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I VECCHI E I GIOVANI

STORIA DI SEMPRE

Vincenzo Sciamè, ritratto di Pirandello 

CENTO ANNI FA USCIVA

L’OPERA DI LUIGI PIRANDELLO

 

Ricorre quest’anno il centenario della pubblicazione del romanzo di Luigi Pirandello “I vecchi e i giovani”. Fu la rivista La rassegna contemporanea a pubblicare l’opera a puntate. Nel 1913 invece i fratelli Treves di Milano diedero alle stampe l’opera, riveduta e corretta, in due volumi. Tra le due date s’inserisce un episodio curioso che vide al centro di un giudizio, conclusosi con la condanna del Premio Nobel da parte del pretore di Lanciano, il famoso romanzo. Era accaduto che lo scrittore s’era impegnato con l’editore di Lanciano, Rocco Carabba, a scrivere un libro scolastico. Pirandello, cui non andò a genio un libro di tal fatta, offrì in cambio all’editore delle novelle e alla fine il  romanzo, ottenendo l’autorizzazione dei fratelli Treves che lo volevano pubblicare. Barabba rifiutò e invitò Pirandello all’impegno originario. Lo scrittore, esulcerato, per lettera offese il Carabba:

vedo chiaramente che lei capisce di letteratura quanto può capirne un cerinajo… “ “si permette certe insinuazioni che soltanto si possono perdonare a un incosciente… “ “lei non solo non è in grado di apprezzare le mie novelle, ma neppure è degno di leggere e di tenere in mano… “ Fu condannato in pretura ad una pena pecuniaria e a rifondere i danni.

 Maschera che piange

Maschera nudaIl non-senso della storia

 

Ha ragioni da vendere Leonardo Sciascia, quando, nel suo saggio Pirandello e la Sicilia, sostiene che I Vecchi e i Giovani  costituiscono “l’opera più autobiografica di Pirandello”, perché il romanzo, lungi dal voler ricostruire la storia della Sicilia, quantunque “amarissimo e popoloso”, come lo definì lo stesso scrittore, rappresenta non l’epopea, ma il dramma di due generazioni e dei personaggi, grandi e piccoli, che le composero. E’ invece contraddetto dallo stesso Pirandello l’altro assunto sciasciano che, alla stregua della critica di Emilio Cecchi, ritenne che l’opera costituisse un “romanzo storico senza senso della storia”. Nella Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello chiarisce perentoriamente di avere la disgrazia di appartenere agli scrittori di natura più propriamente filosofica, i quali, rispetto a quelli di natura storica, sentono un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che non si imbevano, per così dire, d’un particolare senso della vita. E c’è da credergli, perché Pirandello, in tutto il corpus delle sue opere, afferma che una logica della storia non esiste e ogni accadere è unico e irripetibile, come unica e irripetibile è la coscienza umana. Non opera di storia si tratta, quindi, ma di vita, di “vite parallele” di due generazioni, così come disse Plutarco: οΰτε ίστορίας γράφομεν άλλά βίους (“non di storia scriviamo ma di vita”).

Pirandello1Pirandello6

L’opera, quindi, non si prefigurava nella mente di Pirandello come contrapposizione di modelli sociali; ma, attraverso la focalizzazione sui personaggi, voleva addentrarsi nei meccanismi complicati della coscienza individuale, nonché descriverne i mutamenti, le utopie, le indecisioni. Visione filosofica, quindi, siccome si era andata evidenziando a partire da Cartesio, allorquando il principium individuationis cominciò a ruotare attorno al soggetto e al suo pensiero, giacchè l’uomo non poteva andare al di là dell’esperienza possibile dei singoli fenomeni, né poteva riuscire ad avere della storia una conoscenza oggettiva, alla quale far riferimento.

LIl novecento, in particolare, era il secolo della crisi e  la concezione di Pirandello non poteva non nascere da un ripudio aprioristico della realtà storica, che si fa sempre “giuoco” del fattore umano, e nei suoi corsi e ricorsi lo sbeffeggia sempre:

 

La storia è composizione ideale d’elementi raccolti secondo natura, le antipatie, le simpatie, le aspirazioni, le opinioni degli storici e che non è dunque possibile far servire questa composizione ideale alla vita che si muove con tutti i suoi elementi ancora scomposti e sparpagliati (Pirandello, La tragedia d’un personaggio, novella, 1915)

 

