AttraversaMenti il giorno del tuo compleanno

“A ciascuno il suo”…..mestiere! direi, citando te che citi a tua volta.

Penso che a ognuno spetti fare ciò che sa fare e ciò che vuol essere, spinto dall’amore e dalla passione che lo motivano a un fare competente.

Pertanto, mossa solamente dall’amore, riapro oggi il blog di mio padre nel dì successivo al suo compleanno, 29 ottobre, per ringraziarlo del dono più grande di cui una figlia fortunata come me ha potuto godere e gode ancora, a quasi due anni dalla sua scomparsa.

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Bambina,

salutavo felice il mondo

durante i nostri viaggi.

Con quelli mi hai insegnato ad amare la vita.

Curiosa,

mi offrivi un modello di stupore

che ora accende la mia anima e mi dona la tua presenza.

Adulta,

rimanevo bimba e figlia,

nel tentativo di essere forte per te

sempre eri tu a darmi forza

a indicarmi la strada e tenermi testa

ad essere mio padre fino alla fine,

a darmi l’esempio.

Mi manchi tanto, padre,

mio maestro di vita

mio punto di partenza e d’approdo,

tutto comincia con te e tutto da te fa ritorno

niente ha lo stesso significato se in te non lo cerca

e tutto in te si rispecchia.

Consolida la mia ferita

con la tua pianta medicinale,

tieniti saldo vicino a me indicandomi la strada nei momenti di smarrimento.

Stella,

illumina il mio cammino e indirizzami nel buio della notte

come sempre hai fatto,

grande pilastro.

Infondimi il coraggio mostratomi fino alla fine dei tuoi giorni di vita terrena

tieni la mia mano ed io continuerò a tenere la tua

ad appoggiarmi a te come, al calar della sera, ero solita fare

quando già chiaro mi era il dover averti accanto per troppo poco tempo ancora.

Fiore,

profuma le mie giornate

donami la propriocezione quando immagino di abbracciarti

Concedimi di guardarti sempre, così,

fisso nei tuoi occhi verdi come il mare,

che illuminano il tuo viso sereno e sorridente di tenera saggezza.

Instancabile narratore,

raccontami ancora le tue storie,

donami il potere ammaliante di inventarne di nuove per me

e di credere che possano avverarsi nella mia vita,

con i personaggi preferiti

ed i finali da me voluti.

Scrivi per me la storia d’amore che mi promettevi,

continua le pagine, rendila storia reale dei miei futuri anni,

gioca con la mia vita, in tal modo sono certa sarà al sicuro,

aiutami a realizzare il mio sogno d’amore,

mio primo amore.

Silvia Riccobono

“FRANCESCO CRISPI UN PROTAGONISTA DELL'UNITA' D'ITALIA"

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“FRANCESCO CRISPI UN PROTAGONISTA
DELL’UNITA’ D’ITALIA”

 

Libro su Crispi di Gaetano Allotta


LIBRO DI GAETANO ALLOTTA
 

“Rivoluzionario per fare l’Italia
Conservatore per mantenerla”

                                                                                
 

                                                                                                                                                                                                              Allotta Gaetano
 

"Francesco Crispi, protagonista dell'Unità d'Italia", è il libro che Gaetano Allotta ha
presentato a Milano, nella sala conferenze dell'Acquario Civico, il 9 maggio scorso, e pochi giorni prima era stato oggetto di due conferenze al Polo Universitario di Agrigento e a Ribera, dove Crispi era nato, presso la casa natale dello statista. Nel tracciare la biografia di Crispi, lo storico Gaetano Allotta non si perita a parlare di luci e di ombre sul conto dello statista, informandosi però a fatti e a documenti, taluni dei quali hanno di recente rivalutato la figura storica dello statista. Allotta tutto ciò l’affronta da studioso di storia, supportato anche dall’ottima prefazione della Prof.ssa Gabriella Portalone, docente di Storia Contemporanea dell’Università degli Studi di Palermo.
Allotta in primis così fotografa sinteticamente la vita di Crispi:
 

SINTESI AUTOBIOGRAFICA: Francesco Crispi nasce a Ribera il 4 ottobre 1818, da una famiglia di etnia albanese, come risulta da documenti risalenti alla prima metà del Casa natale di Francesco Crispi1400: viene battezzato infatti da un sacerdote cattolico di rito greco. Si laurea in giurisprudenza e pratica l’avvocatura. Prepara l’impresa dei Mille e viene eletto deputato nel 1861, Ministro dell’interno nel 1877-78; Presidente del Consiglio tra il 1887 ed il 1891 e tra il 1893 ed il 1896, Presidente della Camera dei Deputati nel 1876. Persegue una forte politica estera, di penetrazione coloniale in Africa ed è ispiratore di moderne leggi di riforma, tra l’altro, con l’abolizione della pena di morte e col riconoscimento del diritto allo sciopero. Nel periodo preunitario, a causa delle lotte antiborboniche, è esiliato prima a Malta e poi a Londra, tornando però in Italia per Ribera (Ag) Busto di Francesco Crispi proseguire le sue battaglie. Viene considerato un grande siciliano ed un grande italiano e, dopo i fatti di Adua, si ritira a Napoli, dove esercita ancora l’avvocatura e muore nel 1901. La salma viene trasportata a Palermo con una nave militare e gli vengono tributati solenni funerali, addirittura sontuosi, tra ali di folla commossa. Un’attenta rilettura delle sue vicende storiche gli riconosce coraggio politico, realizzazioni legislative di grande valore ed una dipartita senza clamori e in assoluta povertà.
Nella prefazione all’opera di Allotta, la prof.ssa Gabriella Portalone definisce Crispi “una delle tante vittime della storiografia”, aggiungendo:

“Crispi può essere considerato come uno dei padri della Nazione Italiana insieme a Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele. Senza di lui, senza il suo altissimo senso pratico e organizzativo, senza il suo intuito politico e la sua preparazione giuridica, il meridione, probabilmente, non sarebbe mai stato conquistato o, quantomeno, non sarebbe stato conquistato con tale rapidità. A nulla sarebbe valsa la maestria diplomatica di Cavour, i desideri di espansione dinastica di Vittorio Emanuele, gli scritti e gli incitamenti alla rivolta popolare di Mazzini, se Crispi non fosse riuscito a convincere Garibaldi a partire da Quarto alla volta della Sicilia e se poi non avesse provveduto all’organizzazione logistica dell’avanzata dei Mille nell’Isola.”

Francesco Crispi

 

Gaetano Allotta fa poi una disamina iniziale di Crispi patriota e repubblicano, a cominciare dall’insurrezione antiborbonica in Sicilia nel gennaio 1848. Il 25 marzo Crispi sedeva alla Camera dei Comuni siciliani, a seguito dell’elezione nella nativa Ribera, mentre lo zio Giuseppe, Vescovo, sedeva alla camera alta come Pari ecclesiastico. Il 27 marzo fu tra coloro che proclamarono Ruggero Settimo dittatore della Sicilia. Tuttavia egli non si dimostrò entusiasta della mossa politica di tagliare definitivamente i ponti con i Borbone, temendo che la rottura avrebbe comportato il rischio di mantenere la Sicilia sotto il giogo dei baroni locali che tanto avevano fatto per limitarne la crescita economica e sociale. Fu in ciò tacciato di antisicilianismo. Dopo il fallimento della rivoluzione, pur non entrando nella lista dei condannati a morte, preferì espatriare. Nel maggio del ’49 riparò a Marsiglia, vagò per Nizza, poi passò a Torino. Qui conobbe la sua compagna Rosalia Montmasson, cercò invano di ottenere un impiego come segretario comunale di Verolengo e si ridusse a sbarcare il lunario facendo il giornalista. Durante il soggiorno a Torino ebbe anche rapporti epistolari con Cattaneo, alla cui teoria federalista si era gradatamente avvicinato negli anni precedenti. Già nel 1850, con dieci anni d’anticipo, Crispi, scrivendo a Mazzini, aveva prospettato l’idea di uno sbarco in Sicilia, nel litorale compreso tra Marsala e Palermo. Coinvolto nella cospirazione mazziniana di Milano del 6 febbraio 1853, fu espulso dal Piemonte e costretto a rifugiarsi a Malta con altri esuli, dove venne raggiunto da Rosalia Montmasson, che gli sarà sposa, collaboratrice, comprensiva e fedele.
 

Da Malta entrò in contatto con il patriota ungherese Kossuth e consultò frequentemente Mazzini. Per farsi sentire più energicamente fondò il giornale “La Valigia”. Le lettere-proclama di Crispi furono assidue e vennero pubblicate anche su “La Staffetta”.
 
“Noi odiamo ogni tirannide, ogni intolleranza, ogni privilegio, ogni monopolio… noi vogliamo l’autonomia di ogni popolo – la libertà in tutto, senza altro limite che il diritto del prossimo alla stessa libertà dei popoli, come tra gli uomini non altri vincoli che quelli nascenti dalla fratellanza, l’inviolabilità delle persone, come della proprietà, del lavoro come dei prodotti, il diritto insomma ad una esistenza indipendente e al suo miglioramento morale ed economico, non meno in ogni nazione, che in ogni uomo. In conseguenza noi siamo nemici delle conquiste e dei colpi di stato, e saremo sempre a propugnare che ogni nazione come ogni uomo riabbiano i diritti che la sorpresa o la violenza han loro strappato”
 
Ma per tale vivacità Crispi venne espulso da Malta e raggiunse Londra nel gennaio 1855, accolto fraternamente da Giuseppe Mazzini, continuando a cospirare per il riscatto dell'Italia. Il 15 giugno 1859 rientrò in Italia dopo aver pubblicato una lettera in cui si opponeva all'ingrandimento del Piemonte, autoproclamandosi fautore di uno stato italiano unito e repubblicano. Per due volte quell'anno percorse, in incognito, varie città siciliane, preparando l'insurrezione del 1860. Tornato a Genova, organizzò insieme a Bertani, Medici e Garibaldi la spedizione dei Mille e, aggirando con uno stratagemma le esitazioni di Garibaldi, fece in modo che la spedizione prendesse il via il 5 maggio del 1860. Dopo gli sbarchi a Marsala il giorno 11 e a Salemi il 13, Garibaldi fu proclamato dittatore della Sicilia con le parole d'ordine «Italia e Vittorio Emanuele».
Dopo la caduta di Palermo, Crispi fu nominato Ministro dell'Interno e delle Finanze del governo siciliano provvisorio, ma fu presto costretto a dimettersi a seguito dei contrasti fra Garibaldi e gli emissari di Cavour sulla questione dell'immediata annessione all'Italia. Nominato segretario di Garibaldi, Crispi ottenne le dimissioni di Depretis, che Garibaldi aveva nominato dittatore in sua vece, e avrebbe sicuramente continuato ad opporsi risolutamente al Cavour a Napoli, dove era stato nominato da Garibaldi Ministro degli Esteri, se l'arrivo delle truppe regolari italiane non avesse portato all'annessione del Regno delle due Sicilie all'Italia e poi al ritiro di Garibaldi a Caprera e alle dimissioni dello stesso Crispi.
Nel 1861 si candidò per l'estrema sinistra alla Camera dei Deputati nel Collegio di Palermo, ma venne battuto. Comunque grazie a un caro amico siciliano, il repubblicano Vincenzo Favara, aveva presentato la sua candidatura nel Collegio di Castelvetrano dove Crispi, pur essendo sconosciuto ai più, risultò vincitore grazie alla campagna propagandistica svolta dal suo "grande elettore", che organizzò anche una raccolta fondi per consentire al neo-deputato, all'epoca in gravi ristrettezze economiche, di recarsi a Torino per l'inaugurazione del Parlamento. Alla Camera, Crispi acquistò la fama di essere uno dei membri più combattivi e irruenti del partito repubblicano, denunciando la situazione siciliana ad un anno del plebiscito:
 
