino,  L’esame, Giufà in Sicilia, La rimozione, Filologia, Gioco di società, Un caso di coscienza, Apocrifi sul caso Crowley, Western di cose nostre, Processo per violenza, Eufrosina, e altri – pochi – ancora. Quelli menzionati decise di raccoglierli in un libro, cui diede il titolo Il mare colore del vino, raccolta che rappresenta “un sommario della sua attività” con carattere di circolarità, ma di “una circolarità che non è quella del cane che si morde la coda”. Di questi racconti, tutti belli e rappresentativi – cioè di uno Sciascia “maggiore” e non minore, come si potrebbe credere -, mi stuzzica quello che ha dato il titolo alla raccolta “Il mare colore del vino”, non fosse altro che per la curiosa particolarità di evocare tutto il mondo poetico di Sciascia in una volta, concentrandolo in una sintesi di stile e d’espressioni. E’ un viaggio in treno da Roma ad Agrigento, raccontato in prima persona da un ingegnere vicentino, Bianchi, che fa il suo primo viaggio in Sicilia, non per turismo, ma per lavoro, e si trova alle prese, nello scompartimento in cui viaggia, con una famigliola: madre, padre e tre figli (due bambini e una ragazza), adulti loquacissimi e maleducati i bambini. Sembra ovvio precisarlo, l’io-narrante è lo stesso Sciascia che apre con indulgenza, durante questo viaggio “sentimentale”, tante finestre che affacciano sulla sua vita e precipuamente sulla sua gioventù, sui primi dieci anni della sua fanciullezza, come lui stesso amava dire. Il primo tema è la loquacità del siciliano, dell’isolano, il quale, in quanto tale, sente l’impulso connaturato d’esprimersi e d’esprimere, nel bene e nel male, la sua ricchezza interiore, repressa e compressa da millenarie dominazioni, dal potere e dal prepotere. Non si tratta di logorrea, ma di voglia di comunicare, democratica e libera, che erompe naturalmente ab imo pectore. Del resto, la conversazione avviene nel chiuso di uno scompartimento, dove la famigliola ha la maggioranza (cinque a uno). Una comunicazione, che diventa confessione e contrasta con l’omertà. L’insistenza del padre, di far rimanere l’ingegnere nello scompartimento stretto per sei viaggiatori   e di non  cercarne altri vuoti per dormirvi, è la dimostrazione palese dei motivi che stanno alla base del contrasto voglia di comunicazione-omertà, e di quel certo comportamento omertoso che scatta nel siciliano, compresso e represso dal potere, di cui diffida (com’è mirabilmente descritto nell’incipit de Il giorno della civetta). E’ dalla diffidenza nel potere che opprime e nella giustizia ingiusta, che nasce l’omertà, è dalla paura ancestrale di essere anelli deboli, lasciati allo sbando, utilizzati, sfruttati e poi abbandonati alla mercè di un contropotere che fa paura. Per cui la mafia diventa metafora:

“C’è mafia?” domandò l’ingegnere.

“Mafia?” fece il professore, stupito come se gli avessero chiesto se al suo paese si mangiasse polenta e si bevesse grappa. “Che mafia? Fesserie!”

“E queste cose?” domandò l’ingegnere mostrando sul giornale del giorno avanti un titolo a quattro colonne che diceva La mafia non vuole le dighe.

“Fesserie” di nuovo tagliò il professore.

L’ingegnere pensò: “Un uomo istruito, gentile, buon padre di famiglia: e non vuole parlare della mafia, si meraviglia anzi che se ne parli, come se parlandone si desse importanza a cosa di piccolo conto; ragazzate, fesserie. Comincio a capire la mafia, è davvero un dramma.”