L’uomo in balìa degli eventi

 Erma bifronte, Vincenzo Sciamè

Consapevole che il fluire della vita è un fatto singolare e che l’uomo, al suo interno, è come un’onda del mare che va e viene, Pirandello analizza le vicende autobiografiche della sua famiglia e degli altri personaggi di Girgenti che s’erano mossi sulla scena politica nazionale, filtrandole e traendone linfa attraverso il nichilismo dell’opera del filosofo tedesco Max Stirner, L’unico e la sua proprietà:

 

L’umanità guarda solo a sé, l’umanità vuol far progredire solo l’umanità, l’umanità è a se stessa la propria causa. Per potersi sviluppare, lascia che popoli e individui si logorino al suo servizio, e quando essi hanno realizzato ciò di cui l’umanità aveva bisogno, essa li getta, per tutta riconoscenza, nel letamaio della storia. (L’unico e la sua proprietà, Stirner)

 

 

I patrioti cadono in lotte sanguinose o in lotte contro la fame e la miseria; forse che il popolo se ne interessa? Grazie al concime dei loro cadaveri il popolo diventa un “popolo fiorente”! Gli individui sono morti “per la grande causa del popolo” e il popolo dedica loro due parole di ringraziamento e ne trae il suo profitto…E allora, sulla base di questi fulgidi esempi, non volete capire che è l’egoista ad avere sempre la meglio? (L’unico e la sua proprietà, Stirner)

 

Stirner non credeva nella lotta di classe e nella rivoluzione, perché esse avevano portato soltanto al riprodursi di nuove gerarchie, simili in tutto e per tutto a quelle già abbattute. Soltanto l’insurrezione dei singoli, di tipo anarcoide, poteva dare impulso al cambiamento del destino umano; e per questo il suo scetticismo radicale era stato criticato ed osteggiato in modo veemente da Marx, Engels e Feuerbach, e da tutta la sinistra hegeliana.

            Sotto il profilo della prassi, Pirandello diede ragione a Stirner, perché nel periodo post-risorgimentale vide il riciclarsi delle posizioni dominanti vetero-borboniche, il prevalere degli interessi personali, l’ascesa di uomini senza scrupoli e dalla dubbia moralità, la lotta spietata del potere per il potere e le sue più basse contaminazioni.

Se per lo scrittore, dunque, era sterile e improponibile il detto ciceroniano historia magistra vitae o  historia lux veritatis, neanche i frammentari eventi storici potevano essere cambiati dalla ribellione del singolo, gettato a caso nella vita, carne da macello alla mercè dei conquistadores, vecchi e giovani. Per cui l’unico senso che rimaneva a ciascun uomo era la presa d’atto della propria condizione, esattamente come recitano lapidariamente tre versi di Giuseppe Gioacchino Belli:

 

Cuesto semo noantri, Crementina,

che ccottivati a ppessce de frittura,

sce bbutteno a la mucchia de matina.

 

Pessimismo totale che è espresso similmente nell’Adelchi del Manzoni:

 

…loco a gentile,

ad innocente opra non v’è; non resta

che far torto o patirlo…

 

La storia è, per Pirandello, circolo vizioso, “diallelos” scettico, che non porta ad alcuna conclusione:

 

 

Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo, che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che, poco dopo, egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche… del non averci saputo illudere, poichè fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà… E dunque non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finchè non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà… (Pirandello, I vecchi e i giovani)

 Vincenzo Sciamè, pittura

Il giuoco delle parti, dunque: due, quante le generazioni indicate nel titolo, i vecchi e i giovani; due quante le parti della struttura del romanzo, sull’asse di due città Girgenti-Roma; due, quanti i momenti storici rappresentati, il Risorgimento e le vicende dello Stato post-unitario; due, quante le espressioni dell’anima, divisa tra realtà e finzione. L’impostazione simmetrica e binaria si evince, altresì, dal numero dei capitoli che suddividono entrambe le parti del romanzo, otto, multiplo di 2. L’otto, che indica stabilità, si ottiene da 4 x 2 o da 4 + 4, o da 2 + 2 + 2+ 2. In termini religiosi l’otto indica la rinascita e la regolarità delle generazioni, esattamente secondo quello che Pirandello voleva rappresentare: la vita, intesa  come flusso che si rinnova continuamente, scorrendo inarrestabile, senza che l’uomo possa opporsi a cambiarla. Diffidente per vocazione della natura umana, lo scrittore dovette constatare che la realtà circostante non era, né poteva essere il migliore dei mondi possibili, ma la somma delle ineliminabili sofferenze dei singoli, che il caso si divertiva a perseguitare. Quest’amara rassegnazione consigliava di ritirarsi nella rocca dell’individualismo, nell’attesa umoristica di tempi migliori, perché soltanto cambiando l’individuo e la sua etica si poteva migliorare la vita dell’uomo. Concezione che più tardi lo avrebbe portato all’ingenua adesione al fascismo di Mussolini, perché illusoriamente ritenne, alla stregua di Fichte, che soltanto un uomo forte potesse essere in grado di interpretare queste esigenze. Perciò, il suo romanzo, più che una condanna senza appello del microcosmo  e del macrocosmo, del micropotere (Girgenti) e del macropotere (Roma), mette in risalto quegli atteggiamenti e comportamenti dell’animo umano,  responsabili, per il giuoco sottile delle apparenze,  d’aver cristallizzato la vita dei giovani; e nel contempo fustiga la mancanza di concretezza di questi ultimi, i cui conati velleitari erano destinati a fallire nel marasma generale, per mancanza di scopi autentici.

