VINO & LETTERATURA
Mai titolo è stato più indicato per l’evento culturale svoltosi la settimana scorsa all’interno della Cantina Sociale “La Torre” di Racalmuto, con la presentazione di due libri, una silloge poetica in dialetto di Piero Carbone, “Pensamenti” (Coppola editore, € 7,50) e un racconto lungo di Nicolò D’Alessandro, “Buagimi, un’estate” (Coppola editore, € 7,50), presentato dallo scrittore Alfonso Gueli con letture di Lia Rocco, attrice del Piccolo Teatro Pirandelliano. E’ stato un battesimo felice tra il vino e la letteratura, elementi che in Racalmuto trovano addentellati fortissimi. Non a caso Leonardo Sciascia, memore dei meriti agricoli del suo paese e della prolificità dei suoi vigneti, che danno vini generosi, intitolò una delle opere più note: “Il mare colore del vino”. Ma un altro legame dello stesso segno esiste per la cantina La Torre, che sorge nella contrada Montagna, zona di miniere, una delle quali, in quota parte, Caterina Ricci Gramitto portò in dote a Stefano Pirandello, padre dello scrittore premio Nobel, Luigi, con atto del 15 novembre del 1863.
E’ un polo letterario di primo livello, quello di Racalmuto, arricchito da una cultura enologica di grande spessore, i cui vini sono ricordati da Sciascia in diverse opere (ad esempio Il contesto). Giustificata appare, quindi, la ferma volontà dell’ingegnere Angelo Cutaia, presidente de “La Torre”, di fare della cantina un luogo fisso d’incontro per eventi culturali, in un paese dove insistono il Parco Letterario e la Fondazione “Leonardo Sciascia, un Castello chiaramontano, completamente restaurato, un Teatro dell’Ottocento, chiese e conventi e altri monumenti notevoli. Tutto parla di Leonardo Sciascia in questa cittadina della Ragione, come giustamente è stata definita.
“PENSAMENTI”
di Piero Carbone
Alla ricerca del dialetto perduto
E’ toccato al sottoscritto l’onore di presentare la raccolta poetica, Pensamenti, di Piero Carbone (con letture dell’ottimo Giovanni Sardone, Presidente del Piccolo Teatro Pirandelliano): 60 poesie in dialetto racalmutese che abbracciano prevalentemente il periodo tra il 1980 e il 1990.. Ed è stata per me una fortuna, perché in prima battuta mi sono sentito trascinato nel crogiuolo della questione letteraria della lingua italiana. Piero Carbone, uno studioso e profondo conoscitore della sua Racalmuto, ha compiuto con l’ausilio del linguista Salvatore Trovato, ordinario di Linguistica generale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, una grande operazione di recupero del dialetto racalmutese originario, che quasi s’identifica con il dialetto di Girgenti, definito da Pirandello nella sua tesi di Bonn (Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti) la parlata più pura, più ricca di suoni, più vicina alla lingua italiana.
E’ vero che ogni dialetto, secondo il Premio Nobel, ha suoni e sviluppi di suoni, ma quello di Girgenti ( ed anche quello di Racalmuto quasi identico, salva qualche dittongazione con taluni strascichi) concorse più degli altri alla formazione della lingua italiana. Il Professore di filologia Pirandello – è il caso di dirlo – non si sottrasse alla polemica sulla “vexata quaestio” della Lingua, chiamatovi obtorto collo per rivendicare inoppugnabilmente l’importanza, in quel contesto, della Lingua Siciliana. Avere restituito, quindi, al dialetto di Racalmuto la sua originalità e la sua primitiva purezza, costituisce un risultato di valore assoluto nell’ambito degli studi linguistici e si colloca, rinverdendoli, nel solco delle elaborazioni filologiche pirandelliane. Quanto alla sostanza, il titolo “Pensamenti” la dice lunga sul significato linguistico dell’opera. Pensamento è un termine plurisignificato, quasi filosofico-evocativo, usato spesso dai poeti eccelsi in varie accezioni. E Carbone lo usa “ex professo”, come lui stesso spiega nel Preambolo dell’opera:
Trovo segnato nei manoscritti che questi pensamenti poetici, così detti per gli echi e i sentori cui alludono (“piensa el sentimiento, siente el pensamiento”), sono quasi tutti datati nel decennio che va dal 1980 al 1990, solo alcuni precedono o seguono tale periodo: A lu Castiddruzzu è il più antico, Era ura! il più recente. Quelli qui pubblicati esemplificano la scrematura, nel numero, e nella forma, di quattro potenziali raccolte inedite ritrovate. Parecchie poesie sono state pubblicate su periodici e hanno partecipato e vinto premi, sono state recitate in pubblici consessi. Poi me ne sono allontanato.
A distanza di anni, nel bel mezzo di occupazioni – o distrazioni – pratiche, m’è venuta voglia di rileggerle, col vivo desiderio di rinfrancarmi l’animo rievocando antichi trasporti; solo in parte, ovviamente, mi sono ritrovato in sintonia con l’antico sentire, ma ho raggiunto ugualmente lo scopo.
Col senno di poi, riguardo ai contenuti, penso che così come il ghiotto prende a mani nude un favo e ne fa colare il miele in un barattolo, io ho preso da Seneca, da Unamuno, da Bequer, da Félipe, da Prévert e tentato di far trasmigrare il loro frutto nel musicale dialetto siciliano, racalmutese in particolare: nel leccarmi le dita ricolme di miele, il sentimento loro ho immaginato fosse il mio. E continuo ad immaginarlo.
Riguardo alla forma linguistica, ho cercato di temperare le incertezze ortografiche di allora discutendone col mio amico Salvatore Trovato. Non volevo accodarmi alla riottosa schiera di coloro che incrementano l’anarchia ortografica spacciandola per libertà. Per venire incontro alle difficoltà che incontrano i poeti nella scrittura del dialetto, il prof. Trovato auspica da anni l’uniformità grafica del siciliano. Speriamo voglia darci al più presto un manualetto di ortografia. Intanto, seguendo il consiglio dell’amico linguista di non appesantire visivamente la pagina con formicolanti segni diacritici e apicetti vari non riconosciuti – tra l’altro – dal computer, accetto volentieri le seguenti sue proposte, che faccio volentieri mie, puntando su un tipo di trascrizione che dia rilievo alle singole parole del siciliano, su una trascrizione cioè di tipo morfematico, piuttosto che fonetico.
Il lettore, intanto, resti avvertito che la tavola qui di seguito riportata dà conto della pronuncia dei grafemi adoperati e rende conto di alcune alterazioni fonosintattiche:
<ddr> trascrive l’affricata prepalatale sonora forte, tipica di Racalmuto e di parecchi dialetti della Sicilia centroccidentale, come ad es. in cavaddru, beddru, iddru, gaddru ecc.;
<hi> seguito da vocale trascrive la fricativa postpalatale sorda, tipica dei dialetti della Sicilia centrale, come ad es. in hiatu ‘fiato’, hiuri ‘fiore’, hiascu ‘fiascu’ ecc.;
<j> si pronuncia quasi come una /i/, ma non è una vocale vera e propria, ma quasi una consonante. Essa, quando è preceduta da n o da elementi che provocano rafforzamento fonosintattico dà luogo ai seguenti processi fonologici: un juornu da leggere ugnuornu, un jitu da leggere ugnitu, un judici da leggere ugnùdici e ancora pi jucari da leggere pigghjucari, pi jiri da leggere pigghjiri e jiva ‘e andava’ da leggere egghjiva ecc.
Quale lingua si scrive esattamente come si pronuncia e non presenta regole per una corretta lettura del suo sistema ortografico?
Pensamento è, intanto, il cogitamen latino, come lo intese Dante in chiusura del Canto XVIII del Purgatorio:
“Che gli occhi di vaghezza ricopersi
e il pensamento in sogno trasmutai”
Pensieri vaghi e vani che fanno passare dalla veglia al sonno. Ma pensamento significa anche: “contemplazione, meditazione” (Collazione dei Santi Padri); “divisamento, accordo, trattato” (Guido Giudice delle Colonne, messinese, 1200); “affanno, cordoglio, travaglio” (Pietro Bembo). Nel canto del poeta ci sta tutto questo, perché egli sa che limitata è la sua stagione poetica: chi canta non può essere certo che la sua voce sarà ascoltata:
Canta lu pueta
Canta lu pueta
– pirchì canta? –
si canta
unn arricampa nenti,
prima ca nascissi
un lu sintieru
e fra cent’anni
nuddru cchjù lu senti.