Già, la diffidenza e l’omertà, ma anche la gelosia. Sciascia scava, inquisisce, ma non lo dà a vedere, lo fa in questo racconto con un tocco di mano delicato, quasi con pudore, anche se evoca continuamente la presenza minacciosa di un maresciallo (tintinnare di manette), che dovrebbe contenere la maleducazione del figlio Nenè. La maleducazione e la loquacità, s’intende, sono il contrappunto e la chiave d’accesso per aprirci tutte le finestre sulle visioni e sulle angolazioni che Sciascia vuol propinarci, in una sorta di umoristico sentimento del contrario, di marca pirandelliana. I temi trattati, impegnativi e profondi, non potevano evocare il riso comico, ma un riso amaro, che mette a nudo l’animo siciliano e ne comprende i motivi drammatici del suo manifestarsi. Così la gelosia del padre e dell’altro figlio più piccolo nei confronti della ragazza non nasce altro che dalla diffidenza. La diffidenza si rivela nello scambio di battute tra l’ingegnere e la ragazza, che si piacciono e iniziano un idillio:

…ma una ragazza che fa il liceo, dicevano i miei, poi deve andare all’università; e come si fa a mandare sola una ragazza, in una città come Palermo?”

“In Sicilia tutte le famiglie pensano così?”

“Oh no, non tutte.”

“La sua è una famiglia particolarmente severa?”

“Non particolarmente: in Sicilia ce ne sono ancora tante che vedono la vita in un certo modo, che diffidano…”

“Di che?”

“Del mondo, di se stessi… E non è che abbiano del tutto torto…. (…) mi pare che la vita abbia perduto di serietà, che ognuno sia disposto a tradire gli altri, tutti gli altri… (…) io credo che al mio paese la vita sia ancora seria… Ma le apparenze sono grette, intollerabili…”

Apparenza, gelosia, diffidenza e nell’animo una voglia di vivere, di liberarsi, di lasciarsi alle spalle una realtà opprimente e una eredità greve: sono i temi che esplodono perentoriamente con l’esclamazione del piccolo Nenè che il mare di Aci è  colore del vino, quello che si vede dal finestrino del treno che fila lungo la costa della Sicilia orientale: “oinos ponton”, il mare color del vino di Omero nell’Odissea, nei posti in cui sbarcò Ulisse e s’incontrò con Polifemo. C’è un riferimento emblematico al mondo tragico e arcaico della Grecia, dalla quale deriva il dramma irrisolto della vicenda siciliana.
Isola di fermenti e di umori, di violenze e di umanità, di rassegnazioni e di ribellioni, di aspirazioni fantastiche e di fatalistiche assuefazioni, di vinti che vorrebbero vincere e dominare, ma che sono sempre perdenti e dominati, seppure orgogliosamente regali nella loro sconfitta: questa è la Sicilia.
In un viaggio di un giorno, condensato in poche pagine, Sciascia riesce a raccontare tutto della sua storia, bella e terribile, ma con la tolleranza di chi è consapevole che il vero vincitore sarà colui che resta e lotta. Visione quest’ultima che s’incarna in una famosa intervista sui Promessi Sposi, nella quale sostenne che a scuola, soprattutto, (è il razionalista che parla), dei Promessi Sposi se ne dà una versione consolatoria. Per lo scrittore agrigentino l’opera è tutt’altro che consolatoria, anzi è desolante. Il vero vincitore del romanzo di Alessandro Manzoni è Don Abbondio, che rimane e vince, pur nelle sue umane debolezze, contro tutti e contro tutto: Don Rodrigo, la peste, i bravi, i lanzichenecchi. La parabola sciasciana è molto chiara: in Sicilia vincerà chi ha voglia di restare e di lottare e di rompersi la testa sui suoi problemi, così come afferma il capitano Bellodi nella conclusione del romanzo "Il giorno della civetta".

 