 

Horror vacui

Vincenzo Sciamè 

Nel 1901 s’era conclusa la lunghissima gestazione dell’opera. Ma dovettero passare ancora otto lunghi anni, prima della sua pubblicazione. Frattanto, le vicende personali, gli eventi politici e sociali confermarono allo scrittore che vita e storia erano il flusso di sempre.

 

Calmo e freddo in apparenza, Lando Laurentano covava in segreto un dispetto amaro e cocente del tempo in cui gli era toccato in sorte di vivere; dispetto che non si sfogava mai in invettive  o in rampogne, conoscendo che, quand’anche avessero trovato eco negli altri, come ne trovavano difatti quelle dei tanti malcontenti in buona o in mala fede, non avrebbero approdato a nulla. Era, quel suo dispetto, come il fermento d’un mosto inforzato, in una botte che già sapeva di secco. La vigna era stata vendemmiata… Aveva dato il suo frutto, il tempo. E lui era venuto a vendemmia già fatta… (Pirandello, I vecchi e i Giovani)

 

L’evoluzione sociale dipendeva, sì, dalla libera scelta dell’intelligenza e del volere, ma si scontrava con un progresso tecnologico che, pur postulando una società sempre più ricca e aperta, non portava alla liberazione di tutti, ma anzi alla constatazione per la maggioranza della mancanza di quel che si desiderava o ci si attendeva, in un ciclo senza fine. Ebbe paura del vuoto interiore, sgomento del nulla, angoscia dell’infinito. Com’era possibile che si potesse essere passivi, ciechi, sordi? Qual era il senso della vita?

E che significato aveva descrivere i fatti, nudi e crudi, com’erano in realtà, alla maniera naturalistica, mentre nella coscienza s’agitavano il dubbio, la pazzia, lo straniamento? 

Vincenzo Sciamè, pittore

Giovanni Verga aveva ideologizzato l’immodificabilità della legge di natura, secondo la quale gli uomini erano mossi dall’interesse economico, dalla ricerca dell’utile, dall’egoismo, in una logica ferrea di sopraffazione dei più deboli, che finivano per soccombere sempre nella lotta per la vita. Ma l’arte per Pirandello poteva e doveva fare di più, doveva rappresentare quanto e in che modo la realtà effettuale giocava nella formazione della coscienza. L’arte non poteva essere impersonale, perché l’artista sente e riflette in se stesso le passioni, le illusioni e le delusioni degli altri, a maggior ragione nella misura in cui coincidono con i sentimenti propri.

Come non vedere che esisteva un’opposizione perenne tra vita e morte, amore e morte, corpo e spirito, forma e contenuto, arte e realtà, storia ed eternità?

L’invecchiamento dell’uomo, con le sue conseguenze, era ineluttabile e la vita trascorreva, scivolando impalpabile sotto gli argini:  egli lo sapeva bene. Nove lunghissimi anni erano trascorsi del nuovo secolo: che cosa era cambiato? Decise di non toccare l’impianto dell’opera, le premise soltanto l’epigrafe:

 

Ai miei figli, giovani oggi vecchi domani

 

Non era per lui una mera didascalia, ma la constatazione della condizione umana, che aveva fatto dire al suo filosofo prediletto:

 

Così la vita umana non è che un’illusione perpetua: non si fa che ingannarsi a vicenda e adularsi a vicenda (Blaise Pascal, Pensieri).

 

(Ubaldo Riccobono, Tutti i diritti riservati)