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8 MARZO
NON SOLO MIMOSE
Le donne non hanno bisogno soltanto di una Festa a loro dedicata, di mimose e di omaggi floreali di tutti i tipi. Destinatarie da sempre di violenza, vessazioni, soprusi; discriminate in ogni società e in ogni tempo, continuano a pagare ancora un prezzo altissimo, anche nelle società più civilizzate. E allora non bisogna accontentarsi soltanto di celebrazioni, pur importanti e coinvolgenti come messaggi; occorre fare della condizione femminile il problema dei problemi, da tenere sempre in evidenza nelle istituzioni, nelle fabbriche, negli uffici, in ogni luogo del vivere civile e soprattutto in Parlamento, che deve essere il presidio più avanzato per iniziative concrete, volte al raggiungimento della vera ed effettiva parità dei sessi e all’eliminazione delle violenze fisiche e morali nei confronti della donna.
TRE PITTRICI NEI LUOGHI PIRANDELLIANI
Il connubio tra la cultura pirandelliana e la pittura al femminile è ritornato alla ribalta ad Agrigento, grazie alla seconda edizione della rassegna “Raccontare per immagini – Arte Contemporanea nei luoghi di Pirandello” organizzata dal Centro Studi Erato” di Agrigento, diretto da Nello Basili, che si è aperta il 23 gennaio presso la Biblioteca Museo Pirandello con l’esposizione della pittrice italo-belga, Nuccia Gandolfo, e che in questi giorni, presso la Casa Natale del Premio Nobel, propone in contemporanea due mostre sull’Impressionismo Dianoetico di Nuccia Accardo e di Maria Grazia Raffaele. Tre pittrici moderne, che operano ad Alcamo, Segesta-Calatafimi, Vita, con mostre in tutto il trapanese, e che rappresentano un probante e serio impegno della donna nel campo dell’arte, come si evince dalle opere e dalle note critiche.
NUCCIA GANDOLFO
L’ultima cena
Diceva Empedocle: «Gli agrigentini mangiano come se dovessero morire l’indomani e costruiscono come se non dovessero mai morire».
Due assiomi di carattere universale della società opulenta di tutti i tempi, che trovano riscontro nel famoso “superfluo” di cui si occupò Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, per evidenziare come la coscienza dell’uomo oscilli perennemente tra i due poli opposti dell’angelismo e del vuoto e gretto materialismo.
In Nuccia Gandolfo queste istanze primordiali diventano pittura, sfida, simbolo, surrealismo, con peintures idonee a rappresentare isole di salvezza o edificanti vie di fuga o utili ammonimenti a futura memoria.
Vale la pena cominciare dal titolo della silloge, “l’Ultima Cena”, di chiara impronta immaginifica con quei tredici pannelli a mutuare in maniera surreale il cenacolo leonardesco, sostituendo al Cristo e agli Apostoli frutti “giganti” della terra. Non è difficile rinvenire il significato insito: l’Arte come assoluto è valore aggiunto e fondante per sottrarre l’uomo all’oblio, al caos della vita, all’inganno e alle seduzioni del mondo, svincolandolo dalle follie e dalle fobie del presente.
Al di là della valenza simbolica, la rappresentazione della Gandolfo ha quindi una valenza di avvertimento escatologico, volto a sollecitare l’intelletto umano ad usare con parsimonia e con temperanza quello che la natura e la vita offrono a piene mani, perché la società dei consumi è in grado di riprodurre all’infinito i bisogni e i desideri dell’uomo, fino all’insaziabilità. E per overdose da cibo, per bulimia o per anoressia, si muore.
Ma l’avvertimento è anche religioso, sia pure di laica religiosità, perché in fondo i cibi, così seducenti e invoglianti, possono tradire i valori finalistici della vita, causando guasti irreparabili. E l’ultima cena cristiana non è l’annuncio di un tradimento estremo, il messaggio di chi si è fatto uomo per sacrificarsi, per salvare redimendola l’umanità dall’Apocalisse?
Le quadrature pittoriche gandolfiane, basate sull’incontro di poche tonalità calde, sottendono la fissità della rivelazione, come pericolo potenziale e non ancora incarnato, laddove nella cena di Leonardo da Vinci era il movimento a denunciare gli stati d’animo e l’interrogazione sorpresa su chi avrebbe tradito.
Il linguaggio pittorico è fatto assai spesso di allusioni e di metafore, di rimandi e di enigmatici richiami, ma non sfugge mai al modo di essere dell’artista, che in tutti i soggetti esprime e riproduce il suo vero stigma.
E l’imprinting “architettonico” dei colori fa svariare Nuccia Gandolfo, in tutte le sue opere, dall’astratto al figurativo e dal figurativo all’astratto, dal numerico al geometrico fino alla composizione matematica, senza soluzione di continuità, ma con visioni antiaccademiche che evidenziano la tendenza profonda del suo io, che riesce a cogliere della realtà l’immaginario collettivo, pur nella metamorfosi degli stati del cosmo e della materia.
Linguaggio in ultima analisi filosofico che stacca dal caos primordiale ricomposizioni e forme non stranianti, a lenire nel calore coloristico l’angoscia dell’uomo contemporaneo.
MARIA GRAZIA RAFFAELE
Impressionismo, medicamento dell’anima
Nella frammentazione dell’esistenza o delle esistenze, qual è il telos dell’artista?