SCIASCIA VISTO DAGLI SCRITTORI


Una spiegazione e un annuncio

Per arricchire queste pagine dedicate al mio amico Leonardo Sciascia, ritengo di fare cosa gradita proponendovi due racconti, che lo inquadrano sotto due angolazioni. Il primo è mio, tratto dal romanzo Una contrada chiamata Consolida. Consolida è una contrada, dove sorge l’attuale ospedale di Agrigento, che prese il nome da una pianta medicinale antichissima (delle borraginee), che i romani chiamarono appunto “consolida”, traduzione latina esatta del greco "sunfoo" che significava consolidare. E in effetti la pianta fiore consolidava le ossa e cicatrizzava le ferite. La pianta è il legame di tutte le storie del romanzo, dal mito fino ai nostri giorni. Io vedo Sciascia nel momento di meditare sulla mafia in un campo di Consolida e sulle radici mostruose che affondano nella società siciliana.
Il secondo racconto è inserito in una raccolta, pubblicata da uno scrittore mio amico, Gaetano Gaziano, che s’intitola “Il Bacchino ubriaco ed altre storie”, le cui storie sono legate dal tema del vino. Gaziano immagina un incontro, nell’aldilà, di Sciascia con uno dei suoi scrittori preferiti, il francese Stendhal: i due discettano su varie cose, ma soprattutto sul vino. Argomento pertinente al tema del racconto "Il mare colore del vino".
Il materiale pubblicato è cospicuo e potrete valutarlo con calma, perché dovrò dedicarmi alla conclusione di un mio libro, che ultimamente ha segnato il passo. Farò, per un certo periodo, rapide apparizioni ed incursioni.


Leonardo Sciascia


Meditazioni a Consolida

di Ubaldo Riccobono

Da Grotte a Caldare la strada scendeva, tutta curve, per otto chilometri: Leonardo Sciascia la percorreva con la sua autovettura lentamente, mentre andava dipanando nella sua mente le idee di una nuova opera sulla mafia.

Uscito di buon mattino, sulla Piazza di Racalmuto non si era accorto neanche del cenno di saluto di un conoscente. Il suo cervello era in ebollizione e aveva sentito, impellente, il bisogno di aria fresca e di luoghi solitari. Confessava sempre a sé stesso di odiare la città: l’aveva sempre saputo.

Ad Agrigento rare erano le sue apparizioni e sempre in luoghi appartati; Roma lo seduceva o lo intimoriva al tempo stesso; Milano con il suo affarismo lo atterriva. Preferiva la campagna, dove la sua ispirazione pareva delineare in modo netto e preciso il canovaccio dell’opera che aveva in mente.

Dopo aver superato la piazzola della stazioncina di Caldare, imboccò una strada sterrata, che lo portò dopo un paio di chilometri ai campi di Consolida. Sceso dall’abitacolo, accese la sigaretta e, dopo averne cavato due o tre boccate, la buttò via. Se il medico curante lo avesse visto, avrebbe gridato allo scandalo. Ma egli si riteneva un fatalista ed era convinto che, nella vita, qualche piccola trasgressione bisognava riservarsela.

Ammirò il rigoglio dei campi paludosi, delle piante forti e pervicaci dai fiori multicolori. La forza selvaggia della natura dava linfa alle sue meditazioni, ma lo faceva sentire debole, più di quanto non fosse. Le consolide si compenetravano al suolo, facendo tutt’uno con la terra.

Come tutti gli uomini di paese conosceva le virtù medicinali di quelle piante, che avevano una loro storia che si perdeva nella notte dei tempi, ma era quasi indispettito. Si domandava perché la natura avesse reso così arduo, se non impossibile, sradicarle. Per farlo occorreva reciderle con la falce, ma la radice avrebbe prodotto nuove foglie.

Diavoleria di una pianta! Come la mafia inesorabile, forte, difficile, quasi impossibile da combattere, di fronte alla quale l’uomo doveva chinare il capo. Quel gioco meccanico lo seduceva e lo irritava al tempo stesso. Lo seduceva perché riusciva ad intuire un determinismo di non facile lettura, lo irritava perché il siciliano, invece di ribellarsi, non riusciva a sottrarsi a quel giogo.

A un centinaio di metri stava crescendo  la struttura del nuovo ospedale, una costruzione imponente nella quale lavoravano alacremente decine di operai. Egli vedeva con sgomento il contrasto tra quegli esseri minuscoli indaffarati, quell’opera torreggiante e, tutt’attorno, la natura selvaggia, così ferma, così immutabile. Pensò alla lotta filosofica tra l’essere e il divenire, alle dispute delle diverse scuole di pensiero, e nell’ambito delle stesse ai vari distinguo di questo o quel filosofo. Tutti avevano un pezzo di ragione e un pezzo di torto. Pensava ad Eraclito e al tutto scorre, alla teoria della guerra permanente.

