LA FEDELTA’ DEL CANE
L’INCREDIBILE STORIA
DI UN TERRIER EDIMBURGHESE
Più che un fatto reale, la storia del cane edimburghese Bobby, morto nel gennaio del 1872, dopo aver vegliato sulla tomba del padrone ben 14 anni, ha quasi assunto un significato tra fiabesco e mitologico. La vicenda ha fatto a più riprese il giro del mondo ed ha ispirato scrittori e cineasti, che hanno immortalato le vicende del terrier.
Ancora piccolo, il cane era stato affidato ad una guardia notturna di Edimburgo, un certo John Gray, arrivato in città dalla campagna, con la moglie e un figlio, per fare il giardiniere.
Non avendo trovato il lavoro sperato, John Gray s’era dovuto accontentare di un più faticoso mestiere, nel servizio quotidiano di ronda notturna nel centro della Old Edinburg; che comportava, oltre i rischi, il freddo e il gelo della brutta stagione. Così, per mitigare la solitudine e la stressante routine lungo le vie acciottolate della capitale scozzese, l’uomo aveva deciso di eleggere come compagno d’avventura un simpatico cagnolino, che tutte le notti gli rendeva accettabili le gravose incombenze.
Padrone e cane era diventati, così, inseparabili amici. Ma se il cane si era assuefatto presto alla vita difficile, il fisico del padrone, minato dalla tubercolosi, non aveva retto.
La morte era venuta ad interrompere quindi quell’amicizia, durata appena due anni, ma il cane aveva rifiutato subito quell’interruzione del rapporto e, dopo aver seguito il feretro del suo padrone, durante il trasporto al Greyfrears Kirkyard della Old Town ( città vecchia) di Edimburgo, s’era accucciato sulla zolla dove era stato sepolto il padrone. Scacciatone a forza, tutte le sere egli riusciva però ad introdursi nel cimitero, dormendo tutta la notte, vicino al suo padrone. Di giorno gironzolava nei paraggi, accudito dalle famiglie del posto, impietosite dalla storia e dal suo esempio di fedeltà. Il cane sembrava ridersene dell’inclemenza del tempo, ma accettava d’essere rifocillato nel ristorante, posto a due passi dal cancello del cimitero, dove si recava di buon grado per non allontanarsi mai dalle zone limitrofe alla tomba del padrone.
Anzi, si racconta che una grande folla a mezzogiorno si raccogliesse nella piazza antistante al cimitero, per aspettare lo sparo di una pistola che dava al cane il segnale per andare a pranzo nel vicino ristorante. Il terrier, imperterrito, assai spesso se ne andava a scacciare un pisolino, accucciandosi di fronte al cancello del Greyfrears Kirkyard, alla confluenza di Candlemakers Row e King George IV Bridge.
Ad Edimburgo ben presto cominciarono a circolare strane storie di cani-fantasma, forse messe in giro ad arte, e la municipalità prese la decisione di liberarsi di Bobby. Ma il Lord Prevost, Sir William Chambers (direttore della Società di Prevenzione della crudeltà sugli animali), pagò un forte riscatto per ottenere un nullaosta a favore del cane, il quale potè liberamente accedere al cimitero e, alla fine dei suoi giorni nel 1872 (il padrone era morto nel 1858), potè essere sepolto nelle immediate vicinanze della tomba del padrone. Entrambe le tombe furono poi realizzate con marmi di granito di uguale colore.
Commossa da tanta devozione, durata ben 14 anni, la Città d’Edimburgo, su richiesta di Angelia Georgina baronessa Burdett-Coutts, Presidente del Comitato delle Donne RSPCA, gli eresse alla memoria una fontana di granito con una statua sulla cima.
Sulla lapide di Bobby è stata scritta la frase di S.A. Reale, Duca di Gloucester – il 13 maggio 1981 –
“La fedeltà e la devozione siano una lezione per tutti noi”.
