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Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

~ "La vita o si vive o si scrive" (Luigi Pirandello) – "Regnando Amicizia ogni cosa va ad unirsi" (Empedocle) – "Non si capisce un sogno se non quando si ama un essere umano" (Leonardo Sciascia)

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Archivi Mensili: aprile 2011

30 sabato Apr 2011

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agnello, mafia, poesia

RICORDO DI KAROL WOJTYLA

PapGiovanni Paolo II nella valle dei Templi “Dio ha detto una volta non uccidere.
Non può l’uomo, qualsiasi uomo,
qualsiasi umana agglomerazione, mafia,
non può cambiare e calpestare
questo diritto santissimo di Dio.
Questo popolo, popolo siciliano,
talmente attaccato alla vita,
popolo che ama la vita, che dà la vita,
non può vivere sempre sotto la pressione
di una civiltà contraria, civiltà della morte!?
Lo dico ai responsabili: convertitevi!

Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!”

 

E’ con queste incisive parole di condanna alla mafia, pronunciate nella Valle dei Templi di Agrigento nel maggio del 1993, che vogliamo ricordare Karol Wojtyla, Papa Giovanni Paolo II, che sarà beatificato in San Pietro a  Roma. Ci sembra che le sue parole, che abbiamo voluto rendere sotto forma di drammatica poesia, siano l’alta testimonianza della sua santità e della profondità del suo magistero.  
Per l’occasione celebrativa, riportiamo due poesie dedicategli da Nino Agnello e da me.

 

Nino Agnello, poeta, scrittore, saggistaCommiato per Giovanni Paolo II
 

Venuto da lontano
è andato molto più lontano
a unificare il mondo
nell’amore del Padre,
 
e al trono del padre ora è tornato
alacre pellegrino anima bianca
dentro il mantello che fece svolazzare
più volte sulle nevi alpine
essendosi votato atleta del Signore.
 
A noi terreni in lutto
lascia il corpo offeso da cento coltelli
per farne pietra miliare al nostro cammino
sepolcro mausoleo sala delle visite
tutte le volte che vorremo orientare il passo
verso un luogo di comune convergenza,
 
universale misura a valutare un uomo
che s’innalza aquila bianca
oltre quanto fu mai possibile
a spaurito passerotto. Carlo Wojtyla
è già stella di prima grandezza
nel firmamento di luce.
(Nino Agnello, da “Cronache del magro vivere, 2005)
 

Ubaldo RiccobonoA Giovanni Paolo II il Grande
 
Ora che non ci sei
sei più presente di prima,
perché, Padre Santo,
allora ignoravo
la tua grandezza,
come il figlio che dà la mano al genitore
e con lui cammina sicuro
senza paura,
finchè scopre d’essere solo
senza quella mano forte
che lo trascinava.
(Ubaldo Riccobono, da “All’amica infedele e altri frammenti poetici”, 2010)

27 mercoledì Apr 2011

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bonvesin de la riva, compleanno, goethe, racconti, rodari, rosa, totò, viola

VioleI cinque anni di Viola

Viola nostra, Viola mia,
cinque anni son volati via;
 
son volati veloci i giorni
tutti belli, tutti adorni
di allegria e di felicità,
 
nella gioia che mai finisce
come Pasqua che i cuori unisce
con il saluto delle campane
– anche di quelle più lontane –
che c’invitano a festeggiare.
 
Dai tuoi occhi sfavillanti,
che hanno rubato perfino al cielo
l’azzurro intenso e più profondo,
s’effonde a noi amore giocondo.
 
Gioca Viola, non smettere ancora,
con quel sorriso che c’innamora;
gioca Viola, gioca sempre
da gennaio fino a dicembre.

Auguri Topolino

viola

Oggi è festa grande: la mia adorata nipotina compie cinque anni e il 3 maggio prossimo festeggerà anche l’onomastico. Mi si perdonerà, quindi, per questa occasione speciale, l’irriverenza di rendere pubblica la dedica di apertura con un mio semplicissimo componimento, a fronte della pubblicazione di poesie di grandi poeti che evocano il nome Viola. Ma prima di continuare il post evocativo del nome Viola, desidero proporre come augurio le immagini di alcuni personaggi che hanno allietato e continuano ad allietare i giorni della mia nipotina, alla quale piacciono molto i racconti e comincia già ad inventarne di suoi.

Auguri Winnie de PoohAuguri Principesse
viola 8
Auguri nanetti

Auguri Winx
pimpa
Trilly

 

Auguri Principesse
 

viola NOMI, FIORI E LETTERATURA
(in occasione di un compleanno)

 

La disputa della rosa con la viola

                 di Bonvesin de la Riva

Bonvesin de la Riva

Bonvesin de la Riva (Milano 1240-1315), frate laico dell’Ordine degli Umiliati, “doctor in gramatica”, scrisse un contrasto intitolato Disputa della rosa con la viola (quartine di alessandrini in 248 settenari doppi), di cui riporto uno stralcio finale.