”Le condizioni dell’isola sono difficilissime per l’imprudenza e l’inopportunità nelle riforme amministrative, per l’inscienza delle cose locali, per l’esitazione nelle misure da adottarsi e finalmente per nessun rispetto delle leggi… Potete immaginare che tale essendo lo stato delle cose, e queste le conseguenze di un cattivo Governo durato dodici mesi, quelle popolazioni non possono avere fiducia né negli uomini che amministrano la Sicilia, né negli uomini che governano l’Italia”
 
Nel 1864, tuttavia, si convertì alla fede monarchica, pronunciando la famosa frase, in seguito ripetuta nella sua corrispondenza con Mazzini: «La monarchia ci unisce, la repubblica ci divide». Fu un atto di pragmatismo. Alle elezioni del 1865 Crispi presentò un programma molto articolato, che non esiteremmo a definire attuale:
 
·       Ridurre di un terzo la burocrazia
·       Emancipare il pubblico ministero dal potere esecutivo
·       Rendere la polizia ai municipi
·       Introdurre la proporzionale sul reddito
·       Dare l’autonomia alle Università
·       Rendere accessibile il credito alle piccole proprietà e alle piccole industrie
·       Completare le strade nazionali e raddoppiare le linee dei piroscafi
·       Riordinare il potere centrale e sottrarre la burocrazia all’influenza politica
·       Separare nettamente il potere legislativo da quello esecutivo
·       Rendere elettivo il Senato;
·       Rendere eleggibili alla Camera tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto 25 anni e, al Senato, quelli che ne abbiano compiuto 30;
·       Retribuire il mandato parlamentere affinchè l’aula sia accessibile a tutte le intelligenze;
·       Ammettere al voto tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto 21 anni e sappiano leggere e scrivere
 

Libro su Crispi di Gaetano AllottaQuesto fu il programma che Crispi presentò alle elezioni dell’ottobre 1865 ed è facile constatare come ci siano delle affermazioni di vasto respiro moderno e democratico e che soltanto diverse decine di anni dopo entrarono nella legislazione nazionale. Ma queste tesi sono senz’altro il frutto di una intelligente visione dei tempi, proiettati al futuro.
Tra le ombre, qualche pessima speculazione edilizia, per un uomo che era più abituato alle carte della professione forense, che esercitò con grande prestigio e con successo, a Torino, a Firenze ed a Napoli.
Anche le vicende familiari gli procurarono problemi, col matrimonio con la Montmasson, col famoso successivo annullamento e l’altro matrimonio con Filomena (Lina) Barbagallo, una donna giovane e bella e che aveva 26 anni meno dello statista. Accusato di bigamia, Crispi potè provare che il precedente matrimonio era invalido e fu assolto.
Nel 1866 declinò la proposta di entrare nel governo Ricasoli e nel 1867 si adoperò per impedire l'invasione degli Stati Pontifici ad opera dei Garibaldini, prevedendo la conseguente reazione francese che portò al disastro di Mentana.
Allo scoppio della guerra franco-prussiana del 1870 si adoperò energicamente per impedire la progettata alleanza dell'Italia con la Francia e per trasferire a Roma il governo Lanza. La morte di Rattazzi nel 1873 indusse i sostenitori di Crispi ad avanzare la sua candidatura per la guida della Sinistra, ma egli sostenne invece l'elezione di Agostino Depretis.
All'avvento al potere della Sinistra nel 1876 fu eletto Presidente della Camera. Nell'autunno del 1877 fu in viaggio a Londra, Parigi e Berlino, avendo così occasione di stabilire cordiali relazioni con Gladstone, Granville e altri statisti inglesi, nonché con il cancelliere Bismarck.
Nel dicembre 1877 prese il posto di Giovanni Nicotera al Ministero degli Interni del governo Depretis. Il 9 gennaio 1878 la morte di Vittorio Emanuele II e l'ascesa al trono di Umberto diedero modo a Crispi di garantire il formale insediamento di una monarchia unitaria attraverso l'assunzione da parte del nuovo re del nome di Umberto I re d'Italia, anziché di quello di Umberto IV di Savoia. Le spoglie di Vittorio Emanuele furono sepolte nel Pantheon di Roma invece che essere trasferite al mausoleo dei Savoia a Superga. Il 9 febbraio 1879 la morte di Pio IX fu seguita dal primo conclave tenuto dopo l'unificazione dell'Italia.
Crispi, con l'aiuto del cardinale Pecci, che in seguito divenne papa Leone XIII, persuase il Sacro Collegio a tenere il conclave a Roma e prorogò la durata della legislatura nel timore che la solennità dell'evento potesse altrimenti esserne disturbata. Le qualità di grande statista dimostrate in questa occasione non furono sufficienti ad evitare l'ondata di indignazione scatenata dagli oppositori di Crispi a seguito dell'accusa di bigamia, mossagli senza che a sostegno di essa vi fosse un qualsiasi fondamento legale. Crispi fu costretto a dimettersi, nonostante il fatto che il suo precedente matrimonio, contratto a Malta nel 1883 fosse stato dichiarato nullo, e che egli regolarizzasse in seguito la sua nuova unione con la signora Barbagallo.
Per nove anni la carriera politica di Crispi subì una battuta d'arresto, ma nel 1887 ritornò in carica come Ministro degli Interni nel governo Depretis, succedendogli come primo ministro lo stesso anno.
Una delle sue prime iniziative fu quella di stringere rapporti con Bismarck, rinsaldando il funzionamento della Triplice Alleanza, integrandolo con il trattato navale con la Gran Bretagna. Con ciò Crispi assunse il proverbiale atteggiamento risoluto nei confronti della Francia.
In politica interna Crispi fece adottare i codici sanitario e commerciale e riformò l'amministrazione della giustizia. Abbandonato dai propri alleati del Partito Radicale, Crispi governò con l'appoggio della Destra fino a quando, il 31 gennaio 1891 un'incauta allusione ad un preteso atteggiamento servile del partito conservatore nei confronti delle potenze straniere portò alla caduta del suo governo.
Nel dicembre 1893 l'incapacità del governo Giolitti di ristabilire l'ordine pubblico in Sicilia (i Fasci siciliani) e in Lunigiana, ebbe come conseguenza la richiesta da parte dell'opinione pubblica del ritorno al potere di Crispi. Dopo aver riassunto l'incarico di Primo Ministro represse con forza le insurrezioni, e appoggiò con decisione le energiche misure correttive adottate dal Ministro delle Finanze Sonnino, per salvare le finanze dello stato italiano, duramente scosse dalla crisi del sistema bancario degli anni 1892-1893.
La risolutezza di Crispi nella repressione dei moti popolari, ed il suo rifiuto sia di uscire dalla Triplice Alleanza che di sconfessare il proprio ministro Sonnino, causarono una rottura con il leader radicale Cavallotti, il quale lo attaccò con una spietata campagna diffamatoria. Un fallito attentato subito ad opera di un anarchico portò ad una momentanea tregua, ma gli attacchi di Cavallotti presto ripresero più aspri che mai. Ciononostante nelle elezioni generali del 1895 Crispi ottenne una vastissima maggioranza, ma un anno dopo, la sconfitta dell'esercito italiano ad Adua durante la prima guerra Italo-Abissina, provocò le sue dimissioni.
Il successivo governo Rudinì dette credito alle accuse di Cavallotti, e, alla fine del 1897 la magistratura chiese alla Camera l'autorizzazione a procedere contro Crispi con l'accusa di appropriazione indebita. Una commissione parlamentare incaricata di indagare sulle accuse mossegli, stabilì soltanto che Crispi, nell'assumere l'incarico di Primo Ministro nel 1893 aveva trovato il fondo di dotazione dei servizi segreti privo di disponibilità, e quindi aveva preso a prestito da una banca di stato la somma di 12.000 lire, da restituirsi con rate mensili garantite dal Tesoro.
La commissione, considerando questa procedura irregolare, propose alla Camera, che accettò, un voto di censura, ma si rifiutò di autorizzare l'incriminazione. Crispi si dimise dalla carica di parlamentare, ma fu rieletto a furor di popolo nell'aprile del 1898 nel suo collegio di Palermo. Per alcuni anni partecipò solo marginalmente alla vita politica, soprattutto a causa dell'incipiente cecità. Un riuscito intervento chirurgico gli restituì la vista nel giugno del 1900, e, nonostante avesse ormai 81 anni, riprese in buona misura la precedente attività. Presto, tuttavia, la sua salute peggiorò irreversibilmente, fino alla morte, sopraggiunta a Napoli il 12 agosto 1901.

Carattere del politico Per il suo temperamento autoritario, per la sua lealtà al Re e per il suo patriottismo Crispi piaceva alla borghesia, ai conservatori e alle destre. Inoltre, per i discorsi fortemente sociali, che aveva pronunciato durante gli anni dell’opposizione e per essere stato estraneo ai governi che avevano amministrato il Paese dall’Unità in poi, ispirava fiducia e speranze nelle sinistre. Convinto di avere il consenso popolare, cercò di dare un ruolo all’esercito e di dare all’Italia una sua politica estera.
La legge di pubblica sicurezza, la riforma delle opere pie, le leggi sulle amministrazioni comunali, sulla sanità pubblica, l’istituzione di un tribunale amministrativo per tutelare il cittadino nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione, appartennero al suo periodo e furono apprezzati, soprattutto nella visione della creazione di uno stato di diritto, con la riforma del sistema carcerario, l’approvazione del nuovo codice penale, opera di Zanardelli e che aboliva la pena di morte, ed infine il riconoscimento del diritto di sciopero.

