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UN ANNO DA LEONI
L’anno sociale 2008/2009 per il Club Lions Agrigento Host è stato assai impegnativo, ma gratificante: l’anno del cinquantenario della fondazione che ha permesso di sviluppare ben 50 services in tutte le direzioni che hanno coinvolto l’intera città. Ne è scaturita in conclusione una pubblicazione ricchissima che traccia, attraverso la storia del club, la storia della città dal 1959 ad oggi. Assieme a tanti altri studiosi, storici, giornalisti, letterati, ho dato un mio contributo, di cui riporto gli argomenti che ritengo più attinenti al mio blog.
Voglio segnalare alcuni passaggi del saluto dell’Arcivescovo Metropolita di Agrigento, Don Francesco Montenegro, Socio Onorario del club, persona di grande spessore culturale e di notevole umanità:
Un motto, un impegno, una storia: così mi piace sottolineare ed iniziare il mio messaggio augurale per il cinquantesimo anniversario, per il "giubileo" del vostro prestigioso sodalizio…
Un motto: WE SERVE, "noi serviamo", club di servizio per il primato della persona e per il bene civico, culturale, sociale e morale della comunità: finalità che hanno come destinatario l’uomo non generico ed astratto, ma un uomo concreto che vuol realizzare in uno specifico contesto esistenziale; una mano pronta e aperta a stringere ed afferrare quella di chi chiede con speranza e fiducia; un impegno che durerà nel tempo.
CLUB LIONS AGRIGENTO HOST
CINQUANTENARIO NELL’ISOLA DA AMARE
di Ubaldo Riccobono
*Segretario del Club
Il Cinquantenario di un club è un evento altamente emozionante ed irripetibile. Ma quello celebrativo dell’Agrigento Host ha superato ogni confine, per assurgere quasi al mito, nel senso greco del termine, che vuol dire racconto favoloso, leggenda: se non per altro, per quell’impareggiabile collegamento tra presente e passato che ha saputo tracciare il Governatore, Prof. Francesco Amodeo, nell’anno sociale del suo azzeccato superprogetto “Sicilia, l’Isola da amare”.
«Nella più bella città dei mortali decantata da Pindaro» ha affermato il Governatore «il Club Lions Agrigento Host iscrive nei suoi Annali questo meraviglioso traguardo, che non è soltanto la festa di un club, ma la festa dell’intero Distretto.»
Un cinquantenario significa rinverdire i valori sociali dei fondatori attraverso le opere, rendendone partecipi i più giovani, per far comprendere appieno l’umanità del Lionismo e le sue radici, retaggio che si tramanda e mai si può disperdere, essendo fondato sulla concretezza delle realizzazioni.
Non a caso il Presidente del Club, dott. Salvatore Bennici, ha voluto fortemente l’annullo filatelico con una cartolina celebrativa che rappresenta il Tempio di Castore e Polluce e l’altare delle divinità Ctonie dell’antica Akragas, illuminati dall’emblema distintivo dei Lions, con i raggi che idealmente si dipartono ad illuminare il mondo. Vecchio e nuovo a voler sancire questo legame imperituro, messaggio forte che parte dalla Città dei Templi, dalla città di Pirandello, il quale ne “I vecchi e giovani” aveva ribadito il concetto forte dei giovani vecchi in spirito e dei vecchi giovani di mente e di cuore. Ed è su questa falsariga che il Club Agrigento Host, come tutti gli impareggiabili altri clubs, s’iscrive come punto fermo di questo intramontabile megaprogetto “Sicilia, l’isola da amare”.
AL CINQUANTENARIO
Racconto inedito
di Ubaldo Riccobono
Venticinque centesimi al giorno, la metà del costo d’un biglietto dell’omnibus d’andata e ritorno per Mondello: questo era l’obolo che il Regno d’Italia gli versava come pensione di guerra.
Quella miseria non valeva nemmeno il ricordo di pochi metri della marcia a tappe forzate, che cinquant’anni prima, da Milazzo, aveva portato loro garibaldini e i picciotti al Volturno, attraverso i tanti paesini della Sicilia e della Calabria, con il rischio di continue imboscate negli impervi valloni o nelle assolate contrade costiere.
Camminavano come automi grondando sudore, in silenzio, la mente obnubilata che aveva perso la lucidità miglio dopo miglio. Ogni tanto si sentiva il sinistro crepitio delle pallottole, mentre si vedeva qualcuno cadere. Buttandosi a terra, dietro uno spuntone di roccia o al riparo di un albero, rispondevano a casaccio ai cecchini, per riprendere subito dopo la marcia. Spesso, a sparare era la gente del posto che li considerava briganti della peggior specie, venuti a saccheggiare.
