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PRAGA E BUDAPEST
COSI’ SIMILI COSI’ DIVERSE
SECONDA PARTE
BUDAPEST E LA LIBERTA’
A COSTO DELLA VITA
“Rimani solo e ricorda. Rimani solo e osserva. Rimani solo e rispondi. Non illuderti: non esistono soluzioni diverse. Rimani solo, anche a costo della vita”
Sàndor Màrai, Cielo e terra (1942)
Dicono che i cieli azzurri d’Ungheria, così intensi sullo specchio trasparente del Danubio, assomiglino molto agli occhi degli ungheresi, nei quali è facile leggere il valore diamantino della libertà, cui essi aspirano da sempre. Non si sa se questa favola sia vera, ma cielo, Danubio e occhi degli ungheresi sembrano d’un unico colore.
“Unius linguae, uniusque moris regnum imbecille et fragile est”
“Lascia agli stranieri la loro lingua e le loro abitudini, giacché il regno che possiede una sola lingua, e dappertutto i medesimi costumi, è debole e caduco”
Gli “Ammonimenti di Santo Stefano al figlio Emerico”, sia pure in latino, costituiscono uno dei primi testi della letteratura ungherese e la pietra miliare dello Stato ungherese.
La visione di Stefano primo, che riuscì a unificare varie etnie, tra le quali le genti che discendevano dai Romani, dagli Unni, dai magiari e da altri popoli nomadi, era sacrosanta, perché soltanto cementandone lo spirito, sotto l’egida del cristianesimo e lasciandone liberi gli usi e costumi, poteva favorirsi il formarsi di una nazione e l’integrazione graduale dei popoli. Era nato il Regno d’Ungheria, per la cui identità il popolo ungherese avrebbe lottato per sempre.
La corona di Santo Stefano è da sempre il simbolo della nazione ungherese
Dunakanyar viene chiamata in ungherese l’Ansa, un paesaggio naturalistico che si snoda per venti chilometri (distante una sessantina di chilometri da Budapest) dove il fiume scorre in una valle incassata tra i monti e piega tortuosamente verso sud, formando quasi un naturale lago azzurro.
Poco lontana dall’Ansa, sorge su un monte, l’antica capitale Esztergom, con la aerea Cattedrale dell’Assunzione, che rappresenta la storia di mille anni della chiesa cattolica ungherese.
La storia dell’Ungheria è intessuta dalle continue lotte per l’indipendenza, che nella città di Budapest mostrano segni visibili in costruzioni, volute e pensate per ricordarle.
Il Bastione dei Pescatori, cosiddetto dalla Corporazione che s’incaricò di difendere Budapest e l’Ungheria dai Mongoli, fu costruito in stile neoromanico, ai primi del ‘900, a Buda (teatro delle operazioni di guerra) dall’architetto Frigyes Schulek. Da esso può ammirarsi il panorama di tutta la città, del Danubio e dei suoi ponti, che arriva a spaziare sui lontani monti, in tutte le direzioni.
La Chiesa Mattia fu edificata dal sovrano Béla IV per lo scampato pericolo di una pestilenza, a seguito dell’invasione dei Mongoli, che avevano devastato Budapest.
Bela IV e la moglie Maria Lascaris consacrarono la figlia Margit (Margherita) a Dio, prima che nascesse e per l’Ungheria fu un gesto che scongiurò l’assoggettamento al popolo invasore. Il padre costruì su un’isola del Danubio un monastero per lei, dopo che ebbe vestito l’abito bianco delle domenicane, a Vezprèm.
Da allora l’isola viene chiamata Margit ed è il luogo, al quale gli ungheresi sono più affezionati, dove la tradizione del nome Margherita viene rinverdita da un bellissimo parco, ricchissimo di fiori.
La Chiesa Mattia prese il nome dal re Mattia Corvino, del ramo Iagellone, strenuo difensore della tradizione cattolica della chiesa ungherese dall’attacco dei Turchi, i quali, poi, avendo avuto il sopravvento, la trasformarono in moschea.