Tuttora, quotidianamente, sulla tomba di Bobby si trovano fiori freschi portati da amici degli animali. Nel 1960, Walt Disney dedicò a Bobby un film, mentre nel 2006, tra gli eventi della Festa del Cinema di Roma, figurò anche una serata di beneficenza a favore del miglior amico dell’uomo, con la proiezione, al cinema Metropolitan, in anteprima nazionale, del film The Adventures of Greyfriars Bobby di John Henderson.
IL CANE NEI MITI GRECI
La fedeltà del cane edimburghese Bobby trova un precedente “nobile” nel mito greco di Maira, la cagnetta di Icario, eroe ateniese che aveva avuto da Dioniso il dono della vite. Egli aveva diffuso la coltura, ma i pastori, ubriacatisi, avevano creduto il vino un veleno e avevano perciò ucciso Icario, seppellendolo sotto un albero. La figlia Erigone , guidata dalla fedele cagnetta, aveva ritrovato il cadavere del padre e alla inaspettata scoperta s’era impiccata. Maira, invece, era rimasta sulla tomba del padrone, senza staccarsene fino alla morte. Icario, Erigone e Maira furono cambiati in costellazioni da Dioniso: Icario nella stella di Arturo (o Boote), Erigone nella Vergine, la cagnetta Maira nel Cane.
Ma il mito greco più famoso, relativamente alla fedeltà, resta quello del cane di Ulisse, Argo:
”Un cane, là sdraiato, rizzò muso e orecchie, Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno lo nutrì di sua mano, prima che per Ilio sacra partisse; e in passato lo conducevano i giovani a caccia di capre selvatiche, di cervi e lepri; ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone, sul molto letame di muli e buoi (…) là giaceva il cane Argo, pieno di zecche. Avvertendo la vicinanza di Ulisse, mosse la coda, abbassò entrambe le orecchie, ma non riuscì a correre incontro al padrone. Questi, voltandosi, si terse una lacrima, facilmente sfuggendo a Eumeo: e subito con parole chiedeva: Eumeo, che meraviglia quel cane là sul letame! Bello di corpo, ma non posso capire se fu anche rapido a correre con questa bellezza, oppure se fu soltanto come i cani da mensa dei principi, che per lo splendore i loro padroni li allevano. E tu rispondendogli, Eumeo porcaio, dicevi: Purtroppo è il cane di un uomo morto lontano. Se per bellezza e vigore fosse rimasto come partendo per Troia Odisseo l’aveva lasciato, t’incanteresti a vederne la bellezza e la forza. Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folta boscaglia, qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta. Ora è malconcio, sfinito: il suo padrone è morto lontano dalla patria e le ancelle, infingarde, non se ne curano (…)” (Odissea 17.291-327).
Il cane, quale amico privilegiato dell’uomo, rientra nei culti e nei miti di tutti i popoli. Anche in Sicilia vi era il culto indigeno del dio Adrano, probabilmente personificazione del vulcano Etna, il cui tempio era difeso da mille cani, specie di molossi che accoglievano benevolmente i visitatori del tempio, ma li sbranavano se essi erano ladri o si macchiavano di azioni nefande.
Quella di vivere in simbiosi con i cani o alla maniera dei cani fu, nell’antica Grecia, una vera filosofia che sfociò nella scuola cinica, i cui maggiori rappresentanti furono Antistene (prima metà del IV secolo a.c.), Diogene di Sinope (seconda metà del IV secolo) e Menippo di Gadara (III secolo a.c.). I cinici vivevano allo stato di natura, abbandonando i beni e gli usi della vita civile (Diogene ad esempio viveva in una botte e conduceva una vita randagia alla stregua dei cani) e rifiutando le leggi delle comunità politiche. Si ridussero a vivere come cani, anche se il nome di cinici fu dato dal Cinosarge (“cane agile”), il luogo del Ginnasio d’Atene dove si riunivano. Caratteristiche di questa filosofia fu prevalentemente l’etica austera, fondata sull’indifferenza ai bisogni e sul rigore morale, nonché sull’autarchia e sulla pratica di vita virtuosa, con la compressione dei bisogni, limitati a quelli elementari.