Questo dubbio, questo straniamento esistenziale, Carbone l’ha assimilato da un suo concittadino illustre, Giuseppe Pedalino Di Rosa, genuino poeta dialettale racalmutese dimenticato e, soltanto di recente, accomunato a Ignazio Buttitta, nel gemellaggio Bagheria-Racalmuto. A lui Carbone, come rivalsa, dedica l’intera Silloge. Ma il dubbio è insito nella poesia dialettale, considerata spesso, a torto, figlia di un Dio minore? A fugare ogni equivoco sta, a mo’ di protasi, l’esergo che precede la prima parte della raccolta, un brano esplicito sulla rivendicazione della piena validità del dialetto, tratto da Gli anni perduti di Vitaliano Brancati:
“Ecco, bene, professore! Fateli convinti, una buona volta,
che l’essere autore di poesie dialettali
non è un disonore per nessun galantuomo”
Il dialetto, cantato, per secoli è stato memoria popolare e anche difesa civile nell’assumere certi atteggiamenti di fronte agli eventi storici. Esso ha impregnato di sé la vita familiare, i rapporti civili, commerciali, sociali; il dialetto poetico è stato il giusto punto di riferimento del concetto di giustizia e di onestà. Il dialetto, all’origine, è una creatura in cui convergono i pensieri di tutti, che circolano e si diffondono per un mutuo scambio d’interessi umani.
La poesia dialettale, quindi, vuol dire ritrovare le radici, i luoghi, le persone e le memorie di un tempo, che mai possono essere cancellati. In tal senso, la poesia di Carbone è dialetto d’invenzione, alla maniera con cui Sciascia intendeva la parola invenzione (dal lat. invenio, trovare). Carbone, prima che in se stesso, ritrova, nei luoghi e negli altri, il suo canto. Egli è un “canta-storie” privilegiato ed eccellente delle cose della sua Racalmuto e della sua gente, che ritrova e racconta.
A lu paisi
Ogni tantu tuornu a lu paisi
e viegnu a truovu sempri carti scritti,
mpiccicati n cantunèra di li casi,
Camìnu nni la chjazza, e cosa viju?
Sulu carti di muorti, e tiempi antichi.
Caminu, e l’uocchji sempri ddrà mi vannu:
unni cci su li nomi di l’amici.
Eramu na chenca burdillara.
Eramu na rocchja schiticchjara.
Ora sugnu
comu ntre dicièmmiri la nuci:
si lu vientu tanticchja l’arrimina
si scoddra di la rama
e si mpussuna.
A lu Castiddruzzu
Bieddru castieddru miu ca ti scurdaru
n capu na muntagnola abbannunata
d’un circu russu lu suli a lu scurari
ti circunna e mpacci lu paisi po’ taliari.
Seculi, dimmi, quantu nn’ a’ sfidatu
cu ssi macigni di rocchi a sustintari,
supirchjarii quantu n’ a’ vidutu
nni ddru paisi ca ti voli scurdari
Sicuru e fermu, livatu ni l’antu,
tu sienti lu vientu hiuhhiari e quarchi
rocca chi ddra ssutta sempri cadi.
Ancora, bieddru miu, ca ncapu a’ stari
comu n’aquila cu l’uocchji grifagni
chi accuvacciata ncapu lova av’ a cuvari.
1975
Luna e scrusciu di carrettu
Nni la notti na lanterna
s’arrimina di luntanu.
Canta un cori vacabunnu
na canzuna senza suonu.
Nni la coffa cc’ è attaccatu
un canazzu e va abbajannu.
Canta, penza, avi pi liettu
luna e… scrusciu di carrettu.
Cantava lu minaturi
Cantava lu minaturi,
lu so cantu
si pirdiva
nni li vudeddra di la terra.
La seconda parte della silloge, Carbone la intitola “Malapinsera”, ma non nel significato riduttivo di cattivi pensieri, ma piuttosto nel senso di pensieri di un male sociale diffuso, del quale il poeta non può non prendere atto. La dedica all’abate Giovanni Meli, il sistematore della lingua siciliana eccellente, testimonia la consapevolezza delle cose come stanno e del male dell’Isola, ma rappresenta anche il coraggio del poeta di voler attingere l’esempio da chi, prima di lui, ha lottato e ha fatto grande il dialetto siciliano con sentimento e verità.