Sommità
del Campanile
Altare
Interno scenografico della chiesa Mattia
Alla fine del XVII secolo, dopo varie lotte contro i Turchi, l’Ungheria diventa una provincia dell’impero asburgico. Lo spirito d’indipendenza degli ungheresi, sempre vivo, sfociò nei moti rivoluzionari, dei quali L. Kossuth fu il propugnatore liberale.
A scatenare l’insurrezione armata a Budapest fu il poeta Sandor Petofi con il suo Canto Nazionale, che infiammò i patrioti:
In piedi Magiari, la Patria ci chiama!
Il tempo è arrivato, adesso oppure mai!
Rimaniamo schiavi o diventiamo liberi?
Questa è la domanda, scegliete ora!
Al Dio dei Magiari
giuriamo,
giuriamo che più oltre
non saremo più schiavi!
La vis poetica di Sandor Petofi, giornalista scrittore oratore, si espresse anche in liriche amorose Fronde di cipresso e Perle d’amore, Poesie complete e l’Apostolo, storia quest’ultima di un rivoluzionario che s’immola per la libertà del suo popolo. Famosa una delle sue poesie, che dedicò alla moglie Giulia, da lui amata burrascosamente e sposata due anni prima della sua morte, avvenuta sui campi di battaglia contro i russi.
Io sarò albero se ti farai
fiore d’un albero:
se rugiada sarai, mi farò fiore.
Rugiada diverrò, se tu sarai
raggio di sole:
così, mio amore, noi ci uniremo.
Se, mia fanciulla, tu sarai cielo,
io diverrò, allora, una stella:
se, mia fanciulla, tu sarai inferno,
io, per amarti, mi dannerò.
Le lotte di Kossuth e Petofi, se non altro, servirono a ripristinare in Ungheria la dignità di un Regno indipendente, anche se sul trono sedeva l’imperatore d’Austria degli Asburgo.
Gli Asburgo governeranno fino al crollo dell’impero, avvenuto con la fine della prima guerra mondiale.Divenuta repubblica e considerata perdente, l’Ungheria perde parte dei suoi territori e nel 1920 il Parlamento vota per la costituzione del Regno, affidando la reggenza all’ammiraglio Miklòs Horthy, il quale governerà con autoritarismo reazionario.
Gli ungheresi vanno fieri del loro Parlamento, istituzione che per loro simboleggia la sovranità popolare, anche se in quei periodi storici fu esautorato delle sue funzioni costituzionali.
Durante la seconda guerra mondiale l’Ungheria è occupata dalle forze naziste, che vi insediano un governo fantoccio. Dopo la disfatta del nazismo, saranno i comunisti ad andare al potere con il filostalinista Mathyas Rakosi. Rakosi viene sostituito dal riformista Imre Nagy, il quale però trova ostacoli nella destalinizzazione del paese, fino ad essere defenestrato dal partito, su ordine di Mosca, agevolando il ritorno di Rakosi. Ma l’anelito d’indipendenza è irrinunciabile e il 23 ottobre del 1956, dopo che l’anno prima gli studenti ungheresi avevano solidarizzato in piazza con gli operai polacchi in lotta a Poznam, scoppia la rivolta antisovietica. La repressione dell’Armata Rossa è violentissima.
Ben ventimila ungheresi moriranno negli scontri armati e altri duemila, tra i quali Imre Nagy, nominato primo ministro nei giorni dell’insurrezione, saranno poi giustiziati, dopo processi sommari. 250.000 saranno i profughi.
Ad animare la rivolta, con il suo esempio di spirito libero antisovietico, sarà anche il primate della chiesa cattolica, cardinale Joseszf Mindszenty, arcivescovo di Estorzgom.
Mindszenty era stato arrestato dagli stalinisti nel 1948 per alto tradimento e condannato all’ergastolo con un processo burla. Durante i giorni dell’insurrezione viene liberato a furor di popolo il 30 ottobre. Resterà ad interporre i suoi buoni uffici per la pace e la distensione fino al 1971, allorquando, su consiglio di Paolo VI, riparerà in Austria, dove morirà nel 1975, rimanendo nei cuori degli ungheresi come apostolo della libertà.
L’8 ottobre 1989 il partito comunista ungherese viene sciolto e l’Ungheria diventa repubblica indipendente. Il cardinale Mindszenty viene traslato nella cripta della cattedrale di Esztergom nel 1991.