Costoro, della patria che ne sapevano?
Loro, sì, s’erano trovati in tanti con Garibaldi, sulla piazza della Fieravecchia, a gridare ossessivamente, alzando il pugno per aria minaccioso:
«Megliu moriri sparannu, ca moriri di dissintiria!»
Si diceva che i Borboni inoculassero il germe del colera: «Lo propagano dovunque a bella posta, quegli untori maledetti! » era il pensiero unanime.
Non era vero, naturalmente; ma sicuramente portavano sfortuna quei regnanti lontani, che in Sicilia, si poteva dire, non avevano messo piede ed erano odiati più del colera.
Così andava almanaccando Stefano Pirandello nel giorno del Cinquantenario, davanti allo specchio della stanza dell’albergo dirimpetto alla stazione centrale di Palermo, mentre s’aggiustava religiosamente la barba fluente, preparandosi in pompa magna per la cerimonia.
S’era portato appresso perfino le medaglie al valore, guadagnate sul campo, da appuntare al petto sulla divisa di carabiniere genovese, che la moglie, pur controvoglia, gli aveva smacchiato e stirato tra mille mugugni.
A nulla erano valsi gli estenuanti tentativi di dissuasione delle sue donne, la moglie Caterina Ricci Gramitto e la figlia Annetta, e neanche le scenate e le lacrime, dettate dalla paura che gli potesse capitare un accidente. Perse per perse avevano ritenuto di scrivere a Roma, a Luigi: una lettera accorata, nella quale denunciavano la sua pazzia di volersi recare, a settantacinque anni, per cinque giorni a Palermo, in quella che sarebbe stata una baldoria inaudita.
Luigi, conoscendolo di grosse campane, aveva risposto di soprassedere: tanto, se doveva tirare le cuoia, meglio al cinquantenario che nell’anonimato di un letto.
«Carabiniere garibaldino muore al Cinquantenario!Bel titolo di giornale per incuriosire la gente!» si disse, sapendo che non sarebbe stato il suo caso. Ormai s’era fatta la prognosi meglio di un medico: «Morirò vecchio e rimbambito».
La Morte con lui aveva preso il gusto dell’umorismo: si divertiva a lasciarlo al mondo, per dargli schiaffi d’avvertimento quando meno se l’aspettava, per proprio divertimento, come a dirgli: «vedi che, quando voglio…».
Quante volte l’aveva risparmiato!
A Milazzo ad esempio, nella cruentissima battaglia alterna fino al tramonto, dove più volte s’erano visti perduti, l’aveva fatta franca, rimediando soltanto una lieve scalfittura per una pallottola di striscio. Poi, poco prima che Luigi nascesse, in un bellissimo giorno d’inverno – di quelli con il sole che spacca le pietre e il cielo terso di color cobalto – s’era sentito all’improvviso divorare tutto dalla febbre: «Colera!», certezza terrificante.
Davanti ai suoi occhi s’erano subito affollate le immagini del suo funerale: la moglie incinta e la figlioletta Rosolina, attaccata alla sua sottana, che seguivano il feretro, inconsolabili, sostenute da amici e parenti; e tutti – lui per primo dalla bara, umoristicamente – a domandarsi: «perché?».
La Morte, invece, non l’aveva voluto!
Imprevedibilmente era guarito, grazie ai mattoni ardenti che, nell’Ospedale di via Atenea, gli avevano posto su tutto il corpo, quasi ad ustionarlo: un’incredibile cura tramandata di padre in figlio dai tempi di Acrone, famoso medico greco, guaritore con il fuoco e il calore. Ed in seguito era stato rifiutato per l’ennesima volta nella quinta imboscata maledetta in contrada Consolida, dove s’erano appostati, celati alla vista, due mafiosi rapinatori, per aspettarlo al varco con le mesate dei minatori: al suo diniego, ad uno il fucile non s’era inceppato provvidenzialmente?
E da allora aveva cominciato a fregarsene: «La vita a chi resta, la morte a chi tocca!» ripeteva spesso, beffardo. Tutto sommato la vita era maledettamente stupida e breve, rispetto all’eternità. Perché affannarsi?
Già, ma perché era voluto venire al cinquantenario?