La vita, è vero, continuava a fluire e gli uomini nascevano e morivano, senza rendersi conto per quale ragione venivano al mondo. I loro problemi si riducevano al medesimo clichè. Ed ecco che quell’erbaccia gli dava sui nervi, gli dimostrava con la sua pervicacia, con il fatto di crescere spontanea, abbarbicata indissolubilmente alla terra, che il meccanismo della natura era più forte dell’uomo, malgrado l’uomo fosse dotato di pensiero ed intelligenza.

Ma qual era la vera natura del siciliano?

E, perché, ad esempio, diversamente dai milanesi, non riusciva il siciliano a svincolarsi dall’ingranaggio mostruoso?

Per lui quelle domande erano soltanto retoriche, lo sapeva bene. Fiumi di parole erano state dette e scritte, ma gli intrecci della società erano talmente stratificati, inestricabili, che non si sapeva più quali fossero i termini del dilemma. Si andava avanti: una partita veniva persa, una era vinta. La lotta sarebbe continuata senza quartiere, fino alla fine dei secoli.

Guardò quella fabbrica nascente e gli uomini dediti al lavoro. In lontananza sembravano insignificanti, eppure avevano sentimenti, speranze, pensieri; erano dotati di ragione; s’attaccavano alla vita come quella pianta pervicace, che adesso gli sembrava meno colpevole.

 Leonardo Sciascia

Le rouge et le noir

di Gaetano Gaziano

“Benvenuto, caro Leonardo! Ti stavamo aspettando.” Stendhal accoglie Sciascia con un largo sorriso.

“Anch’io sono felice d’incontrarla, maestro!”

“Alt! In questo luogo non ci sono né maestri né allievi. Niente maitres à penser!”

“D’accordo Henri, niente formalismi. Consentimi, comunque, di dirti che sono veramente felice di incontrarti. Era da tempo che aspettavo questo momento. Tu conosci l’ammirazione che ho per te.”

“Lo so! Ma, del resto, è abbondantemente ricambiata.  Quassù potremo scambiarci le nostre riflessioni direttamente, lontano da quel fastidioso rumore di fondo di quella che chiamiamo “vita terrena”. “

“Finalmente! Sapessi a cosa si è ridotta la comunicazione laggiù: autentica spazzatura! Nelle librerie, poi, i best sellers sono rappresentati dai libri dei comici di successo. Pochissime sono, ormai, le opere di narrativa che valga la pena di leggere.”

“Davvero?”

“Sì, mio caro Henri! E questo è per me un grande dolore. Ma veniamo a noi. Sai, è da tempo che volevo chiederti due o tre cose, anche per liberare il campo da alcune perplessità che avanzano gli studiosi delle tue opere.”

“So bene a cosa alludi: ai sospetti, neppure tanto larvati, di egoismo, di spregiudicatezza o, addirittura, di cinismo…”

“Ecco, non volevo dirlo. Ma, visto che sei tu a parlarne… Per esempio, qualcuno ha visto, nelle tue dichiarazioni di amore sperticate per l’Italia, un atteggiamento di comodo, quasi furbesco, per tenerti buona l’intellighenzia milanese, visto che tu arrivavi a Milano come sottotenentino dell’esercito napoleonico. Vero è che scendevate in Italia come esercito di liberazione. Ma qualcuno cominciò a parlare velatamente di nuove truppe di occupazione francesi.”

“Mi è facile constatare questi sospetti, mio caro Nanà, se mi consenti di chiamarti come i tuoi amici di Racalmuto. A quel tempo avevo solo diaciassette anni e avevo seguito Bonaparte in Italia, perché mi era sembrata l’unica possibilità di viaggiare e di conoscere il vostro meraviglioso paese. E tu sai, del resto, che ben presto mi stancai della vita militare e lasciai l’esercito, per dedicarmi ai miei studi sulla storia e sull’arte italiane. E, poi, qualsiasi sospetto di opportunismo dovrebbe essere fugato dal fatto che ho chiesto, a testimonianza per l’amore di Milano, che sulla mia tomba venisse scritto l’epitaffio “Qui giace Arrigho Beyle, milanese”. Quando sei morto, mio caro Nanà, le furbizie non servono più!”

