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I cinque anni di Viola
Viola nostra, Viola mia,
cinque anni son volati via;
son volati veloci i giorni
tutti belli, tutti adorni
di allegria e di felicità,
nella gioia che mai finisce
come Pasqua che i cuori unisce
con il saluto delle campane
– anche di quelle più lontane –
che c’invitano a festeggiare.
Dai tuoi occhi sfavillanti,
che hanno rubato perfino al cielo
l’azzurro intenso e più profondo,
s’effonde a noi amore giocondo.
Gioca Viola, non smettere ancora,
con quel sorriso che c’innamora;
gioca Viola, gioca sempre
da gennaio fino a dicembre.
Oggi è festa grande: la mia adorata nipotina compie cinque anni e il 3 maggio prossimo festeggerà anche l’onomastico. Mi si perdonerà, quindi, per questa occasione speciale, l’irriverenza di rendere pubblica la dedica di apertura con un mio semplicissimo componimento, a fronte della pubblicazione di poesie di grandi poeti che evocano il nome Viola. Ma prima di continuare il post evocativo del nome Viola, desidero proporre come augurio le immagini di alcuni personaggi che hanno allietato e continuano ad allietare i giorni della mia nipotina, alla quale piacciono molto i racconti e comincia già ad inventarne di suoi.
NOMI, FIORI E LETTERATURA
(in occasione di un compleanno)
La disputa della rosa con la viola
di Bonvesin de la Riva
Bonvesin de la Riva (Milano 1240-1315), frate laico dell’Ordine degli Umiliati, “doctor in gramatica”, scrisse un contrasto intitolato Disputa della rosa con la viola (quartine di alessandrini in 248 settenari doppi), di cui riporto uno stralcio finale.
El ha dao la venzudha a la vïora olente
perzò k’ella e plu utile, guardand[o] comunamente;
compensando tut[e] cosse, plu degna e plu placente,
e ke maior conforto significa a tuta zente.
El ha dao la perdudha a la rosa marina,
ké computand[o] tut[e] cosse ella non è sì fina.
La rosa per vergonza la soa testa agina,
e gramamente a casa sì torna sor la spina.
La vïoleta bella, la vïoleta pura
alegra e confortosa se ’n va co la venzudha.
Ki vol ess[e] cum’ vïora e trà vita segura,
sïa comun et humel et habia vita pura.
In questa tenzone allegorico-didattica i due fiori rappresentano vizi e virtù: la rosa, la superbia e l’avarizia; la viola, l’umiltà e la carità. Ma è lecito individuare in essa un significato socio-politico, con la rosa a raffigurare la potente aristocrazia, laddove la viola invece si riferisce al ceto borghese, classe di cui faceva parte Bonvesin, uomo della riva come la viola (“ma tu sì nasci in le rive”).
Un genere letterario, la tenzone, importata in Italia nel duecento dalla letteratura provenzale, come contentio tra due o più interlocutori (nella specie della rosa e della viola, chiaramente simbolica). Nella rosa può rinvenirsi anche la simbologia della superbia del leone, anticipazione dantesca di Fra Bonvesin, riscontrabile anche nel Libro delle tre scritture, tripartito in De scriptura nigra, De scriptura rubra, De scriptura aurea, dove appare evidentissima la successiva strutturazione dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso che ne avrebbe fatto Dante nella Divina Commedia.
Viola e Non ti scordar di me
in Johann Wolfgang Goethe
Goethe diceva che “la poesia indica i segreti della natura e cerca di risolverli per mezzo dell’immagine”. La sua poetica si fondò sull’osservazione costante del regno naturale: dovunque andasse, indugiava a catalogare piante, fiori e minerali e fu all’ossessiva ricerca della pianta originaria, dalla quale poter derivare, diceva lui, come prototipo di tutte le piante possibili. Anche Goethe si colloca nel solco della concezione di Bonvesin de la Riva, esaltando le qualità della viola, finendo per prediligerle però il leggendario Non ti scordar di me, simbolo per lui di fedeltà eterna dell’amore.
La buona violetta io la stimo molto:
è tanto modesta e tanto
odorosa; ma io ho bisogno
di più, nel mio acerbo affanno.
A voi soltanto voglio confidarmi:
su questi picchi rocciosi e aridi
non troverò la mia bella.
Ma la donna più fedele della terra
incede presso il ruscello, in basso,
sospira e geme sommessa
fino al giorno del mio riscatto.
Quando coglie un fiore celeste
e ripete: non ti scordar di me!
lo sento anche di lontano.
Certo, si sente la forza di lontano,
se due si amano davvero;
nella notte del carcere sono rimasto
ancora vivo per questo.
E anche se mi spezza il cuore, basta che
io esclami: non ti scordar di me!
e rinasco alla vita.
Totò e la viola
Per Totò, che fu anche finissimo poeta, è la viola simbolo eterno d’amore e di rimpianto, quantunque disperato possa essere l’intimo sentimento: mette salde radici nel cuore d’ogni innamorato ed evoca sempre il ricordo dell’amata, come canta in questa delicara composizione in dialetto napoletano.
Viola d'ammore
Pe nun me scurdà 'e te aggio piantato
dint'a nu vase argiento, na violetta
cu 'e llacreme 'e chist'uocchie l'aggio arracquata
e ll'aggio mise nomme:"Oh mia diletta!".
E songhe addeventato 'o ciardiniere
'e chesta pianta…simbolo d'ammore
"Oh dolce violetta del pensiero…
…he mise na radice int'a stu core!".
Una viola al Polo Nord
di Gianni Rodari
Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia):
"Che sia arrivata qualche spedizione?"
Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria, perchè quello era il suo dovere.
"Mamma, papà", gridavarono gli orsacchiotti.
"Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano", fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. "E secondo me non è un pesce".
"No di sicuro", disse l'orsa maggiore, ma non è nemmeno un uccello.
"Hai ragione anche tu", disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo.
Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più lontano anche volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima.
"Per mandare tanto profumo", disse una foca, "deve avere una riserva sotto il ghiaccio".
"Io l'avevo detto subito", esclamò l'orso bianco, "che c'era sotto qualcosa".
Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava.
Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni.
"Ne sappiamo quanto prima", osservò la foca.
"Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa".
"Come ha detto che si sente?" domandò l'orso bianco a sua moglie.
"Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare".
"Ecco", esclamò l'orso bianco, "proprio quello che penso anch'io".
Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita.
Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressapoco questo: "Ecco, io muoio… Ma bisogna pure che qualcuno cominciasse… Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini".