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GLI EREDI DI VOLTAIRE

“LA CULTURA NON E’ UN OPTIONAL”

 

In merito al “Candido” di Voltaire, al candore e al valore illuministico dell’ottimismo, va considerato che il filosofo francese, come tutti gli Enciclopedisti, riuscì a suscitare una vera rivoluzione nel campo del sapere pratico. Per vent’anni dal 1758 al 1778 François-Marie Arouet, al secolo Voltaire, soggiornò nel piccolo paese di Ferney sul lago di Ginevra, in una tenuta a cavallo del confine tra Francia e Svizzera, dove egli quotidianamente poteva scegliere il posto, nella madrepatria o nella nazione elvetica, per meditare liberamente, senza il pericolo di incappare nei gendarmi che i potenti di tutto il mondo gli avrebbero potuto sguinzagliare. Fu proprio a Ferney che Voltaire scrisse "Il trattato sulla tolleranza" (1763), che prese spunto dalla vicenda di un commerciante ugonotto di Tolosa condannato a morte ingiustamente per l’omicidio del figlio; opera che costituisce il manifesto per la libertà e il valore universale della tolleranza, i cui temi fondamentali furono ripresi l’anno successivo nel Dizionario Filosofico, nel quale si definisce la tolleranza “appannaggio dell’umanità”

Il lascito di Voltaire quindi è l’invito illuministico a combattere l’ignoranza, il pregiudizio, la superstizione e l’arroganza del potere, in nome della cultura, del cosmopolitismo, della libertà di coscienza. E’ un appello alle facoltà critiche dell’uomo e alla sua razionalità, che si estende anche all’estetica e al giudizio su ogni forma di comunicazione umana, che gli faceva dire: “il gusto non è che un discernimento vivo, una percezione pronta, che anticipa la riflessione; esso non è mai una sensazione vaga e confusa, ma sempre una visione distinta”, distinguendo poi un gusto intellettuale da un gusto sensibile, il primo dipendente dall’educazione e dalla cultura, molto più del secondo appropriato alla semplice percezione del bello.

Ciò la dice lunga sull’attualità del pensiero illuministico e del suo messaggio culturale e sulla reale portata della storiografia.  Per Voltaire la storia non è pura erudizione, ma deve chiarirci i legami del contesto culturale, prendendo in esame le istituzioni, le arti, il commercio, gli interessi della gente minuta, ponendosi dal punto di vista dei sudditi, dei cittadini, anziché di quello dei governi.

Nella storia così concepita si vedono susseguirsi gli errori e i pregiudizi, i quali mettono in fuga la verità e la ragione. Si osserva che gli uomini abili e fortunati mettono in catene gli imbecilli e schiacciano gli sfortunati e sono essi stessi lo zimbello della fortuna, al pari di coloro che essi governano. Infine gli uomini vengono un po’ illuminati da questo quadro della loro sventura e della loro sciocchezza. Le società pervengono con l’andar del tempo a rettificare le loro idee, e gli uomini imparano a pensare.” Una emblematica descrizione, valida per tutti i tempi, come diceva Goethe:”La verità appartiene all’uomo, l’errore al tempo”.

Cultura e cambiamento, quindi, sono le parole chiavi per rivedersi e rivedere le istituzioni dal di dentro, attraverso l’accoglimento del pluralismo dei valori “come comprensivi di ogni forma di libertà, morale, politica e sociale”, per dirla con Noberto Bobbio (“Le ragioni della Tolleranza”).

Analogamente, Baruch Spinoza affermava che la libertà di coscienza, nella sua più vasta accezione, è il valore fondante della socialità di qualsivoglia aggregato civile e Popper considerava che la discussione razionale dovrebbe aiutare i governanti a correggere gli errori di rotta, avvicinandosi a quello che i cittadini si aspettano, ed eventualmente abdicando quando viene a mancare la condivisione tra i governanti e gli amministrati. E’ la regola democratica, scrive Bobbio.

Se dunque la giustizia e l’equità costituiscono il requisito primo delle istituzioni sociali come la verità di ogni sistema di pensiero, sta dunque a tutti, precipuamente alla classe dirigente, intervenire consapevolmente e attivamente per impedire che le istituzioni decadano e fare in modo che, in mezzo a tante contraddizioni, si possa compiere qualche, sia pure lento, passo innanzi.

Un percorso difficile in questa società, corrosa e corrosiva, ma un imperativo categorico che deve far riappropriare ciascuno dei valori culturali più autentici, così come affermò Goethe:”nulla è più apprezzabile del sapere e della conoscenza”, eco delle parole dell’Ulisse dantesco. “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.


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Se Voltaire dovesse vivere nell’evo attuale, si meraviglierebbe di molte cose e chissà quale trattato dovrebbe scrivere e con che strali. Eppure problemi piccoli e grandi sono sul tappeto e la concezione storica della vita non si può dire il trionfo eufemistico del candore. La storia non è, oggi come oggi, maestra di vita né luce di verità. La storia si ripete invece, come prima, peggio di prima, quasi con la stessa cadenza e l’individuo ne è squassato, disorientato. Il disorientamento non è solo dei giovani, ma di tutti. Scrissi su questo argomento, un paio di anni fa, un racconto soft, senza pretese, al solo scopo di denuncia morale dell’ingranaggio che stringe e che a volte ci stritola.  

 

LA RACCOMANDAZIONE

 

L’immaginazione dispone di tutto:

essa crea la bellezza, la giustizia e la felicità…

 

Blaise Pascal

 

Il medico dell’ospedale di Consolida era molto giovane, forse alle prime armi. Ma era coscienzioso e attento. Gli prescrisse una serie infinita di esami; studiò la sua storia clinica; lo visitò scrupolosamente. Alla fine fece la diagnosi: “Professore, lei è un uomo sano, sano come un pesce!”

Lo guardò attraverso gli occhiali cerchiati. Ma il suo sguardo non era limpido.  In quegli occhi chiari, che lo scrutavano seriamente, si notava una leggera increspatura, come un’ombra.

Il professore si sentì rimescolare e non potè fare a meno di pensare: “Vuoi vedere che costui mi nasconde qualcosa? Magari un tumore?…”

Come se avesse captato telepaticamente il suo pensiero, il medico aggiunse:

”Ma c’è una strana malattia, della quale siamo tutti affetti. Chi più, chi meno, in maniera cronica o transitoria. E’ l’infelicità. Io non conosco rimedi efficaci. Soltanto la conoscenza della propria anima potrebbe aiutare. Ma questo dipende dal paziente e non dal medico.”

All’uscita dell’ospedale meditava ancora sulle ultime parole del medico, quando un assembramento di extracomunitari calamitò la sua attenzione. Protestavano con tono piagnucoloso nei confronti di due metronotte con le seguenti parole:

”Perché ci impedite di vendere questi oggetti che ci permettono di mangiare?”

I potenziali clienti, che si erano fermati in disparte a curiosare, sembravano neutrali. Passando, il professore borbottò tra i denti:“Lasciateli campare!”, ringraziato dagli sguardi di gratitudine dei poveri cristi, mentre i due metronotte sembrarono perplessi. 

Allontanandosi con la sua utilitaria, vide poi che la discussione continuava meno aspra. Alcuni extracomunitari avevano già poggiato dei panchetti con la loro mercanzia e i metronotte con minore insistenza li invitavano a toglierli. Queste scene si ripetevano dovunque. Anche sul lungomare di San Leone, la sera, c’erano estenuanti tira e molla con le guardie municipali. E chissà quante volte in futuro si sarebbero ripetute. Era il segno dei tempi.

Sul lungo rettilineo verso la città, gli antichi pensieri tornarono ad assalirlo come un fiume in piena. Il suo chiodo fisso era il figlio. Era disoccupato e s’era dovuto sposare in fretta e in furia. La moglie, pure lei disoccupata, aspettava un bambino. Al solo pensarci, gli si torcevano le budella.

Gli amici cercavano di indorargli la pillola:”Vedrai ! E’ un bravo giovane, un vero mago del computer: troverà una sistemazione quando meno te l’aspetti. Magari al nord, dove cercano bravi tecnici.”

Al nord no!, pensava. Ci vorrebbe pure questa bella notizia! La gente non sa cosa vuol dire vivere in una grande città, con un reddito misero, lontano dalla famiglia, al limite della sussistenza. E’ lo stesso che essere disoccupati. Tanto vale restarsene a casa propria, almeno con il conforto dei parenti. In ogni caso, a costo di svenarsi, lui lo avrebbe categoricamente impedito.

Nel forte di questi pensieri, era arrivato davanti al Palazzo di Governo, nei pressi del quale stazionavano una ventina di dimostranti. Una manifestazione composta, con striscioni di protesta e bandiere dei sindacati. Tutti gli automobilisti venivano invitati a non parcheggiare sulla piazza completamente deserta: erano posteggiatori precari che erano stati licenziati in tronco e chiedevano solidarietà. Padri di famiglia costretti dal bisogno ad umiliarsi in pubblica piazza, chissà con quali risultati! Ma la gente cominciava ad alzare la cresta e questo era positivo. Si ricordò del sessantotto, delle sfilate, dei comizi, degli intellettuali e degli studenti che marciavano assieme. Non cambiammo il mondo, ma che bagno di folla! Come allora, ci vuole una presa di coscienza. Bisogna ribellarsi! Ma questi sono quattro gatti! Il potere ci tiene isolati, alla lunga ci disarma! Con chi prendersela, contro chi protestare? La rabbia gli attanagliava lo stomaco.  

Decise di scendere a casa, a San Leone; ma prima si fermò al Villaggio Peruzzo per comprare il pane. Sulla piazza un suo amico sindacalista e due interlocutori sconosciuti parlavano animatamente.

“Tu cosa ne pensi, professore, del termovalorizzatore?” l’interrogò al volo il sindacalista.

“Invenzioni che ci complicano la vita. Ormai il nostro mondo è tutto una pattumiera!” rispose imbronciato.

Già, una bella risposta! Ma intanto, il giorno innanzi, lui, vecchio socialista e libero pensatore, era andato ad umiliarsi a Canossa.  Per un’udienza che proprio il suo amico sindacalista gli aveva fissato con un deputato dell’estrema destra; un reazionario ch’era stato suo alunno sui banchi di scuola. Ah, i figli! Per i figli si smuovono mari e monti.

L’onorevole aveva molta voce in capitolo persino nelle alte sfere, a Roma. Almeno, così aveva lasciato intendere. Prima di riceverlo, lo aveva fatto penare, disertando ben tre appuntamenti consecutivi. Al quarto incontro, fece finta di non ricordare ch’era stato suo alunno. E, con incredibile supponenza, finì per lasciarlo a bagnomaria: il posto di lavoro? Cosa fattibile! Ma non poteva fare alcuna previsione. Forse l’anno prossimo, chi lo sa, prima delle elezioni politiche. Come dire, io ho il coltello dalla parte del manico e, se ti va, devi aspettare.

Alle due in punto si mise a tavola di malavoglia, davanti al televisore sintonizzato su una rete locale. Tra una forchettata e l’altra, gli sfilavano davanti immagini di politici dai visi sorridenti che facevano passerella; oppure, senza mezze misure, cori di lamentele, contumelie, proteste. Provò il solito disgusto.

Neanche la pennichella pomeridiana gli portò refrigerio. Quindi decise di alzarsi e d’andarsene sul lungomare. Ma anche lì la sporcizia, le erbacce, la trascuratezza, persino le acque del mare color del fango per la mareggiata, finirono per impazientirlo. Mentre il sole declinava, gli arrivò una telefonata sul cellulare. Era il figlio che aveva una bella notizia da dargli. Sarebbe stato assunto a Padova, assieme alla moglie, in una ditta del padre di un collega d’università, un ingegnere che aveva realizzato in Veneto un piccolo impero nel mondo dell’informatizzazione. Come fu subitanea la simpatia per il Triveneto, anche se sapeva ch’era la patria di tanti leghisti! E come si fa in fretta a cambiare d’umore! Il Nord? A pensarci bene, con due stipendi e tanta voglia in corpo, non poteva fare paura! E l’onorevole?

L’onorevole è servito! Lo raccomanderò alle prossime elezioni politiche, facendogli la campagna elettorale al contrario. Così si disse, sorridendo per la spiritosaggine.    

 (racconto di Ubaldo Riccobono, tutti i dirirri riservati)