Giovanni Paolo II nella cripta del cardinale Mindszenty
Interprete del travaglio per la libertà del popolo ungherese è l’opera dello scrittore Sandor Marai, il quale, dopo aver assistito alle atrocità naziste e all’avvento del potere stanilista, andò a vivere, esule, negli Stati Uniti. La grande solitudine che lo circondò, quasi isolandolo, traspare da tutta la sua poetica, in quella che appare la ricerca impossibile della felicità dell’uomo del novecento. Marai, ironia della sorte, si suicida proprio nell’anno dello scioglimento del partito comunista ungherese e della conquista della libertà definitiva del popolo ungherese.
Quella di adesso è una Budapest “occidentale”, con i pregi e difetti di una capitale europea, città nella quale può trovarsi il consumismo facile, ma anche la soddisfazione di bisogni sociali e culturali.
Ma se sono stati sciolti i nodi primari della libertà e dell’indipendenza, il popolo ungherese, che si sente dal punto di vista economico a metà del guado, s’interroga, come tutti i popoli d’Europa, sulle contraddizioni del capitalismo, sulle sacche di povertà, sulla giustizia giusta, sulle nuove oligarchie dominanti. Anche gli ungheresi, che hanno conquistato da poco la libertà, unitamente all’ingresso nella Comunità europea, vogliono quindi che essa venga utilizzata bene.
Una Budapest che di notte mostra un aspetto di sogno, ma che nasconde nelle sue pieghe esigenze e inquietudini che possono emergere, ma la piazza degli Eroi è sempre là ad ammonire.
Ricordi di scuola
(racconto in due episodi)
Quella sera, mio fratello mi trasse in disparte, dicendomi in maniera sibillina:
“Spero che domani farai il bravo, andando regolarmente a scuola…”
Ricollegai subito il suo invito alle sconvolgenti immagini dell’Ungheria, che erano sfilate pochi minuti prima alla Tv, e mangiai quindi la foglia:”Perché mi dici queste cose?” chiesi, facendo lo gnorri.
“Niente, niente…” rispose lui.
Con mio fratello ci toglievamo quattro anni; lui studiava per geometra, mentre io frequentavo il primo anno delle scuole medie. Essendo il fratello piccolo da proteggere, lui si sentiva in obbligo nei confronti dei miei genitori, come se avesse ricevuto un incarico speciale. A volte la sua missione risultava asfissiante, ma spesso era determinante, per via della sua temuta forza di toro, che mi toglieva d’impiccio con i ragazzi più grandi, che avrebbero voluto tiranneggiarmi.
Da quello che mi aveva detto quella sera, arguii che anche gli studenti della nostra città, come tutte le città d’ Italia, avrebbero inscenato una manifestazione pro Ungheria, così come i commentatori televisivi avevano ribadito.
Attesi il momento opportuno e, quando nessuno fu nei paraggi, andai ad attaccarmi al telefono del corridoio, per sentire le ultime novità da Ercole, il capoclasse, così detto per la sua corporatura e la sua altezza da mastodonte. Egli mi confermò la notizia dello sciopero: la partecipazione delle scuole medie era facoltativa, ma lui s’era impegnato, e con lui i capi delle altre classi, a picchettare l’ingresso degli istituti, convincendo i compagni a disertare le lezioni. Io non tacqui i miei problemi e lui fu lesto a suggerirmi:”Vieni a scuola senza libri e, nel caso in cui i tuoi abbiano a ridire, potrai inventarti la scusa che il professore della prima ora non ti ha ammesso in classe.”
L’indomani uscii di casa per tempo. All’ingresso della scuola trovai Ercole, già nel pieno svolgimento del suo compito, mentre stava questionando con il Preside. La maggior parte degli alunni erano entrati alla chetichella, ma un bel gruppo, assai numeroso, stazionava nell’atrio, renitente ai richiami dei professori.
“Vi escluderanno, vi escluderanno… e avrete sette in condotta al primo trimestre.” ammonivano.