El ha dao la venzudha a la vïora olente
perzò k’ella e plu utile, guardand[o] comunamente;
compensando tut[e] cosse, plu degna e plu placente,
e ke maior conforto significa a tuta zente.

El ha dao la perdudha a la rosa marina,
ké computand[o] tut[e] cosse ella non è sì fina.
La rosa per vergonza la soa testa agina,
e gramamente a casa sì torna sor la spina.

La vïoleta bella, la vïoleta pura
alegra e confortosa se ’n va co la venzudha.
Ki vol ess[e] cum’ vïora e trà vita segura,
sïa comun et humel et habia vita pura.

 In questa tenzone allegorico-didattica i due fiori rappresentano vizi e virtù: la rosa, la superbia e l’avarizia; la viola, l’umiltà e la carità. Ma è lecito individuare in essa un significato socio-politico, con la  rosa a raffigurare la potente aristocrazia, laddove la viola invece si riferisce al ceto borghese, classe di cui faceva parte Bonvesin, uomo della riva come la viola (“ma tu sì nasci in le rive”).

Bonvesin de la Riva

Un genere letterario, la tenzone, importata in Italia nel duecento dalla letteratura provenzale, come contentio tra due o più interlocutori (nella specie della rosa e della viola, chiaramente simbolica). Nella rosa può rinvenirsi anche la simbologia della superbia del leone, anticipazione dantesca di Fra Bonvesin, riscontrabile anche nel Libro delle tre scritture, tripartito in De scriptura nigra, De scriptura rubra, De scriptura aurea, dove appare evidentissima la successiva strutturazione dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso che ne avrebbe fatto Dante nella Divina Commedia.

 

viola Viola e Non ti scordar di me
in Johann Wolfgang Goethe

J.Wolfgang Goethe

Goethe diceva che “la poesia indica i segreti della natura e cerca di risolverli per mezzo dell’immagine”. La sua poetica si fondò sull’osservazione costante del regno naturale: dovunque andasse, indugiava a catalogare piante, fiori e minerali e fu all’ossessiva ricerca della pianta originaria, dalla quale poter derivare, diceva lui, come prototipo di tutte le piante possibili.  Anche Goethe si colloca nel solco della concezione di Bonvesin de la Riva, esaltando le qualità della viola, finendo per prediligerle però il leggendario Non ti scordar di me, simbolo per lui di fedeltà eterna dell’amore.  

La buona violetta io la stimo molto:
è tanto modesta e tanto
odorosa; ma io ho bisogno
di più, nel mio acerbo affanno.
A voi soltanto voglio confidarmi:
su questi picchi rocciosi e aridi
non troverò la mia bella.

Ma la donna più fedele della terra
incede presso il ruscello, in basso,
sospira e geme sommessa
fino al giorno del mio riscatto.
Quando coglie un fiore celeste
e ripete: non ti scordar di me!
lo sento anche di lontano.

goethe_roma

Certo, si sente la forza di lontano,
se due si amano davvero;
nella notte del carcere sono rimasto
ancora vivo per questo.
E anche se mi spezza il cuore, basta che
io esclami: non ti scordar di me!
e rinasco alla vita.


 
viola Totò e la viola

TotòPer Totò, che fu anche finissimo poeta, è la viola simbolo eterno d’amore e di rimpianto, quantunque disperato possa essere l’intimo sentimento: mette salde radici nel cuore d’ogni innamorato ed evoca sempre il ricordo dell’amata, come canta in questa delicara composizione in dialetto napoletano.
 

Viola d'ammore

Pe nun me scurdà 'e te aggio piantato
dint'a nu vase argiento,  na violetta
cu 'e llacreme 'e chist'uocchie l'aggio arracquata
e ll'aggio mise nomme:"Oh mia diletta!".

E songhe addeventato 'o ciardiniere
'e chesta pianta…simbolo d'ammore
"Oh dolce violetta del pensiero…
…he mise na radice int'a stu core!".

 
viola

Una viola al Polo Nord

di Gianni Rodari

Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia):
"Che sia arrivata qualche spedizione?"
Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria, perchè quello era il suo dovere.
"Mamma, papà", gridavarono gli orsacchiotti.
"Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano", fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. "E secondo me non è un pesce".
"No di sicuro", disse l'orsa maggiore, ma non è nemmeno un uccello.
"Hai ragione anche tu", disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo.
Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più lontano anche volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima.
"Per mandare tanto profumo", disse una foca, "deve avere una riserva sotto il ghiaccio".
"Io l'avevo detto subito", esclamò l'orso bianco, "che c'era sotto qualcosa".
Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava.
Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni.
"Ne sappiamo quanto prima", osservò la foca.
"Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa".
"Come ha detto che si sente?" domandò l'orso bianco a sua moglie.
"Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare".
"Ecco", esclamò l'orso bianco, "proprio quello che penso anch'io".
Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita.
Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressapoco questo: "Ecco, io muoio… Ma bisogna pure che qualcuno cominciasse… Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini".