 Fasci Siciliani Tra le ombre del Governo Crispi viene spesso citato lo stato di assedio in Sicilia e Lunigiana. La crisi economica è certamente all’origine del movimento dei Fasci Siciliani: l’inversione del ciclo espansivo, che investe tutta l’Europa, il crollo dei prezzi del grano, dello zolfo e dei prodotti ortofrutticoli, provocano una radicalizzazione del conflitto sociale. Nel romanzo “I vecchi e i giovani”, Luigi Pirandello descrive lucidamente e con estrema efficacia la situazione che era venuta a determinarsi in Sicilia. Infatti, a proposito dell’oggettivo retroterra storico dei Fasci, egli sottolinea che “già da lunghi anni covava il fuoco in Sicilia”, che la “rapidissima formazione dei Fasci non era dovuta solo all’assidua e vigorosa propaganda dei giovani”, dato che “il terreno era da lungo tempo preparato”. “Il Governo, invece d’accorrer a gettare acqua, mandava soldati a suscitare altro fuoco col fuoco delle armi”, dopodiché “la folla, inselvaggita dagli eccidi, restava padrona del campo e assaltava furibonda i municipi e vi appiccava il fuoco”.
Infine Pirandello, dopo aver accennato all’errata politica doganale italiana, compie un’attenta diagnosi della natura semimistica dell’entusiasmo popolare per i Fasci e i loro capi (“migliaia di donne, migliaia di contadini, intere popolazioni dell’Isola in delirio, gettar fiori, prosternarsi con la faccia a terra, piangere e gridare come prima davanti l’immagine dei loro santi”). Nei cortei si portava in giro persino l’immagine di Pio IX.
In sostanza, già con i governi Giolitti e Rudinì i freni erano già stati stretti, anche perché il Questore di Palermo, Eugenio Balabio, descriveva il clima di tensione esistente nel circondario e chiedeva alle autorità una politica più dura nei confronti dei Fasci, pur riconoscendo che agli inizi il movimento ed il suo programma di miglioramento della classe operaia erano stati accolti con favore.
Giolitti è duro sul giudizio sui Fasci: “sotto questa denominazione so sono formate associazioni che non sono di mutuo soccorso, ma di persone che vogliono vivere senza lavorare e che servono da piedistallo per altre persone, le quali  si propongono in questo modo di salire in alto, avvalendosi di loro”.
A Crispi raccontarono che uno dei capi del movimento, l’On. Felice Giuffrida, si era incontrato segretamente in un paese della Sicilia con emissari francesi e russi per trattare la separazione dell’Isola dall’Italia. Gli avevano raccontato che una nave inglese si accingeva a sbarcare in un porto siciliano. Gli avevano detto pure che tutti gli anarchici di Europa si accingevano a raggiungere l’Isola per spingerla all’insurrezione. Tuttavia è stato accertato che il decreto che ordinava lo stato d’assedio era già stato predisposto dal precedente governo guidato da Giolitti e che poi Crispi firmò a causa del precipitare della situazione.

L’avventura coloniale:  Un’altra ombra storica che determinò il definitivo tramonto del periodo crispino fu l’avventura coloniale. All’indomani della disfatta di Dogali, Crispi fu convinto a convertirsi alla politica di spartizione del continente africano dallo stato maggiore dell’esercito, continuando l’avanzata in Etiopia; ma dopo una serie di insuccessi il nostro esercito fu travolto ad Adua.
Adua segnò la fine di Crispi, che forse sottovalutò la situazione che era venuta a determinarsi, ma poi decise di presentare le dimissioni, per evitare un dibattito parlamentare, che già si profilava negativo per lui, ma probabilmente rifiutò di comprendere che l’Italia non era abbastanza forte né abbastanza ricca, né abbastanza matura per una grande avventura coloniale, per la quale eravamo incoraggiati sotto banco da Francia e Inghilterra, che avevano già consolidato in tutta l’Africa consistenti imperi coloniali.
I nemici di Crispi si scatenarono, contestandogli non soltanto gli errori commessi sul piano militare, ma anche tutta una serie di fatti, che, veri o non veri, finirono con l’umiliarlo. I pettegolezzi entrarono anche nella vita privata, si raccontava che Lina lo tradisse, che il figlio avesse rubato i gioielli di una signora romana, di cui era  stato l’amante, si parlò tanto dei suoi debiti con le banche, Tuttavia, poche settimane dopo,  presentò la sua candidatura all’elezione suppletiva provocata dalle sue dimissioni e tornò alla Camera, con una maggioranza quasi plebiscitaria, per il collegio di Palermo: un voto polemico della Sicilia contro Roma e il continente. Si ritirò nella casa di Napoli, dove morì povero l’11 agosto 1901.
Il migliore giudizio su di lui è stato dato da Garibaldi:
 

garibaldi

”Crispi è il migliore dei miei amici, uomo d’onore, disinteressato, mi ha sempre aiutato meglio di ogni altro; con me nei pericoli, stando al potere non ha mai abusato”
 

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IGOR MITORAJ
IL GIGANTE DELLA SCULTURA
NELLA VALLE DEI TEMPLI

 Locandina Mostra Mitoraj Igor

Igor Mitoraj, grande scultore di opere giganti, non poteva non essere sedotto dal mito della Valle dei Templi di Agrigento, provando la stessa forte sensazione che fascinò il Premio Nobel, Salvatore Quasimodo, fino ad esprimersi con versi scultorei sul gigantesco Telamone disteso tra le rovine del tempio di Zeus dell’antica Akragas:

Agrigento, Telamone, Tempio di Giove

…Il telamone è qui, a due passi
dall’Ade (mormorio afoso, immobile),
disteso nel giardino di Zeus…

(Quasimodo, Tempio di Zeus ad Agrigento)

Mitoraj Igor, scultura

Lo scultore tedesco-polacco sembra aver captato questo messaggio, quasi per telepatia, se consapevolmente  afferma:
 

“Nella mia scultura cerco un'eco di antichità”

Igor Mitoraj, sculturaIgor Mitoraj, sculturaMITORAJ Igor, scultura

Questo istintivo richiamo riecheggia nelle parole rese durante un’intervista: “Per me è un'esperienza straordinaria, dire che sono commosso è dire poco. Io sono ovviamente abituato alle mie opere, ho esposto in tanti spazi all'aperto, da quelli storici ai contemporanei come la Défense a Parigi. Ma mi faceva molta paura l'idea di esporre qui, dove c'è l'incontro diretto con le radici della nostra civiltà, senza il filtro di secoli, come è stato, per esempio, a Firenze al Giardino di Boboli. Invece qui le mie opere prendono una forza diversa. Sono stato molto attento a non invadere lo spazio dei templi, ho lasciato sempre diversi metri fra sculture e monumenti, proprio per creare un dialogo di prospettive. Con una battuta, potrei rispondere che è un ritorno a casa.

Miitoraj Igor, scultura di seraMitoraj Igor, sculturaMITORAJ IGOR, scultura

Ritorno, quindi, nella terra di giganti, la greca Akragas che prese il nome dal mitologico dio fiumicello, figlio di Zeus, gigante che osò sfidare il padre degli dei, venendone trasformato nell’omonimo fiume che ancor oggi, limaccioso torrente, scorre attorno alla città. E tuttora nello stemma comunale viene rappresentato questo mito antico con tre cariatidi che sorreggono i castelli della città, a ricordare la caduta rovinosa del nove dicembre 1401 degli ultimi tre giganti che sostenevano parte del famoso tempio di Zeus Olimpio.

Mitoraj Igor, scultura di sera Mitoraj Igor, scultura

Igor Mitoraj, considerato lo scultore vivente più importante e significativo e le cui opere sono considerate capolavori di inestimabile valore, ha voluto per questa sua mostra monumentale di bronzi e travertino il titolo significativo “La valle degli dei”. Le opere sono state installate lungo il percorso che va dal tempio dei Dioscuri fino al tempio di Giunone. La mostra, che resterà aperta fino alla fine di novembre,  è la più importante della carriera dello scultore, la più lunga nel tempo, otto mesi, e nello spazio, diciotto opere disseminate per un chilometro e mezzo di parco.  Le sculture monumentali, che si ispirano in gran parte alla saga di Dedalo e Icaro, danno luogo ad un emozionante effetto scenografico, saldando lo spirito antico con  l’arte contemporanea.
Così l’area archeologica si popola con 18 istallazioni contemporanee capaci di offrire inaspettate sensazioni, quasi proiettando i visitatori nel passato più remoto. Mitoraj, che ha il “Tindaro” alla Défense di Parigi, il “Thsuki-No-Hikari” al British Museum di Londra, non è certo nuovo ad accostamenti insoliti e inediti delle sue opere come quello realizzato ad Agrigento.

Mitoraj Igor, scultura di sera MITORAJ IGOR, scultura

Allo scultore interessa il contenuto delle opere antiche, la loro anima, non la forma estetica e si rende conto che le sue opere sono quasi trappole mentali. E’ il modello greco quello a cui tende, non limitato solo all'arte, ma esteso alla filosofia, alla stessa democrazia. Il suo lavoro vuole parlare all’immaginario che è dentro di noi. Non è l’artista che deve parlarne, ma sono le opere a parlarne per lui.

Mitoraj Igor, sculturaMITORAJ IGOR, scultura

La mitologia della Valle dei Templi non potè non esercitare il suo fascino perfino su Luigi Pirandello, il quale compose uno dei suoi tre miti, forse l’opera sua più grande di teatro, intitolata “I giganti della montagna”.

Pirandello al tempio della Concordia

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RICORDO DI MADRI 
La Madre, Luigi Verrino
ALLA MADRE
 I
Ora la tua immagine si ridesta
prepotente nell’arco della sera,
la tua sembianza mesta
nel vano della porta dura
fosforescente miraggio
a lenire una più acuta paura
nel ricordo di un algido maggio.
 
II
Precipite la luna
s’inabissava dietro le colline,
lasciando appena
un alone boreale.
Rannicchiato, nell’angolo buio
trafelato di paura
battevo i denti;
mano di madre
grande ala protettrice
immensa si posò sul mio capo.

III
Le tue parole suadenti
come risonanze lontane
ritornano nelle sere cupe,
allorchè il cuore si stringe
e dal fondo rimesta
aspri sentimenti.
Con esse fermavi
le mie mani impulsive
ed ora l’eco dissolve
l’ultima barriera.
 
Ubaldo Riccobono

 

LA MADRE DI PIRANDELLO

 La madre di Pirandello

“Roma 11 VIII 1915
Mamma mia santa,
oggi passano da Roma Lina e Giovanni, che vengono a vederti; io non posso, purtroppo, e tu lo sai, venire con loro; ma tu pensami e vedimi insieme con Annetta e con Enzo, accanto a Te, Mamma, perché io non stacco un solo momento il mio pensiero da Te e ti vedo come se io fossi davanti e mi struggo di non poterti baciare codeste sante mani, che tante cure e tante carezze mi diedero quando forse d’un tuo conforto e d’una tua carezza non sentivo il disperato bisogno che sento adesso! Ma non credere, Mamma mia, che il mio animo non sia forte. Io resisto con coraggio alla prova; ma sento che meglio resisterei se Ti fossi vicino, se tu con gli occhi amorosi mi sostenessi di tanto in tanto.
Oggi ho buone notizie dal campo: Stefanuccio è a riposo e m’annunzia che forse il suo reggimento avrà il cambio. Sta bene; mi dice di sentirsi vivissimo, e che sotto la tenda ha trovato anche un momento di tempo per scrivere ai Nonnini due parole. Le avrete forse ricevute a quest’ora.
Bisogna che tutti ci facciamo forza l’un l’altro, in questo momento; ci teniamo uniti col cuore; nessuno manchi; il momento è grave; può diventare più grave; ma dobbiamo superarlo e lo supereremo.
Tu, Mamma, per tutti noi, comanda ancora al tuo corpo stanco e tormentato di resistere: noi vogliamo trovarci ancora insieme, quando Stefanuccio ritornerà, a festeggiare la nostra vittoria, la vittoria d’Italia.
Con questa speranza, e pieno di fede, Mamma mia, ti bacio con tutta l’anima. Pensa a me, vedimi con gli altri figli presente, e i nostri voti concordi siano esauditi!