“E’ vero! Ma, d’altra parte, io non avevo alcun dubbio. Dicono, pure, che tu hai sfruttato il fascino che esercitavi sulle donne per fare carriera. Che come Julien Sorel, il protagonista di Le rouge e le noir, avresti tentato di introdurti nella società bene, di acquisirne benemerenze e incarichi, attraverso le tue conquiste galanti, che, per la verità, collezionavi con grande facilità, soprattutto tra le dame dell’aristocrazia.”

“Hai ragione! In Julien Sorel c’è molto di autobiografico. Fino a un certo punto, però. E’ vero: come lui avevo un debole per le donne. E chi lo nega? Ma non ho mai utilizzato le mie conquiste galanti come grimaldello per “sfondare” nella società che conta, come sostiene qualcuno. D’altra parte, in Italia non ho mai avuto incarichi ufficiali, né pubblici né privati. Ho sempre lavorato per lo Stato francese, fino al mio ultimo incarico, che è stato quello di console, a Civitavecchia. E, poi, questa fama di seduttore è stata un po’ montata ad arte, a beneficio di certa letteratura pruriginosa. Se consideri, peraltro, che l’unica donna italiana a cui tenevo veramente, la contessina Giulia Ranieri, di cui ho chiesto anche la mano, mi ha opposto un cortese ma netto rifiuto, mi ha dato “coffa” come dite voi siciliani, la leggenda metropolitana di uno Stendhal tombeur des femmes
ne esce notevolmente ridimensionata.”

“Assolutamente convincente, mio caro Henri! E, ora, levami un’ultima curiosità. Perché hai dato il titolo di Le rouge et le noir al tuo romanzo più famoso? Tu sai bene che sono state date molte interpretazioni al riguardo. Qualcuno ha detto che il titolo ha un riferimento preciso al nero dell’abito talare di Julien Sorel, ex seminarista, e al rosso del sangue, visto che Julien finì ghigliottinato. C’è chi ha sostenuto che hai inteso alludere al contrasto tra i clericali (nero) e i liberali (rosso) del tempo. Chi porta avanti altre teorie ancora. Per favore, vuoi dare la tua versione autentica, per mettere la parola fine a tutte queste diatribe?”

“Io, ovviamente, la mia motivazione la conosco. ma consentimi di essere un po’ cinico, questa volta sì. Non la rivelerò mai! Ma tu te l’immagini? Se dovessi svelare l’origine del titolo, farei la gioia di un critico letterario per scontentarne almeno altri dieci: meglio lasciarli nelle loro convinzioni. Ma, a proposito di rouge et noir, perché non parlare di un argomento più divertente? Più frivolo, direi. Parliamo di vini! Credo che possiamo dare, vista la nostra condizione diciamo così “spirituale”, un’autorevole opinione sull’eterna querelle se siano più buoni i vini francesi o quelli italiani. Sei d’accordo Nanà?”

“Pienamente d’accordo. Io, al riguardo, ho un’idea ben precisa. Chapeau bas, tanto di cappello, ai vini bianchi francesi, soprattutto allo champagne. Ma, per quanto riguarda i rossi, non credo che esistano vini più buoni di quelli siciliani. Penso sempre, con grande nostalgia, al vino rosso che si produce nella mia amata campagna in contrada “La Noce”, a Racalmuto. Che profumo delicato! Che sapore intenso! Che emozioni, al momento della vendemmia con tutti i ragazzi a fare festa, mentre pigiavamo l’uva a piedi scalzi! E, poi, un anno, successe un fatto bellissimo, che ricordo sempre con piacere.”

“Quale?”

“Mentre pigiavamo l’uva, preso dai fumi del mosto, crollai in mezzo al tino. I miei compagni prontamente mi risollevarono, ma, completamente ebbro, ridevo e straparlavo, mentre loro mi sorreggevano per le braccia.”

“E cosa dicevi?”

“Fantasticavo, a quanto mi raccontarono dopo, di trovarmi in mezzo a un Baccanale in pieno svolgimento, secondo il rito pagano, che ci aveva spiegato, qualche tempo prima, il nostro vecchio insegnante di latino.”