Oh, Meli, Meli!
E l’Abbatuzzu
rigorda e amminazza
la so palora è chjù forti di na mazza:
riji lu jtu, ccu iddru un ci la puonnu
pirchì scrivi li cosi comu stannu.
Oh, Meli, Meli!
di seculu sbagliasti:
lu to giudiziu ci vurrissi ancora.
Oh, Meli, Meli!
scunzulati siemmu
pirchì sbagliammu e mancu lu sapiemmu.
Li cosi comu stannu
Scrivu li cosi chi viju comu stannu,
curpa nun aju si sunnu comu sunnu.
Chissa è la zita, sutta nun cc’è ngannu,
spissu lu dicu dispostu a jiri n funnu.
Sciancata, senza dota, ngrasciatuna.
Mischinu ddr’ omu chi scunta ssa pena:
nguaiànnusi na ciavula e la mprena.
L’arrivo del Papa Giovanni Paolo II in Sicilia (20 e 21 novembre 1982) è un momento di riflessione umoristica.
Vinni lu Papa
Vinni lu Papa e fici un gran casinu,
vinni lu Papa e fu gran pompa magna,
vinni lu Papa duoppo tanti inviti,
mièritu nn’appi Totò lu Cardinali.
Vinni lu Papa e vinni vulannu,
di l’alicottiru jiva binidiciènnu,
e ppi li strati strati di Palermu
cci fu na fuddra enormi a mari magnu.
“Si vidi” “Nun si vidi” “Unn’ammuttati”
“Figli di… bona matri, lu mè caddru”
“Viva lu Papa!” “Cumpari n cantunera”.
Lu Cardinali, ncapu a la Land Rover,
secunnu mia avia sti pinzera,
stannu a la dritta a hiancu di lu Papa
(di cuntintizza lu cori ci scuppiava):
“Tal’è chi fuddra, nun mi l’aspittava!
Parinu surdi comu li campani
quannu ci dicu:’Fratelli, jiti in chjesa’,
e ora sunnu ccà a battiri mani.
A’iu fussi Papa, ssa festa fussi mia,
e a latu avissi stu babbu di Woitila”.
La festa durà un juòrnu, cchjù o menu,
ma duoppu tanti applausi e fistini,
iu m’addrumannu:”E ora chi nn’arresta?”
Sulu li marciapeda senza crusti,
barcuna rutti vistuti di stoffa
e quarchi strata secunnaria senza scaffa.
Un disidderiu mi resta ancora a fari:
ca, si per casu, Santità, scinniti arrieri,
e passiriti lu Strittu ncapu un Ponti,
ssst! un lu diciti, scinniti a l’ammucciuni,
ccussì viditi, senza suonu e banna,
n mani a cu sièmmu.
E comu nni cumanna.
(Versi composti in occasione della storica venuta di Papa Giovanni Paolo II a Palermo il 20 e 21 novembre 1982. Grande fu l’aspettativa. Si acrisse sui giornali, ci furono convegni, le strade vennero transennate. Ho immaginato subito una seconda venuta perché la prima non svanisse come una folata, come svanirono le chilometriche transenne, rastrellate dai magri rivenditori di ferro vecchio, nella stessa notte della sua partenza.)
Ma il poeta non deve demordere, il poeta ha un ruolo importante, decisivo e non deve mai abdicare, anzi deve stimolare e sollecitare. E’ questo il messaggio conclusivo ed esaustivo di Piero Carbone, in tempi contrassegnati dall’impoeticità della società.
Forza, Pueta, nun t’arritirari
Forza, Pueta, nun t’arritirari,
dìcila la palora ca ci voli,
jùdici un sì e ti tocca giudicari:
cu unn’è pueta, mancu na vota
voli scanciari vinu ppi cicuta.
Cunnanna a tutti, si tu sì Pueta:
lu culuri d’un partitu o di na chjesa
nun esisti prima di spintari
o si spìccica duoppo ca si mori,
e resta sulu l’omu, tali e quali.
Cunnanna a tutti l’uomini birbanti
chi scancianu putiri ppi putìa,
lu travagliu ncapu l’antri ppi passìu
e li spirpanu puliti comu pira.