Tuo, sempre Luigi.

Questo è il testo della lettera scritta da Luigi Pirandello alla madre morente e che fu messa tra le mani della morta due giorni dopo (13 agosto 1915). Subito dopo la morte della madre lo scrittore concepì la novella Colloqui con i personaggi, nella quale immagina che la madre lo venga a trovare per narrargli le vicissitudini della famiglia, i moti del ’48, l’esilio e la morte del padre a Malta, il risorgimento. 

"… E mi è venuto, accostandomi per la prima volta all’angolo della stanza ove già le ombre cominciavano a vivere, di trovarmi una che non mi aspettavo: ombra solo da ieri. Ma come, Mamma? Tu qui? E’ seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana… mi guarda e mi accenna di sì, che è voluta venire per dirmi quello che non potè per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita…"
 
Ci sono i crucci e le incertezze dei tempi di guerra, della grande guerra. E lo scrittore, triste e amareggiato, ritrova la madre viva, quella d’un tempo, che ha vissuto difficile esperienze familiari e lo incoraggia.; così gli rimane indelebile un ricordo, struggente ma reale al tempo stesso, e la cara voce che gli sospira:
 
“Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle”

 

DUE SONETTI IN DIALETTO
DI ALESSIO DI GIOVANNI
IN MORTE DELLA MADRE
Alessio Di Giovanni
‘NA DUMANNA
 
Persi la vita mia tutti li ‘ncanti…
Sugnu senza mammuzza ‘ntempu un nenti…
Oh Diu! pirchì sempri l’haiu davanti
Comu la vitti l’urtimi mumenti?!…

 Pàllita e stracangiata, ad occhi spanti,
Pativa li cchiù crudi patimenti,
Cu ‘na pacenza ca mancu li santi,
Pi nun dàricci pena a li parenti…

 Matruzza amarїata!… cci vasava
La manu fridda, ed idda nni la vara,
Cu l’occhi chiusi, muta, ca ‘un ciatava…

 Quant’era rispittusa nun si dici!…
Ed ora sulu, nni sta vita amara,
Ora com’è ca fazzu iu ‘nfilici?!…

 
 LACRIMI DI SANGU
 No, nun cci criju, no, ca tu si’ morta!…
Comu cala la sira, iu cci giuru
Ca sentu la tò vuci, apru la porta
Ed aspettu c’a vèniri sicuru…

 Si ‘na vuci lu ventu mi straporta,
Si nquarchedunu passa muru muru,
Iu ti chiamu trimannu, e di la porta,
Cu la manu ti cercu nni lu scuru…

 Oh, vinissi ‘na vota! … Addinucchiuni,
Comu davanti a Diu Sacramintatu,
Iu  ti dirria:- Mamà, dammi un vasuni!

 E si arreri sintissi la tò vuci,
Si p’un mumentu t’avissi a lu latu,

Purtassi cchiù sirenu la mè cruci!…

FRATERNITA’
fratello e sorella bretoni

Questo ricordo è dedicato alla mia sorella maggiore, madre meravigliosa, che è stata per me una seconda mamma, venuta a mancare lo scorso anno.

SORELLA MADRE
 
Sorella,
– più che sorella, madre –
si sono chiusi gli occhi tuoi
ed ora ho vividi ricordi:
 
all’ombra tua
crescevo, avaro ancora
di parole e di speranze,
acerbo virgulto
modellabile vaso;
 
bastava un tuo sguardo
per segnarmi la via,
sorella mia…
 
m’intimavi
con dolce minaccia
a trovare coraggio
a portare sogni in petto;
 
per prima m’insegnasti
la serietà della vita
a non ridere mai degli altri
a pensare con magnanimità
 
la tua linfa trovò radici
fertili nel cuore.

 

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RICORDO DI KAROL WOJTYLA

PapGiovanni Paolo II nella valle dei Templi “Dio ha detto una volta non uccidere.
Non può l’uomo, qualsiasi uomo,
qualsiasi umana agglomerazione, mafia,
non può cambiare e calpestare
questo diritto santissimo di Dio.
Questo popolo, popolo siciliano,
talmente attaccato alla vita,
popolo che ama la vita, che dà la vita,
non può vivere sempre sotto la pressione
di una civiltà contraria, civiltà della morte!?
Lo dico ai responsabili: convertitevi!

Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!”

 

E’ con queste incisive parole di condanna alla mafia, pronunciate nella Valle dei Templi di Agrigento nel maggio del 1993, che vogliamo ricordare Karol Wojtyla, Papa Giovanni Paolo II, che sarà beatificato in San Pietro a  Roma. Ci sembra che le sue parole, che abbiamo voluto rendere sotto forma di drammatica poesia, siano l’alta testimonianza della sua santità e della profondità del suo magistero.  
Per l’occasione celebrativa, riportiamo due poesie dedicategli da Nino Agnello e da me.

 

Nino Agnello, poeta, scrittore, saggistaCommiato per Giovanni Paolo II
 

Venuto da lontano
è andato molto più lontano
a unificare il mondo
nell’amore del Padre,
 
e al trono del padre ora è tornato
alacre pellegrino anima bianca
dentro il mantello che fece svolazzare
più volte sulle nevi alpine
essendosi votato atleta del Signore.
 
A noi terreni in lutto
lascia il corpo offeso da cento coltelli
per farne pietra miliare al nostro cammino
sepolcro mausoleo sala delle visite
tutte le volte che vorremo orientare il passo
verso un luogo di comune convergenza,
 
universale misura a valutare un uomo
che s’innalza aquila bianca
oltre quanto fu mai possibile
a spaurito passerotto. Carlo Wojtyla
è già stella di prima grandezza
nel firmamento di luce.
(Nino Agnello, da “Cronache del magro vivere, 2005)
 

Ubaldo RiccobonoA Giovanni Paolo II il Grande
 
Ora che non ci sei
sei più presente di prima,
perché, Padre Santo,
allora ignoravo
la tua grandezza,
come il figlio che dà la mano al genitore
e con lui cammina sicuro
senza paura,
finchè scopre d’essere solo
senza quella mano forte
che lo trascinava.
(Ubaldo Riccobono, da “All’amica infedele e altri frammenti poetici”, 2010)

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VioleI cinque anni di Viola

Viola nostra, Viola mia,
cinque anni son volati via;
 
son volati veloci i giorni
tutti belli, tutti adorni
di allegria e di felicità,
 
nella gioia che mai finisce
come Pasqua che i cuori unisce
con il saluto delle campane
– anche di quelle più lontane –
che c’invitano a festeggiare.
 
Dai tuoi occhi sfavillanti,
che hanno rubato perfino al cielo
l’azzurro intenso e più profondo,
s’effonde a noi amore giocondo.
 
Gioca Viola, non smettere ancora,
con quel sorriso che c’innamora;
gioca Viola, gioca sempre
da gennaio fino a dicembre.

Auguri Topolino

viola

Oggi è festa grande: la mia adorata nipotina compie cinque anni e il 3 maggio prossimo festeggerà anche l’onomastico. Mi si perdonerà, quindi, per questa occasione speciale, l’irriverenza di rendere pubblica la dedica di apertura con un mio semplicissimo componimento, a fronte della pubblicazione di poesie di grandi poeti che evocano il nome Viola. Ma prima di continuare il post evocativo del nome Viola, desidero proporre come augurio le immagini di alcuni personaggi che hanno allietato e continuano ad allietare i giorni della mia nipotina, alla quale piacciono molto i racconti e comincia già ad inventarne di suoi.

Auguri Winnie de PoohAuguri Principesse
viola 8
Auguri nanetti

Auguri Winx
pimpa
Trilly

 

Auguri Principesse
 

viola NOMI, FIORI E LETTERATURA
(in occasione di un compleanno)

 

La disputa della rosa con la viola

                 di Bonvesin de la Riva

Bonvesin de la Riva

Bonvesin de la Riva (Milano 1240-1315), frate laico dell’Ordine degli Umiliati, “doctor in gramatica”, scrisse un contrasto intitolato Disputa della rosa con la viola (quartine di alessandrini in 248 settenari doppi), di cui riporto uno stralcio finale.

El ha dao la venzudha a la vïora olente
perzò k’ella e plu utile, guardand[o] comunamente;
compensando tut[e] cosse, plu degna e plu placente,
e ke maior conforto significa a tuta zente.

El ha dao la perdudha a la rosa marina,
ké computand[o] tut[e] cosse ella non è sì fina.
La rosa per vergonza la soa testa agina,
e gramamente a casa sì torna sor la spina.

La vïoleta bella, la vïoleta pura
alegra e confortosa se ’n va co la venzudha.
Ki vol ess[e] cum’ vïora e trà vita segura,
sïa comun et humel et habia vita pura.

 In questa tenzone allegorico-didattica i due fiori rappresentano vizi e virtù: la rosa, la superbia e l’avarizia; la viola, l’umiltà e la carità. Ma è lecito individuare in essa un significato socio-politico, con la  rosa a raffigurare la potente aristocrazia, laddove la viola invece si riferisce al ceto borghese, classe di cui faceva parte Bonvesin, uomo della riva come la viola (“ma tu sì nasci in le rive”).

Bonvesin de la Riva

Un genere letterario, la tenzone, importata in Italia nel duecento dalla letteratura provenzale, come contentio tra due o più interlocutori (nella specie della rosa e della viola, chiaramente simbolica). Nella rosa può rinvenirsi anche la simbologia della superbia del leone, anticipazione dantesca di Fra Bonvesin, riscontrabile anche nel Libro delle tre scritture, tripartito in De scriptura nigra, De scriptura rubra, De scriptura aurea, dove appare evidentissima la successiva strutturazione dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso che ne avrebbe fatto Dante nella Divina Commedia.

 

viola Viola e Non ti scordar di me
in Johann Wolfgang Goethe

J.Wolfgang Goethe

Goethe diceva che “la poesia indica i segreti della natura e cerca di risolverli per mezzo dell’immagine”. La sua poetica si fondò sull’osservazione costante del regno naturale: dovunque andasse, indugiava a catalogare piante, fiori e minerali e fu all’ossessiva ricerca della pianta originaria, dalla quale poter derivare, diceva lui, come prototipo di tutte le piante possibili.  Anche Goethe si colloca nel solco della concezione di Bonvesin de la Riva, esaltando le qualità della viola, finendo per prediligerle però il leggendario Non ti scordar di me, simbolo per lui di fedeltà eterna dell’amore.  