Ora tante domande gli picchiavano nel cervello, mentre andava indossando la divisa di carabiniere genovese. Il cinquantenario era un rituale per chi restava, una passerella per i politici, una celebrazione di grandeur della monarchia? Oppure rappresentava il ricordo di chi non c’era più, dei garibaldini ammazzati, dei picciotti sacrificati, degli ex commilitoni morti in miseria in manicomio?
Le medaglie che aveva appuntato al petto, le sentì pesare come macigni. Dando un veloce sguardo d’assieme nello specchio, pensò alla ridicolaggine d’aver pensato inizialmente di voler essere spettatore, un mese fa, alla gara aviatoria di Mondello. Allora, s’era lasciato convincere: mettere le tende a Palermo per un mese, solo come un cane, era davvero un’eresia. E perché poi? Per osservare per la prima volta gli aerei solcare il cielo, come un bambino?
Ce n’era d’avanzo per il cerimoniale conclusivo: era quello che contava; quello avrebbe permesso a tutti di rievocare i vecchi commilitoni.
Avrebbero commemorato i morti chiamando l’appello, a cominciare dai più sfortunati?
«AjelloGiuseppe fu Giusto, morto nel manicomio di Palermo il 1° dicembre del 1869»
«Airenta Gerolamo fu Giovambattista, morto nel manicomio di Milano nel dicembre del 1875»
«Brambrilla Prospero fu Prospero, morto demente nel manicomio di Ostino, a Bergamo»;
«Campanella Gaspare, di Palermo, morto suicida ad Arma di Taggia…»
No, non sarebbe andata così! Avrebbero chiamato i famosi, unendo ai nomi dei Garibaldi deputati del Regno – l’eroe dei due mondi Giuseppe e il figlio Menotti – il nome di un Garibaldi meno noto, ma pur sempre un Garibaldi: Giovanni Stefano Agostino di Domenico, morto al ponte dell’Ammiraglio a Palermo per ferite d’arma da fuoco e di baionetta.
Sicuramente avrebbero citato i Bixio, i La Masa, i Crispi, Giacinto Carini, generale e deputato, il console generale ad Odessa Salvatore Castiglia, e tutta la sfilza degli alti papaveri che la spedizione di Garibaldi aveva elevato ai fasti del regno.
Mentre scendeva le scale dell’albergo, si disse che aveva ragione Luigi ad affermare che la vita era tutta forma e apparenza ed era un continuo farsi largo sulla scena per la notorietà. Contava chi aveva i soldi o le alte cariche, magari non meritate. La massa, carne da macello!
Milite ignoto! Come suonavano beffarde quelle due parole, mentre si sapeva tutto dei morti in battaglia, e sui monumenti comparivano nomi e cognomi di coloro che avevano fatto l’Italia con il prezzo del sangue.
La memoria non doveva essere utile per ricordare proprio i più umili, coloro che erano stati determinanti e magari traditi? Sì, traditi! Non parlava per sé. In fondo era stato un benestante, anche se la sorte non era stata benigna e ora, lui e la moglie, per i ciechi colpi del caso erano costretti a campare con l’aiuto dei figli, in una casa del genero, a Porto Empedocle.
La sua, dunque, forse era una rivincita? Come dire: «vengo a questa festa del cinquantenario povero in canna, ma con la pelle ancora intatta e le mie brave medaglie al petto».
Era venuto a Palermo proprio per ostentare, per esibire, per testimoniare il suo esserci nei giuochi delle apparenze?
Quando uscì sulla piazza della stazione alla ricerca dell’omnibus dei Reduci, si sentì vecchio, carico d’anni, inadeguato nella sua uniforme di carabiniere genovese; mentre il traffico e il viavai delle persone, che lo osservavano incuriosite, lo frastornarono e quasi lo fecero barcollare.
12 TARGHE PIRANDELLIANE
NEL CENTRO STORICO
Oltre due anni fa notai che nella risistemazione del Piano di Gamez, nel centro storico agrigentino, non rimaneva più traccia di una fontanella, invero fatiscente, ma di grande valenza storica perché citata da Pirandello ne I vecchi e i giovani. Quand’ero studente ginnasiale e liceale andavo a studiare, quasi tutti i giorni, a casa del nonno di un mio compagno, a pochi metri dalla fontanella. Ne scrissi un articolo Città senza memoria su un giornale locale e mi venne l’idea di un progetto di una serie di didascalie che potessero evidenziare i luoghi citati da Pirandello nelle sue opere. Grazie al Presidente, Salvatore Bennici, e a tutto il Club, che hanno assecondato questo progetto, sono state realizzate queste prime 12 targhe, accompagnate da un itinerario curato dalla moglie del Presidente, prof.ssa Angela Argento.
La Passeggiata
Quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e seguitava poi in silenzio, come se l’uno avesse dato all’altro da ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi; entrambi con le loro mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva la tentazione di volgere un po’ il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell’aperta campagna sottostante, svariata di poggi e valli e di piani, col mare in fondo, che s’accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto…
Scialle nero, novella, 1900
Il Collegio degli Oblati
Il Collegio degli Oblati sorgeva nel punto più alto del paese ed era un vasto edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie; tutto bianco, all’incontro, arioso e luminoso, dentro. Vi erano accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparavano le varie arti e i vari mestieri.
I fortunati, novella, 1915
Chiesa di S.Francesco d’Assisi
La statua della SS. Immacolata, custodita tutto l’anno dentro un armadio a muro nella sagrestia della chiesa di S.Francesco d’Assisi, il giorno otto dicembre, tutta parata d’ori e di gemme, col manto azzurro di seta stellato d’argento, dopo le solenni funzioni in chiesa, era condotta sul fercolo in processione per le erte vie di Montelusa, tra le vecchie casupole screpolate, pigiate, quasi l’una sull’altra; su, su, fino alla Cattedrale in cima al colle; e lì lasciata, la sera, ospite del patrono S. Gerlando.
Visto che non piove, novella, 1915
La Cattedrale
Se non che, quando già alla piazza della Cattedrale era cominciata ad affluir la gente per la processione e s’era finanche aperta la porta di ferro su la scalinata presso il seminario, donde la SS. Vergine soleva uscire ogni anno, e dal seminario erano arrivati a due a due in lungo ordine i seminaristi parati coi camici trapunti, e tutt’in giro alla piazza erano stati disposti i mortaretti, ecco sopravvenire in gran furia dal mare fra lampi e tuoni una nuova burrasca.
Visto che non piove, novella, 1915
Il Palazzo Vescovile
Il sagrestano, dagli di nuovo a sonar tutte le campane per scongiurarla, sul fermento della folla che s’era messa intanto a protestare, indignata perché sotto quella incombente minaccia del tempo i canonici volessero mandar via a precipizio la Madonna. E fischi e urli e invettive sotto il palazzo vescovile, finchè Monsignor Vescovo, per rimettere la calma, non aveva fatto annunziare da uno de’ suoi segretarii che la processione era rimandata alla domenica seguente, tempo permettendo.
Visto che non piove, novella, 1915
La Bibirria
La casa sorgeva nel quartiere più alto della città, in cima al colle. La città aveva lassù una porta, il cui nome arabo, divenuto stranissimo nella pronunzia popolare: Bibirria , voleva dire Porta dei Venti. Fuori di questa porta era un largo spiazzo sterrato; e qui sorgeva solitaria la casa del Granella.
La casa del Granella, novella, 1905
Santa Croce
Alzò gli occhi, così pensando, a Girgenti che sedeva alta sul colle con le vecchie case dorate dal sole, come in uno scenario; e cercò nel sobborgo Ràbato, che pareva il braccio su cui si appoggiasse così lunga sdraiata, se gli riusciva scorgere il campaniletto di Santa Croce, ch’era la sua parrocchia. Aveva là presso un casalino, dove avrebbe chiuso gli occhi per sempre…
Il vitalizio, novella, 1901
Piano di Gamez
Era già lontana; lontana la voce, lontana la figura; e quella casetta, sulla cui facciata chiara in mezzo al Piano umido e nero si rifletteva la luna, e quel Piano stesso, il chioccolio della fontanella, e quelle anguste viuzze storte, nere, tutto il paese silenzioso nella notte, alto sul colle, sotto le stelle, ogni cosa gli parve come lontana ormai; gli parve come se egli da lontano, con tristezza infinita, con infinita angoscia contemplasse la propria vita che rimaneva lì, strappata da lui
I vecchi e i giovani, romanzo, 1909
Piazza San Domenico
Venendo su dal Rabato, per Piazza San Domenico notarono subito un movimento insolito lungo la via maestra. Quattro, cinque monellacci, correndo e fermandosi qua e là, strillavano il giornaletto clericale Empedocle, che pareva andasse a ruba.
I vecchi e i giovani, romanzo, 1909
Santo Spirito
Soltanto le monache della Badia Grande, affacciandosi alle grate a gabbia, avevano potuto vederla dall’alto, quand’ella veniva a prendere, sul vespro, un po’ d’aria nell’angusto giardinetto pensile della casa, ch’era addossata alla tetra, altissima fabbrica di quella badia, già antico castello baronale dei Chiaramonte.
I vecchi e i giovani, romanzo, 1909
Via Atenea
La larga strada del sobborgo, molto animata durante il giorno, restava poi, la sera, silenziosa e sola come una contrada di sogno, con le alte case in fila, su le cui finestre la luna rifletteva un verde lume qua e là.
L’esclusa, romanzo, 1901
Il Tribunale
In Piazza Sant’Anna, ov’erano i tribunali, nel centro della città, s’affollavano i clienti di tutta la provincia, gente tozza e rude, cotta dal sole, gesticolante in mille guise vivacemente espressive: proprietarii di campagne e di zolfare in lite con gli affittuari e coi magazzinieri di Porto Empedocle, e sensali e affaristi e avvocati e galoppini…
I vecchi e i giovani, romanzo, 1909
Il mistero del leone dormiente
di Ubaldo Riccobono
Alla ricerca dello spirito lionistico ho desiderato dare un’interpretazione a questo leone, che molti turisti vanno spesso ad osservare, chiedendosi del significato di questa scultura. Per la verità l’obiettivo era quello più ambizioso di un suo ripristino, che il club poteva intestarsi donandolo agli agrigentini. Ma non è detto che l’idea non possa essere ripresa in futuro.
Dorme da quasi 149 anni il Leone di Piazza del Purgatorio, disteso pigramente sul pilastro che sormonta due colonne cilindriche che compongono il fregio del misterioso accesso agli ipogei agrigentini. E dorme anche il mistero dell’intera costruzione, perché critici d’arte e storici pochissimo ci hanno tramandato. Si sa soltanto che l’adito fu aperto per la prima volta nel 1860, anno del Risorgimento, ad opera di un tale Alaimo, ingegnere agrigentino.
Se la sistemazione dei luoghi può essere giustificata dall’esigenza dell’epoca di dare un assetto definitivo e consolidato all’articolato complesso sotterraneo di cunicoli e camere di raccolta, che lasciavano tracimare pericolosamente acque sorgentizie e piovane, la scelta come fregio di un leone dormiente non appare il frutto di un’occasionale bizzarria dell’ideatore.
E’ verosimile che, nella mente dell’artista o del committente, la scultura fosse da collegare all’unicum del pregresso impianto scenografico dell’intero contesto zonale, che rappresentava originiaramente, per la borghesia agrigentina emergente, la Piazza della città nuova.
Scelta antifeudale, dunque, e d’affrancazione da anacronistiche condizioni e retaggi del passato, che venivano a contemperarsi in nuovi stili più liberi, rispetto ai quali i luoghi di vita avevano tanta parte. Lo scenario, in cui s’incardinavano le nuove opere, era quello di due chiese, San Lorenzo e Santa Rosalia, poste in un’enclave, in cui confluivano e s’intersecavano le strade maestre di via Atenea e di via Carnevali – oggi Foderà – creando un tessuto urbano di riferimento, più che d’un ceto, di una classe. Non a caso l’edificazione della basilica di San Lorenzo, identificata da sempre come Chiesa del Purgatorio, fu concomitante all’istituzione e all’attività della Congregazione laicale delle Anime Purganti, fondata da una classe ricca e abbiente, che voleva creare proprio nella piazza il motore urbano e lo snodo di collegamento con la città alta.
Il fasto della facciata barocca di San Lorenzo, divisa in due ordini con portale a colonne tortili laterali, fiancheggiate da statue, e con una massiccia torre campanaria, unitamente al prospetto d’ispirazione borrominiana di Santa Rosalia, intendeva creare, anche con l’ausilio della fuga delle scalinate, un movimentato sia pure asimmetrico colpo d’occhio.
All’interno, i candidi e magnifici stucchi del Serpotta, la Cappella del Crocifisso del Carletto, la splendida Madonna del Melograno, di scuola gaginiana, furono intesi a conferire un contesto armonico di “sala a predicazione”, per fare della Chiesa del Purgatorio un preciso punto di riferimento per le celebrazioni. Tutte le solennità venivano ivi celebrate, come ci dice lo storico Giuseppe Picone, a proposito delle messe funebri in memoria di Cavour il 9 luglio 1861 e di Vittorio Emanuele il 9 febbraio del 1878, con scenografie di straordinaria efficacia da lui stesso suggerite.
Quindi l’inserimento di un fregio, in sede di risistemazione dell’angolo da cui s’accedeva agli Ipogei, obbediva a un motivo di completamento ornamentale della “Piazza per Eccellenza” della nuova città. Ciò si rinviene anche nel preciso richiamo dialettale del detto agrigentino “ni videmu mmezzu a chiazza”, con il quale gli amici usavano darsi appuntamento per andare a passeggiare nel corso principale, la Via Atenea, che, pur estendendosi in lunghezza, nella parte di mezzo aveva proprio la Piazza del Purgatorio.
La testimonianza più importante della centralità della piazza ci viene dal racconto di Giuseppe Picone della prima manifestazione insurrezionale agrigentina nell’aprile del 1860, seguita alla notizia della disfatta della rivolta palermitana della Gancia del 4 aprile:
“Una mattina, si vede attaccata ad una delle statue laterali alla porta maggiore della chiesa del Purgatorio, una bandiera tricolore. La truppa circonda quel piazzale, ed uno dei soldati tira a sé la bandiera e mezza statua (perché composta di più pezzi non connessi), la quale precipitando, rompe una coscia ad un altro soldato.” (Giuseppe Picone, Memorie storiche agrigentine)
La bandiera tricolore, fatta sventolare, era stata cucita di nascosto, in un sottoscala, dalla madre di Luigi Pirandello, Caterina Ricci Gramitto, e dalla sorella Adriana, e portata ai rivoltosi dal loro fratello Innocenzo. L’episodio storico è ricordato da una lapide che può vedersi ancora affissa sulla facciata della chiesa. E a sancire la valenza storica di sacrario della chiesa, un’altra lapide ricorda un manipolo di agrigentini, caduti nella Grande Guerra, che riposano in una cripta del tempio.
Alla luce di ciò, la scelta del leone appare qualcosa di più di un semplice fregio ornamentale, rappresentando un vero simbolo di forza, di coraggio, di lealtà e di dedizione, là dove s’erano svolte manifestazioni di libertà – precipuamente quella risorgimentale – e celebrazioni di spessore nazionale, e venivano affisse dediche commemorative. E questa ipotesi l’accredita inequivocabilmente e ampiamente l’anno di erezione della scultura: il 1860. Che poi il leone sia dormiente, nulla toglie; anzi, è un motivo ulteriore per significare il “discreto e sommesso”, umile ma regale, presidio alla sacralità dei luoghi e della chiesa, dedicata al culto delle Anime Purganti. Infatti, nelle civiltà storiche il leone ha da sempre rappresentato un preciso riferimento a tali valori, come si evince in particolar modo nella religione cristiana, nella quale assume il simbolo di regalità-sacrificio (nell’Apocalisse il Cristo è il leone della tribù di Giuda), e a volte (leone alato) simbolo della Risurrezione. In tale contesto può ben inquadrarsi l’allegoria serpottiana con le 8 statue, poste all’interno della chiesa, rappresentanti le seguenti Virtù: l’amore, la semplicità, la carità, la prudenza, la giustizia, la religione, la fortezza, la mansuetudine.
L’ISOLA DA AMARE
E’ stato anche un anno importante per tutto il Distretto, impegnato nel superprogetto “Sicilia, l’Isola da amare” ideato dal Governatore, prof. Francesco Amodeo, il quale ha voluto fortemente una pubblicazione, per il recupero della memoria storica delle nostre radici. Ogni Club ha potuto partecipare con un proprio articolo e il risultato è stato assai interessante e variegato, con argomenti inediti ed originali. Il Club Agrigento Host ha dato la sua adesione con un mio articolo sulla antichissima pianta della Consolida e della contrada che ne prese il nome, la cui storia è ampiamente tracciata nel mio romanzo, intitolato appunto “Una contrada chiamata Consolida”.
Consolida: una pianta e un luogo,
tra storia, mito, filosofia e letteratura
di Ubaldo Riccobono
Con il suo viaggio in Sicilia cosa aveva cercato di così determinante Johann Wolfgang Goethe, da fargli esclamare «l’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto»?
Due cose innanzitutto: la visione del mondo classico (sintetizzata nella felice espressione nella Villa Giulia di Palermo: «tutto richiamava ai sensi e alla memoria l’isola beata dei Feaci» 7 Aprile 1787) e la ricerca della pianta originaria («presto avrò messo a punto le mie idee sulla pianta originaria; temo soltanto che nessuno voglia riconoscervi tutte le altre piante terrestri» Napoli, 25 Marzo 1787, 3 giorni prima della traversata per Palermo).
Non fu, dunque, soltanto il desiderio di ripercorrere le orme paterne in suolo italico o l’amore per il Bel Paese assimilato dal suo maestro, il monaco pugliese Domenico Giovinazzi, né l’ansia poetica di visitare la nazione dove fiorivano i limoni in fiore, avvertita imperiosamente sul Gottardo.
A 37 anni, il “ nordico fuggitivo”, alle prese già con l’opera incommensurabile “Faust”, sentì prepotente il bisogno di una rinascita intellettuale e d’artista, che soltanto la Sicilia, come completamento dell’anima, seppe dargli per sua stessa ammissione («il convincimento dei sensi e dello spirito che qui fu, è e sarà la grandezza»).
Per il suo viaggio nella classicità dell’isola omerica, Goethe s’era fatto accompagnare dal suo connazionale, il pittore Christoph Heinrich Kniep, che aveva il compito di riprodurre quanto di rimarchevole avrebbero trovato sul loro cammino.
I due raggiunsero Girgenti – l’antica Akragas e l’attuale Agrigento – il 23 aprile del 1787 e ne ripartirono il 28, ospitati per quattro giorni dalla famiglia del barone Celauro, studioso autodidatta della natura che lo mise a parte sui segreti e i misteri di una pianta antichissima, chiamata dai romani Consolida.
Questa e altre esperienze in suolo siciliano gli avrebbero fatto successivamente affermare sul saggio Verfasser teilt Geschichte seiner botanischen Studien mit: «Così fu che in Sicilia, meta estrema del mio viaggio, ebbi la piena rivelazione dell’identità originaria di tutte le parti che costituiscono la pianta».
L’idea della Urpflanze, il prototipo originario di tutte le forme vegetali, gli era nata a Padova, nella grande varietà di specie vegetali dell’Orto Botanico più antico d’Europa: «acquista nuova forza la congettura che tutte le forme vegetali abbiano potuto svilupparsi da un’unica pianta», anche se aveva confessato allora «a questo punto della mia filosofia botanica mi sono arenato, e non vedo ancora in che modo districarmi».
Fu certamente quella pianta mitologica siciliana, che ai suoi tempi si poteva rinvenire in grande varietà di forme, dai paesi del Mediterraneo fino al Baltico, che diede linfa alla sua idea del formarsi di ogni organismo animale o vegetale da un unico archetipo, e all’estrinsecazione del suo concetto filosofico della natura quale abito vivente della divinità («c’è in lei una vita eterna, un eterno divenire, un moto perenne»).
Tuttavia l’episodio della rivelazione della pianta, come tantissimi altri, non fu evidenziato nella sua opera, Viaggio in Italia, perché lo scrittore tedesco pose mano alla narrazione del suo itinerario italico – avvenuto dal 3 settembre 1786 all’aprile del 1788 – ben 28 anni dopo il suo ritorno in patria a Weimar, forse volendo circondare di un alone di mistero i suoi studi e dare più originalità alla genesi della sua concezione.
Comunque, decisiva consapevolezza nelle sue teorie filosofiche la ebbe dal fatto irripetibile di trovarsi nella terra di Empedocle, il più grande filosofo della natura, che aveva dedicato una somma eccezionale di osservazioni ai fenomeni naturali, dalla botanica alla zoologia e alla fisiologia, esponendo originali concezioni sulla evoluzione degli organismi viventi. E la scoperta della pianta, con la quale Empedocle aveva curato i suoi concittadini, gli sembrò strabiliante, come se egli si fosse trovato nel cuore dell’antichità, facendo un salto di millenni. Ostile al meccanicismo, egli trovò nella visione ciclica empedoclea, che riusciva a contemperare l’Essere (l’Uno di Parmenide) con il Divenire ( con i “cangiamenti” continui delle quattro radici – fuoco, terra, acqua, aria – in virtù delle forze motrici aggreganti e disgreganti di Amicizia e Astio), un precedente eccezionale per costruire la sua teoria della metamorfosi universale, come divenire intimamente spirituale; in ciò sollecitato ancor più dalla novità e dalla varietà della flora mediterranea.
Al di là della condivisione o meno del naturalismo panteistico goethiano, o della certezza che la pianta agrigentina possa essere stata davvero quella originaria preconizzata da Goethe, appare inconfutabile che la Consolida, molto conosciuta dai greci, come dimostra l’etimologia del suo nome scientifico “Symphytum Officinale” (συμφτον), risalisse alla notte dei tempi. Da sempre usata per curare le fratture e le ferite, per le sue capacità di rimarginarle (il verbo greco συμφύω significa unire, rimarginare, consolidare), le sue proprietà naturali ne fecero anche un efficace colorante, grazie al colore dei suoi fiori che variavano dall’azzurro al violetto: particolare che entusiasmò lo stesso Goethe, nella cui “teoria dei colori” si rivela lo stesso atteggiamento conoscitivo dei fenomeni naturali.
Si tramanda che Falaride, l’esecrato tiranno dell’antica Akragas, che fece la sua polis molto potente riuscendo a governare tutta la Sicilia, usasse indossare vestiti colorati con la pianta; e, quando la sua tirannide venne rovesciata, ad Akragas fu imposto il divieto di utilizzare la pianta come colorante e d’indossare vestiti di colore celeste.
Ma non era sempplice posa quella del tiranno, perché il colore celeste costituiva un segno significativo di potenza, che s’era tramandato di generazione in generazione, essendo legato al culto e ai miti di Zeus, venerato da sempre nella polis akragantina, dove esistevano ben tre templi dedicati al padre degli dei: Polieo, Atabirio, Olimpico. E’ certo in ogni caso che la pianta all’origine crescesse in abbondanza in una contrada acquitrinosa, in un sito abitato da ninfe, una delle quali di nome Asterope era stata sedotta da Zeus. Da questa unione era nato il gigante Akragas, che, ribellatosi al padre, fu poi trasformato nel fiume omonimo, dando anche il nome alla città.
La contrada, dove cresceva la pianta, era una zona alluvionale digradante verso due sottostanti valloni imbriferi, nei quali scorrevano i due fiumi sacri, l’Akragas e l’Hypsas. Dei luoghi il premio Nobel Luigi Pirandello, nel romanzo “I vecchi e i giovani”, offre una sintetica quanto interessante descrizione: «A destra si levava fosco e imminente monte Caltafaraci; più in là, in fondo, il San Benedetto; quindi s’allargava il piano di Consolida e, a mano a mano, sempre più verso ponente, il pian di Clerici, di là della montagna di Carapezza e di Montaperto più qua. Giù, dirimpetto, la Serra Ferlucchia, gessosa, mostrava le bocche cavernose delle zolfare e i lividi tufi arsicci dei calcheroni spenti».
Lo scrittore agrigentino conosceva molto bene la contrada, perché vi passava ogni giorno per recarsi ad Aragona, a dare aiuto – per un breve periodo – nella gestione della miniera del padre. E proprio nei pressi di Consolida il genitore dello scrittore era stato oggetto di un agguato mafioso, ad opera di due facinorosi che intendevano rapinargli le mesate dei minatori; però senza conseguenza alcuna, in quanto a quello dei due che aveva sparato s’era inceppato il fucile.
La testimonianza topologica di Pirandello assai dettagliata nei nomi, di origine romana o araba, ci indica con certezza che la fisionomia dei luoghi era rimasta quella originaria, a memoria d’uomo. E sicuramente lo scrittore che si documentava su luoghi, storie e leggende, sentendo gli abitanti del posto, non si era discostato da tali testimonianze.
Se quindi etimologicamente il nome della pianta e della contrada, che da essa prese nome, è l’esatta voltura latina del nome greco (cum-solida, pianta atta a consolidare), assai singolare è la storia di questa traduzione, perché colui che chiamò così la pianta per la prima volta, doveva possedere una conoscenza erudita della lingua greca. E per questo, non è lungi dal vero l’ipotesi che sia stato Cicerone, profondo cultore della lingua e della filosofia greca, questore della Sicilia, che a più riprese era stato ad Agrigento, per assumere testimonianze e prove in difesa della città dalle spoliazioni perpetrate da Verre. Durante i suoi soggiorni agrigentini, lo scrittore andava a trovare un suo grande amico medico, Nicone, che abitava fuori porta, a Consolida. E alla mente enciclopedica di Cicerone non mancava di certo la curiosità necessaria per interessarsi anche di questo aspetto della conoscenza. Certo è che la contrada prese il nome latino della pianta e si chiamò definitivamente Consolida. Con un’altra prova ci soccorre anche dal dialetto: nel paese di Aragona, assai più vicino a Consolida della stessa Agrigento, la pianta è chiamata da generazioni e generazioni “consolla”, una evidente contrazione dialettale del nome latino. E altra curiosità notevole è perfino una coincidenza: la costruzione del nuovo ospedale di Agrigento proprio in una contrada che ripete il nome da una pianta medicamentosa.