Scìppali li zzicchi di li cani.
Cunnanna a chiddri, tu, ccu du’ palori,
ma palori di chiddri scucìvuli,
chi fannu nvirdicari tanti uòmini
o li stravijanu ppi terra e ppi mari
comu un paraccu na tana di furmiculi.
Cumanna a tutti, Pueta di la terra,
cunnanna a tutti, Pueta di l’uomini,
l’uocchji un t’attuppari.
La virità è di cu la voli vidiri.
A cu sbaglia pùddracci la frunti,
spàragna sulu cu ppi l’antru mori.
BIOGRAFIA
Piero Carbone è nato nel 1958 a Racalmuto. Vive a Palermo dove insegna nella scuola media. Tra il 1985 e il 1987 ha ideato e realizzato Zmaragdos e nivuretta, due spettacoli di cultura etnografica. Ha curato una serie di mostre di artisti siciliani e i suoi testi figurano in numerose edizioni d’arte. Collabora con giornali e riviste. Nel 1996 a Pierrefeu du Var, in Provenza, è stata realizzata la mostra fotografica Lune sicilienne, ispirata al suo libro di poesie La luna. Nell’ambito del “Festival Italia 1997” ha tenuto a Stuttgart un recital di brani tratti dalle sue opere. Con il racconto breve “Dieci passi avanti, dieci passi indietro” ha vinto nel 2001 il premio di narrativa inedita “pordenonelegge.it”. Tra le sue opere: A lu raffu e Saracinu, Storia pi cantastorii (lavoro e altro nei luoghi d’acqia racalmutesi), Sicilia che brucia, Il mio Sciascia, Notturno in via Atenea, Il giardino della discordia – Racalmuto nella Sicilia dei Whitaker.
“A Buagimi un’estate”
Nicolò D’Alessandro, ritorno alle origini
I ricordi affiorano a sprazzi, ad ondate successive, sono immagini concrete che balzano dalle parole, fanno vedere e s’impressionano sulla retina. Così comincia un’estate di fanciullo, rivista attraverso l’adulto, che racconta e si racconta e fa scoprire un mondo sommerso nell’anima, un mondo che riemerge imperioso, conosciuto da ogni fanciullezza. Sono tanti quadri, come finestre aperte nel passato di ognuno, quelli ricostruiti da Nicolò D’Alessandro, non a caso pittore e grafico di talento.
Gìà dall’incipit si evince quella che l’Editore-Prefatore Salvatore Coppola definisce “il richiamo della memoria”: in senso sciasciano oseremmo dire, perché la scrittura per Sciascia era essenzialmente memoria, dei primi dieci-dodici anni di vita.
“Bagascia, gridò con quanto fiato aveva in gola. Sei una lurida bagascia! Faceva sempre così, quando non aveva a portata di mano soluzioni ai problemi che non poteva risolvere. S’accalorava improvvisamente e sputava fuori tutto il contrario di ciò che realmente pensava. E lo tirava fuori con rabbia. Una violenza così sprezzante e spropositata, da far paura. Proprio così: paura.
Bagascia, continuò a gridare a squarciagola, paonazzo e sudato. Gesticolava e sudava e l’impressione più immediata, per chi gli stava accanto, era che stesse lì lì per esplodere.
E’ proprio riandando a quel lontano giorno in cui G. gridava come un ossesso che gli sovvenne il volto di quella dolcissima ragazzina, l’oggetto di tanto accalorato furore giovanile, di così disperata rabbia. Gli tornò in mente anche lo stupore di quella ragazzina e di quegli occhi che esprimevano tutto. Timore, anche.
Trascorse quell’estate caldissima ed assolata nella campagna di Buagimi. Legato all’immenso carrubbo, vicino al grande casotto, chiamavano l’asino. Camillo alzava la testa, muovendo sempre la coda per allontanare le mosche che lo assediavano, rispondendo al loro petulante richiamo.”