LA NOVELLA DI PIRANDELLO
Luigi Pirandello pubblicò per la prima volta la novella La fedeltà del cane il 16 dicembre 1904 sulla rivista Il Marzocco. Il racconto uscì poi nella raccolta La vita Nuda, edizione Treves, Milano, 1911. La raccolta, con lo stesso titolo, uscì in seguito nel 1922 per i tipi Bemporad.
Il cagnolino Liri, protagonista della novella, appartiene ad una nobildonna, Donna Livia, sposata con il Marchese Giulio del Carpine. La fedeltà del cane, adombrata dallo scrittore, è vista come argomento umoristico, assurdo, come controcanto all’infedeltà della donna, creduta dal marito senza macchia e incapace di tradimenti, ma che invece beffa il coniuge e l’amante.
Don Giulio del Carpine apprende dalla sua amante, Donna Giannetta, che il marito Lulù Sacchi, s’incontra con Donna Livia in un quartierino di Roma. Al marchese, che discetta con la sua amante sulla gelosia, intesa da lui come poca stima in sé stessi, non può far pace che un uomo che considera inferiore a lui, un uomo ritenuto scadente anche agli occhi della sua amante, possa avere stuzzicato l’interesse della moglie, molto tranquilla e poco passionale. Si reca perciò sul luogo dove avvengono gli appuntamenti.
Qui giunto, pensa di appostarsi in un portone ed ha la sorpresa di trovare l’amante della moglie, Lulù Sacchi, pure lui appostato, che accarezza Liri, il cagnolino che Donna Livia è costretta a lasciare in strada, sotto il portone, quando si reca agli incontri amorosi. Il cagnolino fa festa ad entrambi “i padroni”.
Era uno spettacolo commoventissimo la fedeltà di questo cane d’una donna infedele, verso quei due uomini ingannati. L’uno e l’altro, ora, per sottrarsi al penosissimo imbarazzo in cui si trovavano così di fronte, si compiacevano molto della festa frenetica ch’esso faceva loro.
Ma il cane, improvvisamente, si sottrae alle attenzioni dei due e va in strada, restando confuso nel trovare il secondo amante, un uomo giovane e aitante, che esce dal portone.
Colto da un raptus di rabbia, il marchese allunga un calcio alla bestiola ritornata nel portone a fargli festa, per il corrivo di quella fedeltà “scandalosa”, ma con il compiacimento
“che, per Lulù almeno, era come aveva detto lui: che veramente, cioè, sua moglie non aveva potuto prenderlo sul serio, e lo aveva ingannato, ecco qua; e non solo, ma anche schernito! anche schernito!”
E’ la consolazione misera ed umoristica dell’uomo ingannato, che tradisce spudoratamente la moglie e pretende che lei non lo tradisca, ma si trova nudo di fronte al suo doppio tradimento. Emerge in questa situazione umoristica il sentimento del contrario di Pirandello fedeltà-infedeltà, che è trattato anche con finissima psicologia nel lumeggiare i caratteri e le logiche maschili e femminili.
LA CARRIOLA
Nella novella La carriola Pirandello mette ancora al centro della storia il rapporto tra cane e padrone. La carriola è un gioco fanciullesco tra due bambini, mediante il quale uno prende per i piedi l’altro, e il secondo è costretto a camminare sulle mani, appunto come se il primo stesse trasportando una carriola.
…Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridoio, se qualcuno non sopravvenga, chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo; gli occhi mi sfavillano di gioia, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro…
E’ un gioco d’infanzia, che Pirandello avrà fatto tante volte, con i cugini o i fratelli, un gioco divertente. Ma fatto da adulti, e per di più con un cane, non è divertente affatto; anzi, appare un’assurdità, una pazzia, un fatto ludico grottesco. E così l’uomo rispettabilissimo che lo compie nel racconto, un professore e avvocato affermato, lo vede come una pazzia che lo sottrae a quella forma cui l’ha imbalsamato l’opinione di tutti, ma alla quale non si può sottrarre, se non con un atto estremo, assurdo, incomprensibile, che va tenuto segreto, ma che lo sottrae ad una logica sociale e a parametri, nei quali non si è mai ritrovato. Affiorano le classiche tematiche pirandelliane del relativismo della vita, della pena di vivere così, senza potersi sottrarre alla forma della propria esistenza che ci costringe il flusso della vita. Per cui l’unica soluzione per uscire dalle secche della logica della vita appare la pazzia di un atto grottesco.
LA VENDETTA DEL CANE
Anche ne La vendetta del Cane, Pirandello riafferma fondamentalmente la fedeltà e la riconoscenza dell’animale nei confronti dell’uomo che se ne prende cura. Il cane rimane sempre amico dell’uomo, ma viene “utilizzato” per perpetrare la vendetta di Jaco Naca, un possidente, che vende per una manciata di pasta una poggiata a solatio sotto la città, ritenuta di nessun pregio, ma che, sfruttata dall’acquirente, diventa produttiva con la costruzione di due splendidi e costosi villini. Jaco Naca cita in giudizio, senza esito, l’acquirente; e allora pensa di vendicarsi, portando un suo cane su una sua proprietà vicina ai due villini, lasciando l’animale lì, giorno e notte, morto di fame, di sete e di freddo. Ovvio che il cane diventa, soprattutto di notte, un indiavolato, dandosi a guaire e a uggiolare molto fortemente e con molta intensità e disturbando tutti gli abitanti della zona. Una sera, il proprietario di uno dei villini, esasperato, spara. E allora tutti coloro, i quali prima sbraitavano contro il cane e il suo padrone, parteggiano per il cane, che in fondo non aveva alcuna colpa, ma che era tenuto a stecchetto dal padrone. Questi, a sua volta, si fa vedere armato di fucile, pronto a sparare su chi aveva osato prendere di mira il cane.
Qualche giorno dopo, una bambina, impietosita, scende a dar da mangiare al cane, che le fa molta festa, suscitando però il livore dello sparatore, il quale nella notte dà da mangiare al cane polpette avvelenate. Constatata la morte del suo cane, Jaco Naca tende un agguato al possibile responsabile e finisce per sparare mortalmente alla bambina, recatasi a sfamare l’animale e ignara della sua morte.
Una vicenda truce con contrasti di situazioni, che s’incrociano, anche all’interno della psiche: amicizia e inimicizia, rancori e pietà, comprensioni e agghiaccianti ritorsioni. Ognuno, nel flusso della vita, sostiene la propria parte e le proprie ragioni istintivamente, “irragionevolmente”, fino alle estreme conseguenze, fino alla pazzia.
“Il nostro spirito consiste di frammenti, o meglio di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento” (Pirandello, Scienza e critica estetica)
AGRIGENTO E I CANI RANDAGI
Sembra essere migliorato il fenomeno del randagismo ad Agrigento, che fino a poco tempo fa aveva allarmato la popolazione, anche se i controlli degli enti preposti devo essere perseguiti con costanza, perché il fenomeno non è del tutto eliminato. L’Amministrazione comunale si sta ponendo l’obiettivo di lanciare una campagna di propaganda contro l’abbandono dei cani, che è la causa scatenante del randagismo. Dovrebbe essere l’Associazione animalista “Aronne” a farsi parte diligente di questo progetto, tramite un sito e una pubblicità adeguata in tutto il territorio comunale. L’Associazione ha chiesto già al Comune un locale adeguato per poter avere una base logistica e operativa. Proprio ieri sera ha preso le mosse tale progetto con una serata dedicata all’amicizia nei confronti del cane, alla quale ha partecipato il noto comico Sasà Salvaggio.