La buona violetta io la stimo molto:
è tanto modesta e tanto
odorosa; ma io ho bisogno
di più, nel mio acerbo affanno.
A voi soltanto voglio confidarmi:
su questi picchi rocciosi e aridi
non troverò la mia bella.

Ma la donna più fedele della terra
incede presso il ruscello, in basso,
sospira e geme sommessa
fino al giorno del mio riscatto.
Quando coglie un fiore celeste
e ripete: non ti scordar di me!
lo sento anche di lontano.

goethe_roma

Certo, si sente la forza di lontano,
se due si amano davvero;
nella notte del carcere sono rimasto
ancora vivo per questo.
E anche se mi spezza il cuore, basta che
io esclami: non ti scordar di me!
e rinasco alla vita.


 
viola Totò e la viola

TotòPer Totò, che fu anche finissimo poeta, è la viola simbolo eterno d’amore e di rimpianto, quantunque disperato possa essere l’intimo sentimento: mette salde radici nel cuore d’ogni innamorato ed evoca sempre il ricordo dell’amata, come canta in questa delicara composizione in dialetto napoletano.
 

Viola d'ammore

Pe nun me scurdà 'e te aggio piantato
dint'a nu vase argiento,  na violetta
cu 'e llacreme 'e chist'uocchie l'aggio arracquata
e ll'aggio mise nomme:"Oh mia diletta!".

E songhe addeventato 'o ciardiniere
'e chesta pianta…simbolo d'ammore
"Oh dolce violetta del pensiero…
…he mise na radice int'a stu core!".

 
viola

Una viola al Polo Nord

di Gianni Rodari

Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia):
"Che sia arrivata qualche spedizione?"
Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria, perchè quello era il suo dovere.
"Mamma, papà", gridavarono gli orsacchiotti.
"Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano", fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. "E secondo me non è un pesce".
"No di sicuro", disse l'orsa maggiore, ma non è nemmeno un uccello.
"Hai ragione anche tu", disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo.
Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più lontano anche volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima.
"Per mandare tanto profumo", disse una foca, "deve avere una riserva sotto il ghiaccio".
"Io l'avevo detto subito", esclamò l'orso bianco, "che c'era sotto qualcosa".
Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava.
Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni.
"Ne sappiamo quanto prima", osservò la foca.
"Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa".
"Come ha detto che si sente?" domandò l'orso bianco a sua moglie.
"Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare".
"Ecco", esclamò l'orso bianco, "proprio quello che penso anch'io".
Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita.
Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressapoco questo: "Ecco, io muoio… Ma bisogna pure che qualcuno cominciasse… Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini".

 
 

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UOVA DI PASQUA

Giuseppe Forte, Resurrezione Comu rè già triunfanti
scarzarau li Patri Santi
O gran Virgini Maria
mi rrallegru assai cu tia
(Rosario siciliano, manoscritto inizio XX secolo)

Il guscio dell’uovo che si rompe, rappresentando la nascita di un essere vivente, è da sempre per il cristianesimo il simbolo della resurrezione, dell’uscita di Cristo vivo dal sepolcro per portare il suo messaggio di vita e di pace

BUONA PASQUA 2011Dall'uovo di Pasqua

Dall'uovo di Pasqua
è uscito un pulcino
di gesso arancione
col becco turchino.
Ha detto: "Vado,
mi metto in viaggio
e porto a tutti
un grande messaggio".
E volteggiando
di qua e di là
attraversando
paesi e città
ha scritto sui muri,
nel cielo e per terra:
"Viva la pace,
abbasso la guerra".

Gianni Rodari

 

PasquaAssociati alle uova ci sono narrazioni sacre non casuali. Si racconta, infatti, che la Madonna facesse giocare Gesù Bambino con delle uova colorate e che il giorno di Pasqua, tornata sul sepolcro del figlio, avesse trovato alcune uova rosse sul ciglio. Si narra ancora che Maria Maddalena si sia presentata davanti all'imperatore Tiberio per regalargli un uovo dal guscio rosso, a testimonianza della Resurrezione di Gesù. Pare pure che Maria, madre del Cristo, portasse in omaggio a Ponzio Pilato un cesto dorato pieno di uova, per implorare la liberazione del figlio.
Ecco perché perdura un attaccamento straordinario al dolce della tradizione pasquale, che è simbolo per antonomasia della stessa festività della Pasqua. L’uovo di cioccolato è piuttosto recente rispetto al dono di uova vere, decorate o dorate, che rientrano in un rito assai antico.
 

 

PasquaLe sei uova di Pasqua
(Racconto di Fabio Tombari)

Sotto la Settimana Santa, un tale era tanto povero che non aveva nemmeno un po' di uova da far benedire. Va da un usuraio suo vicino e gli dice pressappoco così: “Ho da andare in America a lavorare, ma intanto vorrei festeggiare la Pasqua anch'io con i miei. Avreste sei uova da prestarmi, che ve ne dò altrettante e più al mio ritorno?”
E quello va a prendere sei uova sode, calde calde, dal tegame e gliele dà cotte e tutto. Ringraziamenti, benedizoni: poi va in America e dopo quatr'anni ritorna, non ricco ma benestante. Va dall'usuraio:
“Ecco dodici uova in cambio delle sei che mi avete prestato.”
Dodici uova sole? A lui, a un usuraio, a un farabutto simile? Mi meraviglio!
Prende e lo cita in tribunale, per danni, truffa e mancamento di parola..
Con quelle sei uova prestate, avrebbe potuto fare non so quante galline e uova e pulcini e altre uova: insomma, mille non bastavano.
Voleva portargli via il pollaio, l'orto, la casa; mandarlo in prigione con tutta la famiglia. E quell'altro, poveretto, non sapeva cosa fare.
Camminava, mogio mogio, tutto in pensieri.
Lo  incontra un amico, un certo Edoardo Giansanti, poeta dialettale .pesarese, detto Pasqualon, un amico sul serio.
“Che succede?”
“Domani – gli disse – devo presentarmi in causa.”
E gli raccontò delle sei uova: come le aveva avute, come è tornato, e l'offerta fatta, e la pretesa dell'altro, la denuncia, ecc. ecc.
“Ti d'ifenderò io!” fa Pasqualon.
“A che ora è la causa?”
“Alle nove.”
“Aspettami nell'aula e ti verrò a difendere.”
Viene il giorno dopo, arrivano le nove tutti aspettano e Pasqualon non si vede.
Anche il giudice si impazientiva.
“Così fa questo vostro avvocato che non viene?”
L'altro, l'usuraio, godeva del proprio veleno. Arrivano le nove e un quarto, e niente; le nove e mezzo, e niente…
Finalmente eccoti Pasqualon di corsa, mettendosi la giacca, spolverandosi i calzoni.
“Scusatemi, Signor giudice, scusatemi se ho fatto tardi e ho fatto tardi, ma ho dovuto cuocere la fava perché domani devo seminare.”
“Come! “ tutti in una gran risata. “E vorreste seminar la fava cotta!  Ma questa è grossa: e come volete che i semi possano germogliare una volta bolliti?”
“Eh, lo so anch'io, signor giudice!” rispose Pasqualon  “Ma nemmeno dalle sei uova sode sarebbero nati i pulcini.”
E il giusto trionfò anche stavolta fra le risate di tutti.

 
 

PasquaRicordi di Pasqua
(Racconto di Ubaldo Riccobono)    

Il Sabato Santo, s’andava  al forno per tempo a prenotare i cestini con l’uovo e verso sera si tornava a ritirarli, odorosi e fragranti dell’ultima sfornata. Noi bambini dovevamo aspettare la mezzanotte, se volevamo mangiarli; ma non resistevamo quasi mai fino a quell’ora.
L’indomani, giorno di Pasqua, ci svegliavano le campane a distesa: il suono ci veniva simultaneamente dalla Cattedrale, dalla Badiola, da San Michele, e dal campanone della vicina San Girolamo.
Appena alzati dal letto, a piedi nudi andavamo in cucina a prendere i cestini con l’uovo: erano la nostra colazione di Pasqua, che consumavamo facendoci la croce ripetutamente, con gesti contriti. Poi, aprivamo la persiana e dalla finestra indugiavamo ad osservare il passaggio della gente vestita a festa.
Di ritorno dalla messa, muniti di un bastone, com’era l’usanza, seguivamo i grandi che si mettevano a percuotere le porte delle case, dicendo:
“Nesci u diavulu e trasi Maria (esce il Diavolo e entra Maria)!”
Altri fedeli aggiungevano:”Nesci fora, tentazioni, e trasissi Nostru Signuri!” (esci fuori tentazione e entri dentro Nostro Signore).
Ma non mancavano quei quattro gatti di facinorosi che andavano a sfondare, con questa scusa, le porte delle botteghe: c’era a volte un fuggi fuggi generale per l’intervento della polizia.
Ma la cosa più bella era la placida passeggiata lungo il Viale della Vittoria, dove tutti si scambiavano auguri festosi, facendo capannelli davanti ai caffè.
A pranzo sedevamo composti e ordinati, in attesa del regalo finale. Tra agnellini pasquali di pasta reale e le classiche cassate siciliane, adorne di frutta candita, facevano dunque  la loro comparsa le uova di cioccolato. E, nell’aprirle, restavamo a bocca aperta per le belle sorprese che vi trovavamo dentro. Però, per tutti il ricordo più vero restavano i cestini di pane con al centro l’uovo sodo. Era quello che ci aveva fatto capire il significato autentico della sacralità della festa, contro le false chimere del consumismo.