 
 

21 giovedì Apr 2011

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letteratura, pace, pasqua, resurrezione, uova

UOVA DI PASQUA

Giuseppe Forte, Resurrezione Comu rè già triunfanti
scarzarau li Patri Santi
O gran Virgini Maria
mi rrallegru assai cu tia
(Rosario siciliano, manoscritto inizio XX secolo)

Il guscio dell’uovo che si rompe, rappresentando la nascita di un essere vivente, è da sempre per il cristianesimo il simbolo della resurrezione, dell’uscita di Cristo vivo dal sepolcro per portare il suo messaggio di vita e di pace. 

BUONA PASQUA 2011Dall'uovo di Pasqua

Dall'uovo di Pasqua
è uscito un pulcino
di gesso arancione
col becco turchino.
Ha detto: "Vado,
mi metto in viaggio
e porto a tutti
un grande messaggio".
E volteggiando
di qua e di là
attraversando
paesi e città
ha scritto sui muri,
nel cielo e per terra:
"Viva la pace,
abbasso la guerra".

Gianni Rodari

 

PasquaAssociati alle uova ci sono narrazioni sacre non casuali. Si racconta, infatti, che la Madonna facesse giocare Gesù Bambino con delle uova colorate e che il giorno di Pasqua, tornata sul sepolcro del figlio, avesse trovato alcune uova rosse sul ciglio. Si narra ancora che Maria Maddalena si sia presentata davanti all'imperatore Tiberio per regalargli un uovo dal guscio rosso, a testimonianza della Resurrezione di Gesù. Pare pure che Maria, madre del Cristo, portasse in omaggio a Ponzio Pilato un cesto dorato pieno di uova, per implorare la liberazione del figlio.
Ecco perché perdura un attaccamento straordinario al dolce della tradizione pasquale, che è simbolo per antonomasia della stessa festività della Pasqua. L’uovo di cioccolato è piuttosto recente rispetto al dono di uova vere, decorate o dorate, che rientrano in un rito assai antico.
 

 

PasquaLe sei uova di Pasqua
(Racconto di Fabio Tombari)

Sotto la Settimana Santa, un tale era tanto povero che non aveva nemmeno un po' di uova da far benedire. Va da un usuraio suo vicino e gli dice pressappoco così: “Ho da andare in America a lavorare, ma intanto vorrei festeggiare la Pasqua anch'io con i miei. Avreste sei uova da prestarmi, che ve ne dò altrettante e più al mio ritorno?”
E quello va a prendere sei uova sode, calde calde, dal tegame e gliele dà cotte e tutto. Ringraziamenti, benedizoni: poi va in America e dopo quatr'anni ritorna, non ricco ma benestante. Va dall'usuraio:
“Ecco dodici uova in cambio delle sei che mi avete prestato.”
Dodici uova sole? A lui, a un usuraio, a un farabutto simile? Mi meraviglio!
Prende e lo cita in tribunale, per danni, truffa e mancamento di parola..
Con quelle sei uova prestate, avrebbe potuto fare non so quante galline e uova e pulcini e altre uova: insomma, mille non bastavano.
Voleva portargli via il pollaio, l'orto, la casa; mandarlo in prigione con tutta la famiglia. E quell'altro, poveretto, non sapeva cosa fare.
Camminava, mogio mogio, tutto in pensieri.
Lo  incontra un amico, un certo Edoardo Giansanti, poeta dialettale .pesarese, detto Pasqualon, un amico sul serio.
“Che succede?”
“Domani – gli disse – devo presentarmi in causa.”
E gli raccontò delle sei uova: come le aveva avute, come è tornato, e l'offerta fatta, e la pretesa dell'altro, la denuncia, ecc. ecc.
“Ti d'ifenderò io!” fa Pasqualon.
“A che ora è la causa?”
“Alle nove.”
“Aspettami nell'aula e ti verrò a difendere.”
Viene il giorno dopo, arrivano le nove tutti aspettano e Pasqualon non si vede.
Anche il giudice si impazientiva.
“Così fa questo vostro avvocato che non viene?”
L'altro, l'usuraio, godeva del proprio veleno. Arrivano le nove e un quarto, e niente; le nove e mezzo, e niente…
Finalmente eccoti Pasqualon di corsa, mettendosi la giacca, spolverandosi i calzoni.
“Scusatemi, Signor giudice, scusatemi se ho fatto tardi e ho fatto tardi, ma ho dovuto cuocere la fava perché domani devo seminare.”
“Come! “ tutti in una gran risata. “E vorreste seminar la fava cotta!  Ma questa è grossa: e come volete che i semi possano germogliare una volta bolliti?”
“Eh, lo so anch'io, signor giudice!” rispose Pasqualon  “Ma nemmeno dalle sei uova sode sarebbero nati i pulcini.”
E il giusto trionfò anche stavolta fra le risate di tutti.