L’Assessore Comunale alle politiche ambientali, alla Sanità, e all’arredo pubblico, Rosalda Passarello ritiene che abbattere con strumenti civili e dignitosi il fenomeno del randagismo sia un primo gradino per la vivibilità di una città che dovrà pure avvalersi di spazi e di verde adeguati.
Altro progetto varato dall’Amministrazione è la realizzazione di un
concorso finalizzato alla promozione volontaria del verde in città, denominato "La città in fiore".
Si tratta di un concorso, aperto a tutti (privati cittadini, aziende, società, esercizi commerciali, enti, associazioni, etc.) e prevede l’abbellimento (mediante piante, fiori, addobbi, etc.) di spazi privati (balconi, davanzali, vetrine, esercizi commerciali prospettanti su spazi privati, etc.) o pubblici (esercizi commerciali prospettanti su marciapiedi e strade pubbliche, portoni, etc.) a totale cura e spese degli stessi partecipanti al concorso.
– La partecipazione al concorso per l’abbellimento di spazi pubblici (marciapiedi o strade pubbliche) è soggetta a limitazioni:
a) potranno essere collocati un numero massimo di due elementi fissi (fioriere o simili) per
ogni numero civico da abbellire (portone, vetrina commerciale, etc.), di forma e
dimensioni adeguate e proporzionate allo spazio disponibile;
b) il materiale di dette fioriere, dovrà essere costituito esclusivamente da cotto naturale,
legno, ghisa, acciaio trattato ad effetto ghisa, brunito, o naturale, in relazione al
contesto architettonico preesistente, col divieto tassativo di utilizzo di altri materiali
(conglomerati cementizi, materiali plastici o ad imitazione dei predetti materiali prescritti,
etc.);
e) l’eventuale occupazione di marciapiedi, non dovrà costituire ostacolo alla libera
circolazione dei pedoni e dei portatori di handicap, tranne che il marciapiede non sia
attiguo a sede stradale con destinazione esclusiva o prevalente di isola pedonale;
d) l’eventuale occupazione della sede stradale, potrà essere consentita esclusivamente in
quei tratti della carreggiata nei quali è vietata la sosta dei veicoli, ed in ogni caso, dovrà
essere garantito che per tutta la sede stradale libera, antistante alla predetta
collocazione, sia garantita la libera circolazione dei veicoli in tutti i sensi di marcia
consentita;
e) l’Amministrazione comunale potrà ordinare il ripristino dello stato originario, nei casi di
inosservanza delle prescrizioni.
Al termine del concorso, tutti gli elementi collocati dai partecipanti saranno liberamente
donati alla Amministrazione comunale, che potrà decidere di rimuoverli o di mantenerli in
situ, apponendo sugli stessi il logo del Comune (se valutati qualitativamente adatti al
contesto ambientale e se non in contrasto con le prescrizioni).
Rimane a totale cura e spese dei partecipanti al concorso, la manutenzione e la costante
piantumazione delle fioriere rimaste in situ, nonché la sostituzione con altre uguali, in caso
di danneggiamento, dandone preavviso al Comune.
A compenso della attività di manutenzione e coltivazione, non sarà richiesto e dovuto il pagamento dei tributi relativi alla occupazione del suolo comunale.
Un programma dignitoso che l’Assessore Rosalda Passarello vuol arricchire con il censimento e catalogazione di tutti gli alberi e le piante della città dei Templi, allo scopo di migliorare la loro conoscenza e fruizione, nonché una più immediata manutenzione.
Da ciò potrebbe scaturire un Orto Botanico Allargato, essendo numerosi i giardini pubblici e molto vasto il territorio comunale dedicato a verde.
(Ubaldo Riccobono, tutti i diritti riservati)