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L’UNIVERSO FEMMINILE
IN LILIANA ARRIGO

 Liliana Arrigo

Liliana Arrigo, poetessa agrigentina, molto apprezzata e pluripremiata, uscirà a breve con il suo primo volume, intitolato L’odore del vento. Un esordio tardivo, rispetto al suo rapporto antichissimo con la poesia, dovuto prevalentemente alla sua ritrosia, alla delicatezza e alla discrezione del suo sentire, in un’epoca in cui si assiste a un frastuono di voci. Ma ce n’era bisogno, perché la poetica dell’Arrigo è di quelle che lasciano il segno, che fanno molto riflettere sulla realtà dell’universo femminile.
Il “libero canto” di Liliana Arrigo, scoperto in se stessa e nei luoghi d’infanzia quasi per partenogenesi, non conosce limiti di tempo, diventa eterno sentire della donna e messaggio incarnato nelle fibre dell’anima:

 
186545_100000195136894_2787186_nUNICO RIFUGIO
 
Crebbi, tra screpolate case, dal tempo scurite,
che il vento carezzava, leggero.
Strette le strade tortuose
risonanti dei miei passi infantili
e, nei chiusi cortili, rossi gerani
e risa argentine nei giochi innocenti.
Svanirono gli anni:
caleidoscopio di vetro
e sospiri d’amori inventati
a raccontare lunghi silenzi.
E si andava nelle vuote ore
ad incrociare sogni uguali, il cielo avaro di luce,
nell’ombroso viale frusciante di vita.
Anni di ristretti confini
di speranze pulsanti a rodere il freno.
Partii, senza esitare partii,
randagia, sempre più in là, sempre più in là.
Ma la nostalgia delle proprie radici
pure da lontano cresceva,
cresceva l’affetto, il rimpianto cresceva
incagliato al ricordo, stampato per sempre
di mandorli e ulivi, di rovine di così forte vanto.
E struggermi d’insaziato amore
al ribellarsi di ogni fibra,
per rintracciare, alfine, delle radici la via
che al centro del mio mondo mi recò.
Città benigna e d’indegni abusi,
d’irrimediabili danni a rosicare il cuore.
Agrigento, tu unico rifugio,
città immota uguale a sempre
seppur rovinosa nel silenzio stagnante.
 

Questi acuti “sentimenti” dei luoghi d’infanzia, diventati presto con il passare del tempo un peso del cuore, attizzano la ribellione ad vita sempre uguale, fino diventare decisione a spezzarne la trama. La vita di una poetessa è moto perpetuo, è cercare e a volte non trovare, è cercarsi nell’intimo, raccogliere gli echi sommessi e sommersi, volgere uno sguardo speculare sul mondo e all’interno della propria anima, sviscerandone anche le contraddizioni:

 
186545_100000195136894_2787186_nMI CERCO
 
Mi cerco
nella tenerezza intrisa
di luce e viluppo d’ombra,
nei sentimenti sottratti
e nell’indifferenza anchilosata
che come abisso ci separa.
Mi cerco
nello sprezzo di crude realtà,
vulnerabile nelle sviste addizionate,
pianeta alla ricerca di un senso,
tra cuori corrotti
e orecchie che non sentono.
Mi cerco
negli occhi ignari dell’innocenza,
argilla da modellare,
nella ghirlanda di sguardi
del mio sterile orgoglio
e nello strepitare di sensi astratti.
Mi cerco
nelle folate di vento
che fanno rabbrividire pensieri di carta,
laceri fogli che rotolano,
rotolano
verso ignote destinazioni.
Mi cerco
mentre mi soffermo
ad inanellare parole
per aleggiare svelta
senza mai raggiungermi
 

Cercarsi e non trovarsi anche nel proprio amore, sentire di aver perso, in una propria vicenda annichilita, la bellezza del firmamento.
 

Liliana ArrigoNON DI STELLE SI NUTRE IL MIO CIELO
 
Sinuoso, sconfina il tuo pensiero
scisso dal mio,
fuoco estinto di occhi
che non s’incontrano
e mani che più non tremano.
Si ripone ogni luce
tra cremisi sipari sfiorati dal vento
e di sospiri trattengono impronte.
Mani d’argilla,
disseccano distese di mare
per sperdermi, mani accorate,
nell’assenza d’ogni suono.
Il mio pianto nelle mani
ad intonare mute preghiere,
ora che non di stelle si nutre il mio cielo.
Nel tempo mani vuote sorreggono il dolore
e  mute ricordano
la tua mano sulla mia
intrecciare desideri.
Morbide mani
serpeggiavano calde
rovistando il mio corpo
arrendevole, cieche…
e invano m’inganno
cercando tra le mie,
illividite, invisibili mani.
 

Il calice del dolore, dell’orgoglio ferito è duro e odioso, ma l’amore della donna e il suo sacrificio riescono a sublimarlo.

186545_100000195136894_2787186_nSE TI VEDO

Se ti vedo
tremo d'amore
invece vorrei disprezzarti.
Una tela incantata mi hai tessuto,
e con tutto che sembravo una regina,
come lenzuolo usato
mi hai gettato via.
Ora non so più come trascorrere
i miei giorni
e triste, trascinandomi cammino,
in mezzo ai tormenti.
Di pene un fardello come piombo
porto sulle spalle,
negli occhi trema il pianto,
di mille e più sospiri
è pieno il cuscino.
Povero cuore nero e stracciato,
questa è piaga che non sana,
riposo ormai più non trova.
E amaro inghiotto,
se ti vedo,
il cuore mi sobbalza nel petto,
tremo d'amore
ma forza mi faccio
per poterti scordare.

 
 

Sogno perseguibile, e forse mai raggiungibile, è quello della donna, anelito perenne di libertà in un mondo d’incomprensioni, di antagonismi, di laceranti divisioni, di pregiudizi duri a morire.

 

186545_100000195136894_2787186_nL’ORO DELLE MIMOSE
 
C’è come un’attesa
in questo giorno di mimose
che brilla su un sipario di fuoco
senza via di fuga,
fuori cantava la libertà senza ombre.
E vedere nel giorno un simbolo
e scambiarsi parole vaghe
e intense risate
per paura di affrontare il presente.
Festeggiano le donne
gettando via i silenzi
chiusi dentro i pensieri.
Donne di un uomo o di nessuno
che oggi sorridono con occhi di bambina,
donne dalle ossa stanche
che con un colpo di ciglia
ritornano a sperare nella luce
dopo l’ombra.
Donne che non lasciano impronte
e, a volte, riescono a volare
oltre l’oro delle mimose.
 
Biografia
 

Liliana ArrigoLiliana Arrigo già da bambina amava scrivere poesie.Ultima recita di Montalbano
Nel tempo, la crescente passione l’ha portata a partecipare e a vincere numerosi premi letterari sia in vernacolo che in lingua. Tra i riconoscimenti il premio “Alessio Di Giovanni”, il premio “Kalura”, il memorial “Rosa Balistreri”, “Lu Papanzicu”, il “Duerre”. Sue poesie sono presenti in riviste specializzate e antologie. Dal 2009 presiede l’Associazione culturale “Il libero canto di Calliope”, della quale è stata la fondatrice e di cui fanno parte noti poeti, scrittori e musicisti di Agrigento e del suo immediata hinterland. Diverse le iniziative di promozione dell’Associazione: il Premio “Pippo Montalbano”, giunto alla seconda edizione, il concorso letterario “Una poesia per Pirandello”, all’interno del Pirandello Stable Festival, il reading di poesie sul mandorlo, partecipazione a “I colori della pace” ideato dai fratelli Gerlando e Paolo Cilona.
 

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Luigi Pirandello Pirandello e il Risorgimento familiare
 

Pirandello definisce I vecchi e giovani il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso, ov’è racchiuso il dramma della sua generazione. E in effetti, in questa poderosa opera largamente autobiografica – come ebbe a rilevare Leonardo Sciascia in Pirandello e il pirandellismo – emerge tutta l’amarezza per il Risorgimento tradito; un Risorgimento per lo scrittore  intriso di memorie, di fatti e di sentimenti familiari, rivissuti sin dall’infanzia attraverso le parole del padre Stefano, carabiniere garibaldino, e della madre Caterina Ricci Gramitto, che a soli tredici anni, con tutta la famiglia, assistette impotente al dramma del padre Giovanni, condannato ad espatriare dai Borboni nell’esilio di Malta.
Madre di Pirandello

Nella novella Colloqui coi personaggi il fervente spirito patriottico della famiglia Ricci Gramitto viene rievocato dalla madre con accenti drammatici, nel contrasto potente tra la bellezza dell’isola maltese “con quel golfo grande grande, d’un azzurro aspro, luccicante d’aguzzi tremolii”, del paesello bianco di Burmula,, “piccolo in una di quelle azzurre insenature”, e il cordoglio senza fine del padre di non poter vedere per la Sicilia il giorno della vendetta e della liberazione: stato d’animo che lo consunse a poco a poco a soli 46 anni.
 
Ci chiamò tutti attorno al letto il giorno della morte e si fece promettere e giurare dai figli che non avrebbero avuto pensiero che non fosse per la patria e che senza requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa” (Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915).
 
Il nonno dello scrittore, Giovanni Battista Ricci Gramitto, avvocato di Girgenti, aveva pagato con l’esilio forzato e la morte di stenti per essere stato uno dei massimi esponenti dei moti rivoluzionari del 1848-49 a Palermo – primo evento rivoluzionario in Europa – e per questo non era rientrato nell’amnistia del general perdono del Borbone, unitamente ad altri 42 esclusi: 1) D. Ruggero Settimo; 2) Duca di Serradifalco;  3) Marchese Spedalotto; 4) Principe di Scordia; 5) Duchino della Verdura;  6) D.Giovanni Ondes; 7) D.Andrea Ondes; 8) D. Giuseppe La Masa; 9) D. Pasquale Calvi; 10) Marchese Milo; 11) Conte Aceto; 12)  Abate S. Ragona; 13) Giuseppe La Farina; 14) D. Mariano Stabile; 15) D. Vito Beltrani; 16) Marchese di Torrearsa; 17) Pasquale Miloro; 18) Cav. D.Giovanni S.Onofrio; 19) Andrea Mangerua; 20) Luigi Gallo; 21) Cav. Alliata; 22) Gabriele Carnazza; 23) Principe di S.Giuseppe; 24) Antonino Miloro; 25) Antonino Sgobel; 26) D. Stefano Seidita; 27) D. Emmanuele Sessa; 28) D. Filippo Cordova; 29) Giovanni Interdonato; 30) Piraino di Milazzo; 31) Arancio di Pachino;  32) D. Salvatore Chindemi di Catania;  33) Barone Pancali di Siracusa; 34) D. Giuseppe Navarra di Terranova; 35) D. Giacomo Navarra di Terranova; 36) D. Francesco Cammarata di Terranova; 37) D. Carmelo Cammarata di Terranova; 38) D. Gerlando Bianchini di Girgenti; 39) D. Mariano Giojeni di Agrigento; 40) D. Francesco Giojeni di Girgenti; 41) D. Giovanni Gramitto di Girgenti; 42) D. Francesco De Luca di Girgenti; 43) D. Raffaele Lanza di Siracusa.
Morto il padre, la famiglia di Caterina aveva fatto ritorno in patria, in casa di quello zio che l’aveva mantenuta durante l’esilio a Malta, quello stesso zio canonico che era stato costretto a cantare controvoglia alla Cattedrale il Te deum di ringraziamento per il ritorno al trono di Ferdinando II di Borbone, mentre il fratello prendeva la via dell’esilio.
Ma l’insofferenza alla tirannia del Borbone continuava ad essere viva e, come una vera ossessione,  non risparmiava nessuno dei discendentii della famiglia Gramitto, uomini e donne, fedeli al ricordo paterno e al richiamo della patria:
 
Eh sì, troppo veramente mi doleva d’essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii, quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il mio più piccolo fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al Presidio borbonico, nella stess’ora che a Palermo un altro
il convento della ganciadei miei fratelli doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici!” (Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915)
 

Lo zio Rocco Ricci Gramitto
la campana della ganciaMentre alla Gancia di Palermo il fratello di Caterina, Rocco Ricci Gramitto, si salvava a stento, a Girgenti l’altro fratello, Innocenzo, issava il tricolore, mettendolo nel pugno di una statua sulla facciata della chiesa del Purgatorio, come ricorda tuttora l’iscrizione di una lapide. 
 