 
 

PasquaRicordi di Pasqua
(Racconto di Ubaldo Riccobono)    

Il Sabato Santo, s’andava  al forno per tempo a prenotare i cestini con l’uovo e verso sera si tornava a ritirarli, odorosi e fragranti dell’ultima sfornata. Noi bambini dovevamo aspettare la mezzanotte, se volevamo mangiarli; ma non resistevamo quasi mai fino a quell’ora.
L’indomani, giorno di Pasqua, ci svegliavano le campane a distesa: il suono ci veniva simultaneamente dalla Cattedrale, dalla Badiola, da San Michele, e dal campanone della vicina San Girolamo.
Appena alzati dal letto, a piedi nudi andavamo in cucina a prendere i cestini con l’uovo: erano la nostra colazione di Pasqua, che consumavamo facendoci la croce ripetutamente, con gesti contriti. Poi, aprivamo la persiana e dalla finestra indugiavamo ad osservare il passaggio della gente vestita a festa.
Di ritorno dalla messa, muniti di un bastone, com’era l’usanza, seguivamo i grandi che si mettevano a percuotere le porte delle case, dicendo:
“Nesci u diavulu e trasi Maria (esce il Diavolo e entra Maria)!”
Altri fedeli aggiungevano:”Nesci fora, tentazioni, e trasissi Nostru Signuri!” (esci fuori tentazione e entri dentro Nostro Signore).
Ma non mancavano quei quattro gatti di facinorosi che andavano a sfondare, con questa scusa, le porte delle botteghe: c’era a volte un fuggi fuggi generale per l’intervento della polizia.
Ma la cosa più bella era la placida passeggiata lungo il Viale della Vittoria, dove tutti si scambiavano auguri festosi, facendo capannelli davanti ai caffè.
A pranzo sedevamo composti e ordinati, in attesa del regalo finale. Tra agnellini pasquali di pasta reale e le classiche cassate siciliane, adorne di frutta candita, facevano dunque  la loro comparsa le uova di cioccolato. E, nell’aprirle, restavamo a bocca aperta per le belle sorprese che vi trovavamo dentro. Però, per tutti il ricordo più vero restavano i cestini di pane con al centro l’uovo sodo. Era quello che ci aveva fatto capire il significato autentico della sacralità della festa, contro le false chimere del consumismo.

17 domenica Apr 2011

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agrigento, arrigo, poesia

L’UNIVERSO FEMMINILE
IN LILIANA ARRIGO

 Liliana Arrigo

Liliana Arrigo, poetessa agrigentina, molto apprezzata e pluripremiata, uscirà a breve con il suo primo volume, intitolato L’odore del vento. Un esordio tardivo, rispetto al suo rapporto antichissimo con la poesia, dovuto prevalentemente alla sua ritrosia, alla delicatezza e alla discrezione del suo sentire, in un’epoca in cui si assiste a un frastuono di voci. Ma ce n’era bisogno, perché la poetica dell’Arrigo è di quelle che lasciano il segno, che fanno molto riflettere sulla realtà dell’universo femminile.
Il “libero canto” di Liliana Arrigo, scoperto in se stessa e nei luoghi d’infanzia quasi per partenogenesi, non conosce limiti di tempo, diventa eterno sentire della donna e messaggio incarnato nelle fibre dell’anima:

 
186545_100000195136894_2787186_nUNICO RIFUGIO
 
Crebbi, tra screpolate case, dal tempo scurite,
che il vento carezzava, leggero.
Strette le strade tortuose
risonanti dei miei passi infantili
e, nei chiusi cortili, rossi gerani
e risa argentine nei giochi innocenti.
Svanirono gli anni:
caleidoscopio di vetro
e sospiri d’amori inventati
a raccontare lunghi silenzi.
E si andava nelle vuote ore
ad incrociare sogni uguali, il cielo avaro di luce,
nell’ombroso viale frusciante di vita.
Anni di ristretti confini
di speranze pulsanti a rodere il freno.
Partii, senza esitare partii,
randagia, sempre più in là, sempre più in là.
Ma la nostalgia delle proprie radici
pure da lontano cresceva,
cresceva l’affetto, il rimpianto cresceva
incagliato al ricordo, stampato per sempre
di mandorli e ulivi, di rovine di così forte vanto.
E struggermi d’insaziato amore
al ribellarsi di ogni fibra,
per rintracciare, alfine, delle radici la via
che al centro del mio mondo mi recò.
Città benigna e d’indegni abusi,
d’irrimediabili danni a rosicare il cuore.
Agrigento, tu unico rifugio,
città immota uguale a sempre
seppur rovinosa nel silenzio stagnante.
 