Quando fu l’ora convenuta, partimmo alla volta del luogo della manifestazione, dove ci saremmo riuniti al grosso del corteo. Eravamo allegri come una pasqua, felici di marinare la scuola, ma consapevoli dell’importanza dell’evento. Ercole e altri – come lui più informati – commentavano variamente le notizie dell’ultima ora. Ma, chi più chi meno, tutti conoscevamo l’Ungheria e Budapest, il Danubio e il lago Balaton e non avevamo bisogno di più per essere solidali con quel popolo. E poi l’Ungheria, al Festival del folklore, ogni anno mandava un signor gruppo, che sciorinava nelle danze tutta la sua bravura e riscuoteva sempre simpatia. Era bello vedere passeggiare, nel mese di febbraio, le flessuose ragazze ungheresi, dagli occhi azzurrissimi e dalle trecce voluminose, che scendevano sulle loro spalle, quasi a sfiorare il selciato. Per mio conto, avevo divorato I ragazzi della via Pal di Ferenc Molnar e avvertivo in quel momento una strana emozione, come se stessi vivendo una situazione non dissimile da quella del libro.
Discorrendo e scherzando, avevamo così raggiunto una fiumana di studenti, a metà del Corso principale.
Avvistai, quasi immediatamente, mio fratello, il quale mi fece da lontano un gesto abbastanza eloquente:
“Arrivati a casa, le buscherai!” era il significato.
Non ci fu il tempo di parlare, perché, stretti nella morsa dei poliziotti, che ci sbarravano la strada a monte e a valle, rimanemmo imbottigliati. Non avevamo scampo: già i primi avevano ricevuto una buona razione di manganellate. Ebbi solamente il tempo di vedere Ercole e alcuni caporioni delle scuole superiori, sorta di giganti senza paura, lottare corpo a corpo con i questurini, perché mio fratello, rapido come un fulmine, mi spinse, assieme a una dozzina di ragazzi tra i più piccoli, in un portone. Riuscimmo a sprangarlo e non ci rimase che aspettare la fine della mischia. Mio fratello mi guardava silenzioso, pallido come un cencio per lo scampato pericolo. Si vedeva che tutta la sua preoccupazione era per me. Ogni tanto guardava dallo spioncino e, quando ne aveva la possibilità, apriva uno spiraglio, tanto quanto per consentire l’ingresso a qualcuno dei dimostranti.
La mischia durò appena mezz’ora, ma a noi, che tremavamo come foglie, sembrò un secolo. Più tardi, apprendemmo qualche dettaglio. Alcuni studenti, tra i quali Ercole, erano finiti all’ospedale a farsi medicare, in compagnia d’un paio di questurini, anche loro pestati a ragione. Altri erano stati fermati dalla polizia e, dopo una lavata di capo, erano stati rilasciati. Si parlò anche dell’assalto alla sede dei Partigiani, da parte di alcuni infiltrati, estremisti d’estrema destra. Mio fratello, a casa, mi giustificò, dicendo che non ero stato ammesso in classe, per via dell’antologia che non avevo portato al professore della prima ora. I miei genitori finsero, probabilmente, di accettare quella motivazione.
In città le forze dell’ordine furono assai criticate, per essere scese in piazza armate di manganelli, più per offendere che per difendere, e per aver consentito l’infiltrazione di picchiatori d’estrema destra. Le notizie s’accavallarono, e come sempre non si seppe mai la verità vera. Mio fratello non fece alcun motto, per lui l’episodio era acqua passata. A me rimase un rimpianto, di non aver potuto gridare “Ungheria! Ungheria!”
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Durante la frequenza del liceo, avevo preso a studiare regolarmente con un mio compagno di classe, con il quale ero molto affiatato, al punto di dividerci, come fratelli, quei pochi soldi che avevamo in tasca e che non bastavano mai. Per essere più indipendenti, andavamo a studiare a casa dei suoi nonni, nella parte alta della città, dalla quale potevano vedersi i tetti di tutte le case, a scendere, giù giù, fino ai quartieri periferici; e da dove si poteva godere un magnifico panorama: della Valle dei Templi, del porto, della grande baia, da Punta Bianca a Capo Rossello, e, in fondo, dell’azzurra distesa del mare africano.