Nell’aprile 1860
animosi girgentini del Risorgimento
guidati dalla profonda anima religiosa
di nostra gente
issavano per la prima volta
il vessillo della Patria
in pugno a questa statua
sul fronte sacro di questo tempio
all’ombra della Croce.

 
Francesco CrispiL’anima di questa nuova rivoluzione era stato il siciliano Francesco Crispi, il quale, già a Napoli, dove esercitava l’avvocatura, aveva fatto da tramite tra i patrioti napoletani e quelli siciliani. Allo scoppio dei moti del ’48 (12 gennaio) Crispi aveva fatto parte del Comitato di Guerra, risultando poi eletto deputato alla Camera dei Comuni. Fallita la rivoluzione, nel ’49 era andato poi esule in Piemonte, venendone però espulso nel 1853, costretto quindi ad espatriare a Malta. Ma anche da Malta veniva cacciato, riparando precipitosamente a Londra e quindi a Parigi, dove riuscì a tenere i collegamenti con Mazzini e Rosolino Pilo. L’insurrezione in Sicilia era stata concordata con il Mazzini, il quale a sua volta l’aveva studiata nei minimi dettagli con Garibaldi. Doveva trattarsi di una rivoluzione repubblicana e, per questo, Crispi si era recato in Sicilia, in gran segreto, già nel luglio-agosto del 1859, al fine di poter preparare il terreno. Sarebbe iniziato tutto dal convento della Gancia di Palermo, con l’intento di incendiare, per farle sollevare, tutte  le popolazioni del Sud fino a Roma. Tuttavia, il fallimento dell’impresa non impedì a Garibaldi di partire da Quarto, convinto in ciò da Crispi che, ottenendo l’assenso tacito dei Savoia,  aveva perorato la spedizione come l’ultima chance che si offriva per svincolare il sud dal giogo dei Borboni.
Ai garibaldini, partiti da Quarto, si unirono i patrioti siciliani, tra cui il padre dello scrittore e gli zii Rocco e Vincenzo, i quali,  tutti, parteciparono, l’anno successivo, all’ulteriore spedizione garibaldina, conclusasi infaustamente all’Aspromonte. Lo zio Rocco per primo soccorse Garibaldi ferito e raccolse lo stivale del generale, che oggi si trova al Vittoriano di Roma, dono della famiglia Ricci Gramitto..
Ma anche il padre dello scrittore fu un entusiasta garibaldino della prima ora, arruolandosi tra i carabinieri e marciando al fianco del generale, seguendolo dalla Sicilia fino a Napoli e successivamente nell’infausta impresa dell’Aspromonte. Durante l’epopea garibaldina, Stefano Pirandello aveva conosciuto Francesco Crispi – di cui sarebbe divenuto poi un grande elettore – e il futuro cognato Rocco Ricci Gramitto. Le parole della madre:
 
Quando quel mio fratello ritornò dalla prigionia nella caserma di San Benigno a Genova, tutto il popolo qua lo condusse quasi in trionfo alla madre e a noi che lo aspettavamo festanti; e fu allora ch’io conobbi per la prima volta vostro padre, reduce anche lui d’Aspromonte, garibaldino anche lui del Sessanta, carabiniere genovese. Avevo già ventisette anni e non volevo più sposare; mi toccò sposare perché lui lo volle, lui che poteva imporsi al mio cuore con la bella persona e più, in quei fervidi anni, con l’animo che voi figliuoli gli conoscete, per cui ancora, vecchio, esulta e si commuove come un bambino per ogni atto che accresca onore alla patria(Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915)
 
Stefano Pirandello e Rocco Ricci Gramitto s’iscrissero alla Massoneria, di cui facevano parte come dirigenti Garibaldi e Crispi, e furono in corrispondenza con il Generale. Subito dopo l’Aspromonte, Rocco Ricci Gramitto aveva inviato una lettera all’Eroe, chiedendo notizie sul suo stato di salute e dedicandogli dei versi. Il generale aveva risposto:

garibaldi Caro Gramitto accetto riconoscente la dedica dei Vostri bei versi e ve ne ringrazio; Voi con la mente e col braccio avete mostrato di qual santo affetto amate la Patria. Gradite una mia stretta di mano, e tenete lo stivale che raccoglieste in Aspromonte per memoria del Vostro Giuseppe Garibaldi

Anche il padre dello scrittore scrisse all’Eroe una lettera di augurio per la guarigione e ne ebbe riscontro:

Signor Pirandello, Vi ringrazio dell’affettuosa memoria che mi serbate. La mia salute va sempre meglio ed io conto di guarire presto. Dite ai vostri compaesani che abbiamo fede nei destini dell’Italia, dessi sono maturi e presto ci troveremo ancora sulla via di Roma e Venezia. Vostro G. Garibaldi”.
 
Ma se il fervore patriottico dei genitori rivive nella premessa de I vecchi e i giovani La famiglia Pirandelloa loro dedicata (Ai miei vecchi genitori/ perché di cuore e di mente/ più giovani di me/ nella festa delle loro Nozze d’oro/ 28 novembre 1863-1913/ quest’opera, in cui i loro nomi/ Stefano e Caterina/ vivono eroicamente/ o.d.c. Luigi Pirandello), il romanzo costituisce la dimostrazione palese di un Risorgimento che tradì le attese della Sicilia – e del Sud –  ad opera di quegli stessi personaggi che ne avevano rappresentato le istanze, primo fra tutti quel Francesco Crispi che aveva propugnato la repubblica ed era sceso a patti con il Re.
La svolta per la struttura del romanzo furono i fatti del 1893-1894, allorquando violente insurrezioni contadine, in tutta l’Isola, erano sfociate nel sangue, ed avevano coinvolto drammaticamente l’organizzazione dei Fasci Siciliani, che nel maggio del 1893 avevano ottenuto, con i patti di Corleone, notevoli miglioramenti dei contratti agrari.  I fasci siciliani avevano squassato anche la città di Girgenti, dove molti pagarono con il carcere e il lontano cugino dello scrittore, Francesco De Luca, fu salvato grazie all’intervento della famiglia Pirandello. Le premesse di questi drammatici eventi, sedati duramente da un figlio dell’isola e patriota, Francesco Crispi, sono racchiuse tutte  nelle parole di Corrado Selmi:
 
“…ci ostiniamo purtroppo a voler essere ombre noi, qua, in Sicilia. O inetti o sfiduciati o servili. La colpa è un po’ del sole. Il sole ci addormenta finanche le parole in bocca! Guardi, non fo per dire: ho studiato bene la questione, io. La Sicilia è entrata nella grande famiglia italiana con un debito pubblico di appena ottantacinque milioni di capitale e con un lieve bilancio di circa ventidue milioni. Vi recò tutto il tesoro dei suoi beni ecclesiastici e demaniali, accumulati da tanti secoli. Ma poi, povera d’opere pubbliche, senza vie, senza porti, senza bonifiche, di nessun genere. Sa come fu fatta la vendita dei beni demaniali e la censuazione di quelli ecclesiastici? Doveva essere fatta a scopo sociale, a sollievo delle classi agricole. Ma sì! Fu fatta a scopo di lucro e di finanza. E abbiamo dovuto ricomprare le nostre terre chiesastiche e demaniali e allibertar le altre proprietà immobiliari con la somma colossale di settecento milioni, sottratta naturalmente alla bonifica delle altre terre nostre. E il famoso quarto dei beni ecclesiastici attribuitoci dalla legge del 7 luglio 1866? Che irrisione! Già, prima di tutto, il valore di quei beni fu calcolato su le dichiarazioni vilissime del clero siciliano, per soddisfar la tassa di manomorta; e da questo valore nominale, noti bene, furono dedotte le percentuali attribuite allo Stato e le tasse e le spese di amministrazione. Poi però tutte queste deduzioni furono ragionate sul valore effettivo e furon sottratte inoltre le pensioni dovute ai membri degli enti soppressi. Cosicchè nulla, quasi nulla, han percepito fin oggi i nostri Comuni. Ora, dopo tanti sacrifici fatti e accettati per patriottismo, non avrebbe diritto l’isola nostra d’essere equiparata alle altre regioni d’Italia in tutti i benificii, nei miglioramenti d’ogni genere che queste hanno già ottenuto?(I vecchi e i giovani, romanzo, 1913)
 
L’Unità d’Italia non fu un affare per la Sicilia, anzi fu l’inizio di nuove ingiustizie per la gente del Sud, tradita dai suoi stessi figli, coinvolti nelle beghe di palazzo e nella corruzione dello Stato centralizzato (scandalo della Banca Romana). E tale disillusione, a causa di uno Stato sordo alle istanze dei figli migliori, traluceva ancora nel 1910 dalle semplici parole del padre Stefano da una lettera scritta alle sue nipotine, figlie della primogenita Rosolina:
 

Il padre di Pirandello

Mie care nipotine, dovete sapere che i Carabinieri Genovesi erano esclusivamente comandati dal Generale Garibaldi, ed il vostro vecchio nonno ebbe l’onore d’appartenere a questo Corpo scelto che pagò sempre con usura il suo tributo di sangue! Ora il governo dell’ineffabile Giolitti ci ha ricompensati con una pensione di 25 centesimi al giorno dopo trascorsi 49 anni! Però la nostra ricompensa, più che dai 25 centesimi l’abbiamo ricevuta dalla nostra coscienza…”.