Questi acuti “sentimenti” dei luoghi d’infanzia, diventati presto con il passare del tempo un peso del cuore, attizzano la ribellione ad vita sempre uguale, fino diventare decisione a spezzarne la trama. La vita di una poetessa è moto perpetuo, è cercare e a volte non trovare, è cercarsi nell’intimo, raccogliere gli echi sommessi e sommersi, volgere uno sguardo speculare sul mondo e all’interno della propria anima, sviscerandone anche le contraddizioni:

 
186545_100000195136894_2787186_nMI CERCO
 
Mi cerco
nella tenerezza intrisa
di luce e viluppo d’ombra,
nei sentimenti sottratti
e nell’indifferenza anchilosata
che come abisso ci separa.
Mi cerco
nello sprezzo di crude realtà,
vulnerabile nelle sviste addizionate,
pianeta alla ricerca di un senso,
tra cuori corrotti
e orecchie che non sentono.
Mi cerco
negli occhi ignari dell’innocenza,
argilla da modellare,
nella ghirlanda di sguardi
del mio sterile orgoglio
e nello strepitare di sensi astratti.
Mi cerco
nelle folate di vento
che fanno rabbrividire pensieri di carta,
laceri fogli che rotolano,
rotolano
verso ignote destinazioni.
Mi cerco
mentre mi soffermo
ad inanellare parole
per aleggiare svelta
senza mai raggiungermi
 

Cercarsi e non trovarsi anche nel proprio amore, sentire di aver perso, in una propria vicenda annichilita, la bellezza del firmamento.
 

Liliana ArrigoNON DI STELLE SI NUTRE IL MIO CIELO
 
Sinuoso, sconfina il tuo pensiero
scisso dal mio,
fuoco estinto di occhi
che non s’incontrano
e mani che più non tremano.
Si ripone ogni luce
tra cremisi sipari sfiorati dal vento
e di sospiri trattengono impronte.
Mani d’argilla,
disseccano distese di mare
per sperdermi, mani accorate,
nell’assenza d’ogni suono.
Il mio pianto nelle mani
ad intonare mute preghiere,
ora che non di stelle si nutre il mio cielo.
Nel tempo mani vuote sorreggono il dolore
e  mute ricordano
la tua mano sulla mia
intrecciare desideri.
Morbide mani
serpeggiavano calde
rovistando il mio corpo
arrendevole, cieche…
e invano m’inganno
cercando tra le mie,
illividite, invisibili mani.
 

Il calice del dolore, dell’orgoglio ferito è duro e odioso, ma l’amore della donna e il suo sacrificio riescono a sublimarlo.

186545_100000195136894_2787186_nSE TI VEDO

Se ti vedo
tremo d'amore
invece vorrei disprezzarti.
Una tela incantata mi hai tessuto,
e con tutto che sembravo una regina,
come lenzuolo usato
mi hai gettato via.
Ora non so più come trascorrere
i miei giorni
e triste, trascinandomi cammino,
in mezzo ai tormenti.
Di pene un fardello come piombo
porto sulle spalle,
negli occhi trema il pianto,
di mille e più sospiri
è pieno il cuscino.
Povero cuore nero e stracciato,
questa è piaga che non sana,
riposo ormai più non trova.
E amaro inghiotto,
se ti vedo,
il cuore mi sobbalza nel petto,
tremo d'amore
ma forza mi faccio
per poterti scordare.

 
 

Sogno perseguibile, e forse mai raggiungibile, è quello della donna, anelito perenne di libertà in un mondo d’incomprensioni, di antagonismi, di laceranti divisioni, di pregiudizi duri a morire.

 

186545_100000195136894_2787186_nL’ORO DELLE MIMOSE
 
C’è come un’attesa
in questo giorno di mimose
che brilla su un sipario di fuoco
senza via di fuga,
fuori cantava la libertà senza ombre.
E vedere nel giorno un simbolo
e scambiarsi parole vaghe
e intense risate
per paura di affrontare il presente.
Festeggiano le donne
gettando via i silenzi
chiusi dentro i pensieri.
Donne di un uomo o di nessuno
che oggi sorridono con occhi di bambina,
donne dalle ossa stanche
che con un colpo di ciglia
ritornano a sperare nella luce
dopo l’ombra.
Donne che non lasciano impronte
e, a volte, riescono a volare
oltre l’oro delle mimose.
 
Biografia
 

Liliana ArrigoLiliana Arrigo già da bambina amava scrivere poesie.Ultima recita di Montalbano
Nel tempo, la crescente passione l’ha portata a partecipare e a vincere numerosi premi letterari sia in vernacolo che in lingua. Tra i riconoscimenti il premio “Alessio Di Giovanni”, il premio “Kalura”, il memorial “Rosa Balistreri”, “Lu Papanzicu”, il “Duerre”. Sue poesie sono presenti in riviste specializzate e antologie. Dal 2009 presiede l’Associazione culturale “Il libero canto di Calliope”, della quale è stata la fondatrice e di cui fanno parte noti poeti, scrittori e musicisti di Agrigento e del suo immediata hinterland. Diverse le iniziative di promozione dell’Associazione: il Premio “Pippo Montalbano”, giunto alla seconda edizione, il concorso letterario “Una poesia per Pirandello”, all’interno del Pirandello Stable Festival, il reading di poesie sul mandorlo, partecipazione a “I colori della pace” ideato dai fratelli Gerlando e Paolo Cilona.
 