Nicolò D’Alessandro si muove in questo suo agile racconto tra Pirandello e Sciascia. E’ al Pirandello, scrittore di cose e non di parole, cui egli s’ispira. Le sue parole sono piene, concrete come pennellate di una tela, a dipingere in modo variegato una lunga estate, tra timori e tremori, desideri e paure, sogni e realtà, in una campagna che si apre alle prime insidie della vita, all’aspirazione del fanciullo a fare cose d’adulto, illudendosi così di diventare adulto. I ricordi di un’estate che si allargano a tutta una fanciullezza, arrivata a un punto di snodo, con l’illusione di poter diventare ricchi con il tesoro di Businè.
“Qualcuno sosteneva che dentro la collina da sempre fosse nascosto un tesoro, così grande che sarebbe bastato da solo a rendere l’isola ricca per sempre. Ed ancora le nonne ai nipoti, in paese, dicono che ogni sette anni la montagna si apre e chi, per caso, si trova a passare vede una grande luminosa fiera dove il fortunato può acquistare con pochissimi centesimi immense ricchezze poiché tutto ciò che si vende è in oro puro. Preziosissimo.”
Sono i sogni dell’infanzia dei popoli di vichiana memoria, la fantasia che trasforma la dura realtà del mondo contadino, fatto di lavoro e di fatica, di povertà e di aridità, dove però tutto può apparire magico agli occhi dei ragazzi, per i quali nulla è proibito, giacchè vanno alla ricerca di sensazioni forti, e perfino di scherzi crudeli.
Non manca, come saldatura dei vecchi e dei giovani, la sentenziosa saggezza popolare che trapassa di padre in figlio in modi proverbiali.
“Nenti fari ca nenti si sapi" (Non fare niente, che niente si saprà)
"Calati juncu, chi passa la china" (Calati giunco che passa la piena)
"Si vo’ passari la vita cuntenti statti luntanu di li tò parenti" (Se vuoi passare la vita contento stai lontano dai tuoi parenti).
"Ccu amici e ccu parenti ‘unn’accattari e ‘un vinniri nenti" (Con amici e con parenti non comprare e non vendere niente)
"Lu tempu assicuta lu tempu" (Il tempo insegue il tempo)
"Prestu, prestu, ca la cira squagghia" (Presto, presto, che la cera squaglia)
"Dissi lu surci alla nuci: dunami tempu quantu ti perciu" (Disse il sorcio alla noce: dammi tempo che ti buco)
"L’anni passanu supra di nui" (Gli anni passano sopra di noi)
"Bonu tempu e malu tempu nun dura tuttu u tempu" (Buon tempo e mal tempo non durano per sempre)
"Ogni beni di la campagna veni" (Ogni bene viene dalla campagna)
E’ un mondo di suoni, di rumori, di canti, di versi, di odori, di sapori, di paure e di allegrie.
“Suoni, canti e latrati di cani festeggiavano la vita in campagna a Buagimi. Per tutto il pranzo. Sotto il grande carrubbo grosse angurie rosso acceso, gonfie d’acqua promettevano refrigerio e ulteriore allegria… La mandola, il violino e le chitarre segnarono, quel giorno, con genuina spensieratezza campagnola il canto di tutti i commensali…”
Un’estate trascorsa da fanciulli attraverso esperienze positive e negative, con la confusa percezione di diventare adulti, scoprendo la pubertà. Una parentesi di vita, che si apre e si chiude a comando come un sipario, ma sempre a disposizione e fruttuosa nel difficile percorso di crescita giovanile. Ma anche un mondo che non esiste più, sepolto da questi tempi avari e restii, e di cui sentiamo nostalgia. Un testo poetico – l’ha definito lo scrittore Alfonso Gueli – che si legge d’un fiato e si gusta come mille quadri di una mostra .
BIOGRAFIA
Nicolò D’Alessandro nasce a Tripoli da genitori siciliani nel 1944. Vive a Palermo. Partecipa alla vita artistica italiana dal 1961 esponendo per invito a numerose collettive nazionali ed internazionali in Italia e all’estero. Dal 1963 ha tenuto novanta mostre personali e oltre centottanta collettive su inviti di gallerie, enti ed istituzioni. Vastissima la bibliografia. Molto è stato scritto sul suo lavoro in Italia e all’estero. Numerosissime le pubblicazioni, ricordiamo tra le più recenti: Tra etica ed estetica; Il gioco delle apparenze; Passeggiata nei territori immaginativi, Del perdere la testa, a proposito di alcune fotografie.
Ubaldo Riccobono