“Interessante! Soprattutto, sotto l’aspetto letterario. Racconta!”

“Io mi trovavo proprio in mezzo al corteo, preceduto dalle Menadi, le vergini che reggevano un enorme fallo di legno, simbolo della fertilità della terra e propiziatore di abbondanti raccolti, che procedeva, ondeggiando, tra la folla acclamante. Seguivano i Satiri, che, con i loro flauti doppi e tamburelli, intonavano suoni, a ritmo sempre più incalzante e frenetico.”

“E, tu, che ruolo avevi nel rito?”

“Rappresentavo Dioniso. Cinto di pampini di vite, avanzavo tra la folla, sopra un cocchio trainato da cavalli, distribuendo grappoli di uva nera, mentre le Menadi mescevano vino a profusione alla folla sempre più vociante ed eccitata.”

“E come è finita?”

“Come tutti i riti dionisiaci: con il fallo-falò! Ovverosia, con l’incendio dell’enorme simbolo fallico, mentre Dioniso, le Menadi e i Satiri, tutt’intorno, danno vita a un vorticoso e delirante carosello.”

“E tu?”

“Io, a detta dei miei compagni, alla fine del racconto che avevo fatto quasi in trance, completamente madido di sudore e con i vestiti zuppi di mosto, caddi in un sonno profondo e mi risvegliai nella mia casa di campagna, in contrada “La Noce”, dove mi avevano trasportato a braccia, solo due giorni dopo.”

“Fantastico argomento per un racconto! Come mai non hai scritto niente, al riguardo?”

“Mi ripromettevo sempre di scriverci qualcosa, ma, poi, per un motivo o per un altro, ho sempre rimandato. Peccato! Chissà che, un giorno, qualche scrittore non prenda spunto da questo episodio, per realizzarci un racconto. Mah! Io me lo auguro. Ecco, in conclusione, perché ritengo il mio “Rosso della Noce” il vino più buono del mondo. Io non bevo molto, credimi, ma basta un goccetto del mio vino a mettermi allegria. A rendermi euforico.”

“Tu non sei un estimatore del tuo vino. Di più: ne sei innamorato!”

“E’ vero, non posso negarlo: amo il vino della mia contrada! Che ne dici, mio caro Henri, ci facciamo un goccetto di rosso?”

“Oui, très volontiers, mon cher Nanà!”

 

      “IL BACCHINO UBRIACO E ALTRE STORIE”

 IL MITO DEL VINO SECONDO GAETANO GAZIANO

                              recensione di Ubaldo Riccobono

Il Bacchino malato di Caravaggio

E’ nata sotto i migliori auspici questa raccolta di  18 racconti di Gaetano Gaziano, tutti sul mito del vino, titolata “Il bacchino ubriaco e altre storie” (ExCogita editore, Milano €. 11,50), data alle stampe nel mese di aprile.

E aprile era un mese importante per gli antichi romani, i quali celebravano nei Vinalia, sorta di festeggiamenti arcaici, il vino novello che faceva la sua comparsa sulla tavola di patrizi e plebei. Tali celebrazioni venivano reiterate nel mese di agosto per l’inaugurazione della vendemmia. Non erano da meno i greci, per i quali il vino costituiva ab origine un elemento sacrificale nei culti orgiastici, a cominciare anzitutto dai riti alla divinità post-omerica di Dioniso, di origine tracia, che le popolazioni rurali della Lidia identificarono in Bacco.

Questo culto “religioso” del vino, nell’opera di Gaetano Gaziano, non solo è presente nel titolo della raccolta con il vezzeggiativo del nome Bacco, ma traluce in tutto il suo fulgore nella copertina di un gradevole rosso (colore liturgico del vino), dove è inquadrato “Il Bacchino malato” del pittore Caravaggio (Michelangelo Merisi, nato a Caravaggio, in Lombardia).     

Ora, nella sua visione antirinascimentale, Caravaggio, ribaltando audacemente l’antropocentrismo, nelle sue opere d’arte espresse proprio la realtà delle cose, fissando “i dati” del creato come in una camera oscura, come in uno specchio. E allo specchio fu realizzato “Il Bacchino”, senza dubbio un autoritratto del pittore, ancora convalescente dalla malattia, per un precedente ricovero nello Spedale della Consolazione. La spontaneità del “Bacchino”, con la corona di pampini e l’uva tra le mani, è un inno alla vita, che nella naturalità del soggetto adombra anche una spiritualità universale di fondo, la gioia del godimento, specie quando si esce d’affanno.