09 sabato Apr 2011

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crispi, garibaldi, i vecchi e i giovani, letteratura - articoli, pirandello, ricci gramitto, risorgimento, sicilia, storia, unità diralia

Luigi Pirandello Pirandello e il Risorgimento familiare
 

Pirandello definisce I vecchi e giovani il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso, ov’è racchiuso il dramma della sua generazione. E in effetti, in questa poderosa opera largamente autobiografica – come ebbe a rilevare Leonardo Sciascia in Pirandello e il pirandellismo – emerge tutta l’amarezza per il Risorgimento tradito; un Risorgimento per lo scrittore  intriso di memorie, di fatti e di sentimenti familiari, rivissuti sin dall’infanzia attraverso le parole del padre Stefano, carabiniere garibaldino, e della madre Caterina Ricci Gramitto, che a soli tredici anni, con tutta la famiglia, assistette impotente al dramma del padre Giovanni, condannato ad espatriare dai Borboni nell’esilio di Malta.
Madre di Pirandello

Nella novella Colloqui coi personaggi il fervente spirito patriottico della famiglia Ricci Gramitto viene rievocato dalla madre con accenti drammatici, nel contrasto potente tra la bellezza dell’isola maltese “con quel golfo grande grande, d’un azzurro aspro, luccicante d’aguzzi tremolii”, del paesello bianco di Burmula,, “piccolo in una di quelle azzurre insenature”, e il cordoglio senza fine del padre di non poter vedere per la Sicilia il giorno della vendetta e della liberazione: stato d’animo che lo consunse a poco a poco a soli 46 anni.
 
“Ci chiamò tutti attorno al letto il giorno della morte e si fece promettere e giurare dai figli che non avrebbero avuto pensiero che non fosse per la patria e che senza requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa” (Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915).
 
Il nonno dello scrittore, Giovanni Battista Ricci Gramitto, avvocato di Girgenti, aveva pagato con l’esilio forzato e la morte di stenti per essere stato uno dei massimi esponenti dei moti rivoluzionari del 1848-49 a Palermo – primo evento rivoluzionario in Europa – e per questo non era rientrato nell’amnistia del general perdono del Borbone, unitamente ad altri 42 esclusi: 1) D. Ruggero Settimo; 2) Duca di Serradifalco;  3) Marchese Spedalotto; 4) Principe di Scordia; 5) Duchino della Verdura;  6) D.Giovanni Ondes; 7) D.Andrea Ondes; 8) D. Giuseppe La Masa; 9) D. Pasquale Calvi; 10) Marchese Milo; 11) Conte Aceto; 12)  Abate S. Ragona; 13) Giuseppe La Farina; 14) D. Mariano Stabile; 15) D. Vito Beltrani; 16) Marchese di Torrearsa; 17) Pasquale Miloro; 18) Cav. D.Giovanni S.Onofrio; 19) Andrea Mangerua; 20) Luigi Gallo; 21) Cav. Alliata; 22) Gabriele Carnazza; 23) Principe di S.Giuseppe; 24) Antonino Miloro; 25) Antonino Sgobel; 26) D. Stefano Seidita; 27) D. Emmanuele Sessa; 28) D. Filippo Cordova; 29) Giovanni Interdonato; 30) Piraino di Milazzo; 31) Arancio di Pachino;  32) D. Salvatore Chindemi di Catania;  33) Barone Pancali di Siracusa; 34) D. Giuseppe Navarra di Terranova; 35) D. Giacomo Navarra di Terranova; 36) D. Francesco Cammarata di Terranova; 37) D. Carmelo Cammarata di Terranova; 38) D. Gerlando Bianchini di Girgenti; 39) D. Mariano Giojeni di Agrigento; 40) D. Francesco Giojeni di Girgenti; 41) D. Giovanni Gramitto di Girgenti; 42) D. Francesco De Luca di Girgenti; 43) D. Raffaele Lanza di Siracusa.
Morto il padre, la famiglia di Caterina aveva fatto ritorno in patria, in casa di quello zio che l’aveva mantenuta durante l’esilio a Malta, quello stesso zio canonico che era stato costretto a cantare controvoglia alla Cattedrale il Te deum di ringraziamento per il ritorno al trono di Ferdinando II di Borbone, mentre il fratello prendeva la via dell’esilio.
Ma l’insofferenza alla tirannia del Borbone continuava ad essere viva e, come una vera ossessione,  non risparmiava nessuno dei discendentii della famiglia Gramitto, uomini e donne, fedeli al ricordo paterno e al richiamo della patria:
 
“Eh sì, troppo veramente mi doleva d’essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii, quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il mio più piccolo fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al Presidio borbonico, nella stess’ora che a Palermo un altro
il convento della ganciadei miei fratelli doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici!” (Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915)
 

Lo zio Rocco Ricci Gramitto
la campana della ganciaMentre alla Gancia di Palermo il fratello di Caterina, Rocco Ricci Gramitto, si salvava a stento, a Girgenti l’altro fratello, Innocenzo, issava il tricolore, mettendolo nel pugno di una statua sulla facciata della chiesa del Purgatorio, come ricorda tuttora l’iscrizione di una lapide. 
 