Un quesito, questo, vecchio quanto il mondo, che oggi per l’impressionismo dianoetico di Maria Grazia Raffaele sembra avere una sola risposta: non esiste più la pittura, ma il pensiero della pittura che si fa immagine, e che è poi espressione viva e palpitante, sentita e avvertita istantaneamente dalla singolarità di ciascun artista.
Il logos dell’artista incarna quella caratteristica che è propria dei periodi complessi, cioè la tendenza del presente che s’indirizza al dato per intuizione – e non per razionalità – a rompere decisamente con il passato, distaccandosene quasi irrimediabilmente, mentre il futuro risulta difficilmente prevedibile. Su tali cardini, la pittura di Maria Grazia Raffaele coglie (all’interno e all’esterno) impressioni, emozioni, sensazioni, percezioni e le comunica così come sono percepite dall’anima: momentanee, fuggitive, evanescenti, oniriche, eteree, aeree, irreali, fantastiche.
Questo tipo di post-impressionismo si pone, quindi, in chiave antiromantica, perché, a differenza dei sentimenti duraturi e profondi del romanticismo, le impressioni sono brevi e indefinite, con contorni pittorici che svariano o sfumano, creando un’atmosfera immaginaria, raffinata, elegante, preziosa. Si spiega così il ruolo dell’anima a rifugiarsi nel simbolo, nel surreale, immergendosi nel soggettivismo, che è cosa diversa dall’antropocentrismo.
L’uomo non è più il riferimento di tutte le cose e il centro del mondo, perché non c’è più un solo mondo, ma nell’universo astronomico esistono altri mondi.
Nel momento in cui l’episteme, distaccatasi dalla filosofia, ha reso comprensibile di questo universo tutto quello che c’era da comprendere, non poteva non sorgere nell’artista una profonda insoddisfazione psicologica, per radicale assenza di scopo.
E allora la pittura, come s’evince dal suo itinerario artistico, per Maria Grazia Raffaele diventa un necessario medicamento dell’anima da comunicare all’esterno; predomina in lei il pensiero immediato d’esprimere, con l’arte, l’esigenza imprescindibile di mutare il mondo: il pittore abbandona le sue vecchie pretese e diventa intellettuale multi-uso, in grado di leggere, decifrare, riconciliare o superare ogni contrasto presente e futuro. Per ritrovare l’anima mundi – o meglio dei mondi – occorre riproporre la fantasia e il sogno, corrosi – o forse uccisi – dalla tecnica, dall’economia, dal materialismo: la pittura impressionistica dianoetica ne è il canale privilegiato.
NUCCIA ACCARDO
Turbamenti cromatici
Il linguaggio dell’anima corrugata potrebbe essere definita l’esperienza pittorica di Nuccia Accardo. Non si tratta di un’estetica nè di un’etica aristotelica, ma una diànoia, una conoscenza di sé e della natura, che si fonda su una intuizione en plein air.
La parte intellettuale dell’artista acquisisce i turbamenti che le derivano dal reale e li trasforma pittoricamente, ribellandosi alle convenzioni e rivolgendosi al colore più che al disegno.
Lo sfondo, il paesaggio, non è qualcosa di aggiunto, ma avvolge le figure.
Oggetti e persone sono trattati con la stessa pennellata ampia e decisa, accostando i colori senza mescolarli, in modo tale da ottenere risultati “vibranti” e vivi, in un contrastante alternarsi di superfici uniformi e irregolari e varietà di colori intensi e anche eterocliti.
Già nei titoli del repertorio dell’Accardi si rinvengono i dettami del suo magistero artistico, con temi che vanno dal sogno (Fantasie oniriche di una psiche sognante, La natura e il sogno) fino a raggiungere i territori sterminati del meraviglioso (Flora e fauna nel paese delle meraviglie, Laguna incantata).
La natura e lo stato d’animo non è mai sereno o statico, come meglio si evince dall’opera Tridimensionale, dove spazio e tempo sembrano fondersi in una terza dimensione onirica e stupefatta, che precede la procella, che poi diventa situazione conclamata nel mistero avvolgente della Tempesta.
Tutti i quadri possono essere letti in sequenza tra loro, riproducendo, come in un più grande puzzle, senza nascondimenti o camuffamenti, emozioni e percezioni visive, nascenti dallo scorrere del tempo, dai cambiamenti d’animo e della natura.
Contrasti, colori forti e vividi, per certi versi insoliti e rivoluzionari, generano una drammaticità che si stempera nell’invenzione coloristica, che ammanta uomini e cose in un’aura a volte misteriosa.
Sembra quasi che la pittrice voglia eludere il momento del futuro, pur sapendo che il tempo è condizione dell’esistenza intesa come progetto e, insieme, come visione anticipatrice, che riconosce e accoglie l’invalicabile finitudine dell’uomo.
Privilegiando opzioni antiaccademiche in difesa dell’individualismo dell’artista, la pittura di Nuccia Accardo è vivificata dal gusto della scoperta e della ricerca autonoma: è forma più completa e sottile delle parole, un’occasione per vivere meglio i sentimenti dell’essenza delle cose e della propria anima, per liberarsi delle ansie del presente. Tuttavia, la pittrice riesce a iscriversi nel solco di una corrente che fa delle scelte cromatiche un valore concettuale ed intellettuale, come momento di congiunzione e di mediazione tra cuore e mente.
Ponendo con le sue opere problemi di ordine plastico sulla forma, sullo spazio, sul colore, Nuccia Accardo annuncia e enuncia – e forse denuncia – i termini di una nuova poetica pittorica che s’incardinano nelle vaste e inquietanti problematiche dell’uomo del Terzo Millennio.