Caravaggio e il suo inconsueto autoritratto ispirano il racconto-clou, “Il Bacchino ubriaco”, epicentro del libro e snodo ideale di tutte le altre storie, perché incarna la concatenazione tra l’arte (pittura e scrittura),  il soggetto della narratio e il contesto situazionale.

Da questa miscela, che l’autore “impasta” con gusto artigianale, tra piccoli paradossi, espressioni eretiche e toni umoristici, blandamente pirandelliani, ne escono personaggi filigranati, naturali, spontanei, contrassegnati a volte da una umanità traboccante e ingenua, ma collocati tutti nell’humus congeniale, cioè la Terra, da cui origina il vino (Dioniso era figlio di Zeus e di Semele, personificazione della terra).

Un filo rosso (rosso come il vino), dunque, che accomuna tutti i racconti, trattati con garbo e divertissement, con tocco di mano leggero e suadente, che ilarizza, ma avvince e convince.

Il “simposiarca” Gaziano confeziona 18 racconti simposiaci, che sono un invito a prendere la vita con ottimismo, e ci ricordano  gli σκολια di Alceo, i canti conviviali d’esortazione al bere e ad esaltarsi senza indugi nella gioia, per dimenticare i crucci della vita:

“Beviamo! perché attendere le lucerne?”

Talora il vino è l’occasione, per Alceo, per celebrare un “fausto” evento, la morte del tiranno:

“Ora bisogna bere,

ora ubriacarsi a forza,

poiché è morto Mirsilo”

La carrellata di Gaetano Gaziano evoca in noi sensazioni sopite, versi e composizioni di poeti, che ridestano sentimenti antichi, come ad esempio il lieder conviviale di Wolfgang Goethe “Ergo bibamus”, che brindava nella fredda Germania generosamente con rincuoranti brindisi, anche nel momento della sua partenza per l’Italia (“parto da qui con un lieve fardello, doppiamente ergo bibamus”).

In questa atmosfera lirico-conviviale-terrestre, troviamo, per cominciare, un “trasgressivo” Noè e un piccolo servo, che pur prodigandosi in un sforzo volontaristico degno di lode, non riesce ad “impedire” il miracolo del vino di Cana. E poi, via via, l’uomo più astuto della terra, Ulisse, che scopre qualcuno più furbo di lui; Enea, che approda nell’Enotria e ritrova “il gusto” della sua terra;l’immarcescibile Shahrazàde de Le Mille e una notte; Defùk, vescovo di Magonza, che muore per un eccesso di Est Est Est, il celeberrimo vino di Montefiascone; un imprevedibile Giorgione; il monaco, “tombeur des femmes” inventore dello champagne, Dom Pierre Perignon; Francisco Goya alle prese con il vino della strega; Giuseppe Verdi che brinda allusivamente a un suo fiasco; il brindisi di Verga alla sua amata; il viaggiatore Guy de Maupassant e il suo sogno sotto il tempio di Giunone ad Agrigento, con le vin du diable; un trio inusitato: Amadeus Mozart, Casanova e Don Giovanni; e per finire: Amedeo Nazzari in un’osteria di Trastevere; il brindisi “impossibile” tra Leonardo Sciascia e Stendhal; gli effetti del Chianti e delle torri gemelle su una coppia; Costanzo e e un suo programma da Apocalypse now. 

Mito e storia, leggenda e fantasia, e a volte sinfonia, si mescolano continuamente, tra frizzi e lazzi, senza alcuna visione recondita, ma con l’evidente scopo di parlare al cuore del lettore, lasciando libera la mente.

Del resto, era un percorso annunciato nell’introduzione, con la bellissima citazione di uno scrittore illustre, Jorge Luis Borges, tratta dalla sua Parabola di Cervantes e di don Chisciotte:

“Perché al principio della letteratura è il mito, così alla fine”

 

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