Nell’aprile 1860
animosi girgentini del Risorgimento
guidati dalla profonda anima religiosa
di nostra gente
issavano per la prima volta
il vessillo della Patria
in pugno a questa statua
sul fronte sacro di questo tempio
all’ombra della Croce.

 
Francesco CrispiL’anima di questa nuova rivoluzione era stato il siciliano Francesco Crispi, il quale, già a Napoli, dove esercitava l’avvocatura, aveva fatto da tramite tra i patrioti napoletani e quelli siciliani. Allo scoppio dei moti del ’48 (12 gennaio) Crispi aveva fatto parte del Comitato di Guerra, risultando poi eletto deputato alla Camera dei Comuni. Fallita la rivoluzione, nel ’49 era andato poi esule in Piemonte, venendone però espulso nel 1853, costretto quindi ad espatriare a Malta. Ma anche da Malta veniva cacciato, riparando precipitosamente a Londra e quindi a Parigi, dove riuscì a tenere i collegamenti con Mazzini e Rosolino Pilo. L’insurrezione in Sicilia era stata concordata con il Mazzini, il quale a sua volta l’aveva studiata nei minimi dettagli con Garibaldi. Doveva trattarsi di una rivoluzione repubblicana e, per questo, Crispi si era recato in Sicilia, in gran segreto, già nel luglio-agosto del 1859, al fine di poter preparare il terreno. Sarebbe iniziato tutto dal convento della Gancia di Palermo, con l’intento di incendiare, per farle sollevare, tutte  le popolazioni del Sud fino a Roma. Tuttavia, il fallimento dell’impresa non impedì a Garibaldi di partire da Quarto, convinto in ciò da Crispi che, ottenendo l’assenso tacito dei Savoia,  aveva perorato la spedizione come l’ultima chance che si offriva per svincolare il sud dal giogo dei Borboni.
Ai garibaldini, partiti da Quarto, si unirono i patrioti siciliani, tra cui il padre dello scrittore e gli zii Rocco e Vincenzo, i quali,  tutti, parteciparono, l’anno successivo, all’ulteriore spedizione garibaldina, conclusasi infaustamente all’Aspromonte. Lo zio Rocco per primo soccorse Garibaldi ferito e raccolse lo stivale del generale, che oggi si trova al Vittoriano di Roma, dono della famiglia Ricci Gramitto..
Ma anche il padre dello scrittore fu un entusiasta garibaldino della prima ora, arruolandosi tra i carabinieri e marciando al fianco del generale, seguendolo dalla Sicilia fino a Napoli e successivamente nell’infausta impresa dell’Aspromonte. Durante l’epopea garibaldina, Stefano Pirandello aveva conosciuto Francesco Crispi – di cui sarebbe divenuto poi un grande elettore – e il futuro cognato Rocco Ricci Gramitto. Le parole della madre:
 
“Quando quel mio fratello ritornò dalla prigionia nella caserma di San Benigno a Genova, tutto il popolo qua lo condusse quasi in trionfo alla madre e a noi che lo aspettavamo festanti; e fu allora ch’io conobbi per la prima volta vostro padre, reduce anche lui d’Aspromonte, garibaldino anche lui del Sessanta, carabiniere genovese. Avevo già ventisette anni e non volevo più sposare; mi toccò sposare perché lui lo volle, lui che poteva imporsi al mio cuore con la bella persona e più, in quei fervidi anni, con l’animo che voi figliuoli gli conoscete, per cui ancora, vecchio, esulta e si commuove come un bambino per ogni atto che accresca onore alla patria” (Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915)
 
Stefano Pirandello e Rocco Ricci Gramitto s’iscrissero alla Massoneria, di cui facevano parte come dirigenti Garibaldi e Crispi, e furono in corrispondenza con il Generale. Subito dopo l’Aspromonte, Rocco Ricci Gramitto aveva inviato una lettera all’Eroe, chiedendo notizie sul suo stato di salute e dedicandogli dei versi. Il generale aveva risposto:

garibaldi “Caro Gramitto accetto riconoscente la dedica dei Vostri bei versi e ve ne ringrazio; Voi con la mente e col braccio avete mostrato di qual santo affetto amate la Patria. Gradite una mia stretta di mano, e tenete lo stivale che raccoglieste in Aspromonte per memoria del Vostro Giuseppe Garibaldi”

Anche il padre dello scrittore scrisse all’Eroe una lettera di augurio per la guarigione e ne ebbe riscontro:

“Signor Pirandello, Vi ringrazio dell’affettuosa memoria che mi serbate. La mia salute va sempre meglio ed io conto di guarire presto. Dite ai vostri compaesani che abbiamo fede nei destini dell’Italia, dessi sono maturi e presto ci troveremo ancora sulla via di Roma e Venezia. Vostro G. Garibaldi”.
 