Il mio compagno, di pomeriggio, riceveva spesso un’amica e io ne approfittavo per affacciarmi al balcone del terzo piano, guardando a quello sottostante del palazzo di fronte, dove abitavano due giovani sarte, molto belle, dagli occhi azzurri, che si mettevano a cucire di pomeriggio sul balcone.
Il nostro regno era costituito da tre amplissime stanze, nelle quali potevamo fare tutto quello che ci talentava, considerato che il nonno del mio compagno, un invalido dagli arti inferiori amputati, che si muoveva a stento sulle stampelle, e la nonna, del tutto cieca, s’erano confinati a vivere in una grandissima camera da letto. Il mio amico se la prendeva comoda, ed io sbarcavo il lunario, cercando l’approccio con le giovani sarte, in verità con labili risultati.
Certe sere, alla fine delle lunghe ore di studio, con le teste ancora fumanti dei classici greci e latini, inventavamo per celia strani giochi. Dall’elenco telefonico sceglievamo dei cognomi, quelli che più potevano prestarsi all’ilarità, e congegnavamo preventivamente qualche storia, per poi effettuare spassose telefonate. Il più delle volte ci andava buca, e i malcapitati, inviperiti per il disturbo, ci sbattevano il telefono in faccia. Ma ogni tanto c’era un ingenuo, o un’ingenua, che ci dava retta. Così, con la scusa della telefonata misteriosa, trascorrevamo qualche ora in allegria.
Un pomeriggio di quelli, trovammo un cognome straniero: Ozebek. Apparteneva ad una donna e chissà perché pensammo subito che si trattasse d’un cognome ungherese. Concordammo che il mio compagno, sempre in gamba a padroneggiare la voce e a non farsi scoprire, avrebbe finto di chiamarsi Zatopek, ingegnere di passaggio venuto in Sicilia per affari, che per caso aveva scoperto l’esistenza di una connazionale ostetrica (tale era la professione segnata sull’elenco telefonico).
Qual non fu la nostra meraviglia nel sentire, all’altro capo del telefono, una voce giovanile, calda, gentile, dolcissima, vera musica per le nostre orecchie. Ci fece subito sognare, soprattutto quando sentimmo invitare l’ingegnere Zatopek ad andarla a trovare. Da orditori di piccoli inganni, ci sentimmo irretiti in un vero mistero. Le ungheresi le vedevamo ogni anno intrecciare danze stupende al Tempio della Concordia, giovanissime, leggiadre, scatenate. Erano le nostre ragazze ideali, il nostro sogno, con quegli occhi azzurri e il sorriso sulle labbra. Chissà com’era bella l’ostetrica Ozebek! Poteva essere una danzatrice, innamoratasi di Agrigento e rimasta in città; oppure era una viaggiatrice, arrivata per una visita fugace, e poi fermatasi, non si sa per quale imperscrutabile caso? Con quella voce non poteva che essere bella!
S’era deciso che, il pomeriggio dell’indomani, io passassi dalla via indicata sull’elenco telefonico, in prossimità di casa mia. Arrivato al numero civico 21, notai un bel portone con un’artistica buca per le lettere e uno spioncino dorato; lo sormontava un lavorato balcone in ferro battuto, dal quale sporgevano numerosi vasi di fiori e di piante rampicanti. Lo stile era quello di chi amava la bellezza, la musica, la natura. E per gioco strano del destino, quei canoni s’erano come incarnati in quell’impareggiabile voce. Mentre, assorto in tali pensieri, m’ero allontanato alquanto, fui destato all’improvviso da una voce sublime, la stessa che avevo sentito al telefono e che ora mi arrivava alle spalle come un’onda sonora. Me ne stetti immoto a gustare la musica di quella voce: accordo armonico di suoni da me trovati nella mia anima?
Forse era paradossale, ma quella voce rievocava in me sogni d’infanzia; nenie soavi, forse, che riaffioravano prepotentemente. Quando mi voltai, l’incanto di colpo si dissolse. La voce, sì, era inconfondibile e gradevole come sempre, ma davanti a me c’era un’anziana signora dai capelli bianchi, grassa e incurvata dagli anni, nei tratti della quale e soprattutto negli occhi, aleggiava il pallido ricordo di un antico splendore, che strideva con i toni attuali del sogno.
(Ubaldo Riccobono, tutti i diritti riservati)