Ma se il fervore patriottico dei genitori rivive nella premessa de I vecchi e i giovani La famiglia Pirandelloa loro dedicata (Ai miei vecchi genitori/ perché di cuore e di mente/ più giovani di me/ nella festa delle loro Nozze d’oro/ 28 novembre 1863-1913/ quest’opera, in cui i loro nomi/ Stefano e Caterina/ vivono eroicamente/ o.d.c. Luigi Pirandello), il romanzo costituisce la dimostrazione palese di un Risorgimento che tradì le attese della Sicilia – e del Sud –  ad opera di quegli stessi personaggi che ne avevano rappresentato le istanze, primo fra tutti quel Francesco Crispi che aveva propugnato la repubblica ed era sceso a patti con il Re.
La svolta per la struttura del romanzo furono i fatti del 1893-1894, allorquando violente insurrezioni contadine, in tutta l’Isola, erano sfociate nel sangue, ed avevano coinvolto drammaticamente l’organizzazione dei Fasci Siciliani, che nel maggio del 1893 avevano ottenuto, con i patti di Corleone, notevoli miglioramenti dei contratti agrari.  I fasci siciliani avevano squassato anche la città di Girgenti, dove molti pagarono con il carcere e il lontano cugino dello scrittore, Francesco De Luca, fu salvato grazie all’intervento della famiglia Pirandello. Le premesse di questi drammatici eventi, sedati duramente da un figlio dell’isola e patriota, Francesco Crispi, sono racchiuse tutte  nelle parole di Corrado Selmi:
 
“…ci ostiniamo purtroppo a voler essere ombre noi, qua, in Sicilia. O inetti o sfiduciati o servili. La colpa è un po’ del sole. Il sole ci addormenta finanche le parole in bocca! Guardi, non fo per dire: ho studiato bene la questione, io. La Sicilia è entrata nella grande famiglia italiana con un debito pubblico di appena ottantacinque milioni di capitale e con un lieve bilancio di circa ventidue milioni. Vi recò tutto il tesoro dei suoi beni ecclesiastici e demaniali, accumulati da tanti secoli. Ma poi, povera d’opere pubbliche, senza vie, senza porti, senza bonifiche, di nessun genere. Sa come fu fatta la vendita dei beni demaniali e la censuazione di quelli ecclesiastici? Doveva essere fatta a scopo sociale, a sollievo delle classi agricole. Ma sì! Fu fatta a scopo di lucro e di finanza. E abbiamo dovuto ricomprare le nostre terre chiesastiche e demaniali e allibertar le altre proprietà immobiliari con la somma colossale di settecento milioni, sottratta naturalmente alla bonifica delle altre terre nostre. E il famoso quarto dei beni ecclesiastici attribuitoci dalla legge del 7 luglio 1866? Che irrisione! Già, prima di tutto, il valore di quei beni fu calcolato su le dichiarazioni vilissime del clero siciliano, per soddisfar la tassa di manomorta; e da questo valore nominale, noti bene, furono dedotte le percentuali attribuite allo Stato e le tasse e le spese di amministrazione. Poi però tutte queste deduzioni furono ragionate sul valore effettivo e furon sottratte inoltre le pensioni dovute ai membri degli enti soppressi. Cosicchè nulla, quasi nulla, han percepito fin oggi i nostri Comuni. Ora, dopo tanti sacrifici fatti e accettati per patriottismo, non avrebbe diritto l’isola nostra d’essere equiparata alle altre regioni d’Italia in tutti i benificii, nei miglioramenti d’ogni genere che queste hanno già ottenuto?(I vecchi e i giovani, romanzo, 1913)
 
L’Unità d’Italia non fu un affare per la Sicilia, anzi fu l’inizio di nuove ingiustizie per la gente del Sud, tradita dai suoi stessi figli, coinvolti nelle beghe di palazzo e nella corruzione dello Stato centralizzato (scandalo della Banca Romana). E tale disillusione, a causa di uno Stato sordo alle istanze dei figli migliori, traluceva ancora nel 1910 dalle semplici parole del padre Stefano da una lettera scritta alle sue nipotine, figlie della primogenita Rosolina:
 

Il padre di Pirandello

”Mie care nipotine, dovete sapere che i Carabinieri Genovesi erano esclusivamente comandati dal Generale Garibaldi, ed il vostro vecchio nonno ebbe l’onore d’appartenere a questo Corpo scelto che pagò sempre con usura il suo tributo di sangue! Ora il governo dell’ineffabile Giolitti ci ha ricompensati con una pensione di 25 centesimi al giorno dopo trascorsi 49 anni! Però la nostra ricompensa, più che dai 25 centesimi l’abbiamo ricevuta dalla nostra coscienza…”.

 

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