 

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EMPEDOCLE DI AGRIGENTO

 Empedocle di Agrigento

“Nato ad Agrigento intorno al 490 e morto verso il 430, Empedocle riassunse nella propria vita tanto la ricchezza di umori della sua terra natale, quanto la grandezza e l’ambiguità del suo pensiero. L’entusiasmo per la natura e la varietà dei suoi fenomeni, il profondo senso religioso che connetteva uomini, dei e fysis in intimi legami; la violenza delle passioni politiche, l’ansia della salvezza e il senso del tragico: di questi caratteri della Sicilia greca Empedocle fu, prima che interprete, pienamente partecipe. Capeggiò la fazione democratica della sua città; esiliato nel Peloponneso, si recò in seguito ad assistere alla fondazione di Turi, dove potè probabilmente incontrare Protagora, Erodoto ed Ippodamo; non è da escludere un suo contatto diretto con gli eleati. Seguendo l’uso arcaico, scrisse in versi; uno dei suoi poemi, Sulla natura, trattava argomenti cosmologici e naturalistici, l’altro, Purificazioni, aveva caratteristiche mistico-religiose”

(Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, I)

Logo dei LionsRecentemente il Club Lions Agrigento Host di Agrigento ha voluto festeggiare la mia produzione di scrittore, giunta al settimo volume, (presentatore il Prof. Nino Agnello) con un the letterario dal titolo “Da Contrada Consolida al Caos”, a rimarcare il legame forte dei miei libri con la cultura classica del territorio agrigentino. In tale sede ho ribadito che, se non ci fosse stato da parte mia un fortissimo interesse per l’opera del filosofo agrigentino, Copertina mio romanzonon avrebbe mai visto la luce il mio primo romanzo “Una contrada chiamata Consolida”, gran parte del quale parla di Empedocle. Del resto, ad Agrigento non si può non fare i conti con la cultura classica dell’antica Akragas e, precipuamente con Empedocle. In tale humus culturale affonda le radici la grandezza dell’opera pirandelliana, soprattutto quel “senso del tragico” di marca empedoclea – così come ben evidenziato da Geymonat – che fece acquisire al drammaturgo agrigentino il Premio Nobel per la Letteratura, premiato proprio per il suo teatro.
A voler riaffermare l’importanza della valenza universale di Empedocle e del suo pensiero, ho il piacere di pubblicare un bellissimo e profondo saggio del Prof. Calogero Sciortino, docente di Storia e Filosofia presso i Licei Classici, intitolato “Empedocle: un enigma tra intuizioni ed aporie”, in grado di offrire, ad appassionati e non di filosofia, a professori e studenti, spunti pregevoli di riflessione.

EMPEDOCLE:
UN ENIGMA TRA INTUIZIONI E APORIE

 
Saggio del Prof. Calogero Sciortino

Filosofia greca
1  LA PERSONALITA'
 

Chi fu Empedocle?
Agli occhi dell'interprete moderno, Empedocle si presenta come un enigma, circondato da quel fascino che sempre avvolge il mistero.
Tutti quelli, filosofi o dossografi, che nell'antichità, o ancora oggi, se ne sono occupati, o se ne occupano, ce ne danno ognuno un'immagine diversa e, talvolta, contrastante da quella di tutti gli altri; è come se ognuno lo avesse guardato o lo guardasse attraverso una lente diversa per colore e per diottrie. Ebbene, sovrapponendo le diverse immagini, non si riesce a comporne una; oppure, quando con fatica si riesce a comporla, essa risulta sfocata nei contorni, approssimativa, talvolta deforme. Dai suoi frammenti, comunque, traspare un'umanità profonda che, in qualche modo, ce lo rende vivo, vicino, presente.
Perché tante divergenze tra i testimoni dell'antichità e gli interpreti recenti? Forse perché ognuno voleva o vuole trovare in lui quel che cercava o cerca, anziché quello che egli veramente era, o forse perché c'era nella sua personalità, certamente straordinaria, un quid inafferrabile, inintelligibile per i canoni dell'uomo comune del mondo antico o del mondo moderno?
Potrebbe essere questo quid costituito, oltre che da alcuni poteri non comuni, da una profonda solidarietà umana, che si manifesta, pur essendo egli un aristocratico per nascita, nella sua opzione democratica, per cui fu coinvolto nelle vicende politiche di Akragas, travagliata dalla lotta tra aristocratici e democratici e nella partecipazione al dolore che affligge l'uomo?

Agrigento Tempio della Concordia

Se così fosse, Empedocle ci sarebbe contemporaneo più che mai; anzi, egli sarebbe coevo all'homo perennis, perché, sebbene vissuto in un tempo storicamente determinato, è capace, tuttavia, di rompere gli schemi del suo tempo per assumere una sorta di dimensione metastorica, che lo rende contemporaneo all'uomo di ogni tempo.
Perché gli si attribuiscono strane e disparate vesti e perché si tramandano tante divergenti immagini?
Si procede per punti interrogativi non certo per amore di retorica, ma perché l'approccio al mistero non può avvenire che per timide e problematiche ipotesi a cui, per altro, non potranno mai seguire verifiche illuminanti.
 
Chi fu veramente?
Se per noi moderni gran parte del fascino deriva dal mistero, per gli antichi, a lui contemporanei o postumi, dovette essere il contrario: fu forse il fascino che circondava la sua personalità, certamente straordinaria, a circondarlo di quel­l'alone di mistero e di leggenda che ci allontana, rendendocelo inafferrabile, dall'Empedocle storico.

Empedocle, filosofo di Akragas

Ci viene presentato ora come ingegnere capace di opere titaniche (come deviare il corso di un fiume o tagliare la sommità del colle di Akragas, ottenen­do così un vallone, modificando il flusso delle acque o la direzione dei venti per bonificare le città infeste) ora come sciamano o taumaturgo, capace di tenere prigionieri i venti, di curare le malattie e di richiamare i morti alla vita, ora come fondatore della retorica e maestro di Gorgia, ora come iniziatore della scuola medica siciliana, ora come una sorta di Cagliostro ante litteram, capace di circuire il prossimo con le sue arti, vere o presunte, ora come un semidio, che scompare alla vista dei mortali per essere assunto tra gli dei, ora, infine, come un martire della scienza, che si lancia dentro un cratere in eruzione per studia­re i meccanismi del vulcano.
Ma di tutte queste immagini qual è quella di Empedocle? Chi fu egli vera­mente?
A questa ricorrente domanda nessuno è in grado di dare una risposta defini­tiva.
Quale che sia stata la sua personalità, essa, comunque, non è riconducibile al canone classico dell'intellettuale, del saggio, del filosofo greco che si gratifica nel theorein,checon il lucido intelletto controlla le inclinazioni, domina le pas­sioni e sa elevarsi, senza mai trascurarla, dall'empiria del quotidiano alla con­templazione disinteressata della verità intellegibile, che è fonte della perfetta felicità.
Misura, equilibrio, distacco, contemplazione disinteressata del vero non sembrano le fondamenta su cui Empedocle avrebbe costruito la sua personalità, néha mai tentato di accreditarla in questi termini.
In Empedocle la sofia, il sapere non è mai theorein, contemplazione disinte­ressata del vero, ma praxein, azione, perché il sapere è sempre strumentale alle technaì, cioè all'esercizio di quelle arti che servono a lenire i dolori dell'uomo.
Forse Empedocle, pur restando un enigma, è più vicino all'uomo comune del V o del IV sec. a.C., come all'uomo di oggi, chiamato a fare i conti con il dram­ma dell'esistere, con le inquietudini e le angosce, con il non senso dell'étre au monde,con tanti eventi dinanzi al quali l'equilibrio, la misura, la coerenza, il distacco sono virtù che naufragano nell'astrattezza e nel grande mare dell'uto­pia.
Tanto emerge dalla lettura dei frammenti di Empedocle, dove l'ansia del­l'uomo si mescola alla genialità del profeta e del filosofo scienziato, dove il rigore epistemico si mescola alla magia e allo slancio religioso, dove l'umanità, però, è sempre presente con il cuore che palpita, con la mente che ragiona, con le aspettative e le contraddizioni dell'uomo di sempre. Per un verso Empedocle è lo specchio del suo tempo, il V secolo, che è il tempo in cui l'intelletto greco, sebbene già lucido e maturo, non aveva ancora del tutto fugato le tenebre della superstizione, in cui la filosofia e la scienza si mescolavano con la magia, in cui il razionalismo maturo e critico della sofistica abitava quasi solo ad Atene, e non si era diffuso nella periferia dell'Ellade, in cui le grandi cattedrali del pensiero classico non avevano le fondamenta su cui potersi erigere; per l'altro verso, con la sua umanità profonda, con la sua mancanza di distacco, con le sue aporie si fa contemporaneo all'uomo di ogni tempo.
 
L'enigma però non si scioglie.
Se chiediamo ad Empedocle di aiutarci a sciogliere l'enigma che lo riguarda, egli sembra divertirsi a complicarcelo. Vediamo, infatti, cosa ci risponde in un noto frammento:

 

Cratere di Eracle e Nesso (475-450 a.c.)

0 amici, che la grande città presso il biondo Akragante abitate nel sommo della rocca, solleciti di opere buone, porti fidati per gli ospiti, ignari di mal­vagità, salve! Io tra voi come un dio immortale, non già mortale, m'aggiro, da tutti onorato come si conviene, cinto di sacre bende e di corone fiorite. Con i quali quando giungo alle città fiorenti da uomini e da donne sono venerato ed essi mi seguono in folla, desiderosi di sapere dove sia il sentie­ro che porta al guadagno e gli uni hanno bisogno di vaticini, altri invece per mali di ogni genere chiedono di ascoltare una voce di facile guarigione da lungo tempo trafitti da aspri dolori.
(Framm. n. 112 trad. it. a cura di G. Giannantoni, in I Presocratici, Bari, Laterza, 1962, vol. 1).

Si avverte il poeta ispirato, nel cui petto palpita un cuore che appassionata­mente partecipa al dolore che affligge i suoi simili.
Questa passione per l'umanità nasce forse dalla convinzione filosofica e dalla credenza religiosa che una sola è la vita cosmica e che tutti gli uomini vivono la stessa vita, che è divina.
Fu forse tale passione per l'umanità che lo indusse a schierarsi con i demo­cratici della sua città nella lotta contro la tirannide, subendo così anche l'umi­liazione dell'esilio, perché è probabile che proprio dall'esilio egli mandi il salu­to contenuto nel citato frammento.
Ma è veramente questo il contenuto del messaggio del frammento? Il testo greco, specialmente nella prima parte, è suscettibile di altre traduzioni e, perciò, di altre interpretazioni. Ecco, per esempio, un'altra traduzione‑interpretazione della prima parte del frammento:

0 amici, che occupate la forte rocca, al sommo della città presso la bionda corrente dell'Acragante, impegnati in sagge opere di governo, venerandi approdi per gli ospiti, ignari di malvagità: bravi! Ed anche io, secondo voi, non più come un uomo mortale fra tutti gli altri sono stimato, quando vado in giro, ma dò l'impressione di un dio sovrano, incoronato con infule e con fiorami vivaci.
(Trad. it. a cura di C. Gallavotti, Bruno Mondadori, Milano, 1994).

Il messaggio così assume un'altra tonalità: Empedocle non sembra rivolger­si a tutti gli Akragantini, ma solo a quelli che abitano nell'acropoli e che gover­nano la polis, che erano aristocratici e che erano suoi avversari politici.
Ma come è possibile che Empedocle tributi tante lodi a suoi avversari poli­tici? Le ipotesi interpretative possono essere diverse e, onestamente, non sap­piamo quale scegliere. E’ possibile che egli voglia porsi al di sopra delle parti e tentare una conciliazione con gli avversari; è anche possibile che voglia rispon­dere ad una maldicenza messa in giro da questi ultimi (come dire: siete voi che avete messo in giro la voce per cui tutti mi adorano come un dio); è ancora pos­sibile che egli voglia affermare di essere venerato come un dio suo malgrado (come dire che ciò è dovuto all'ignoranza e alla superstizione del popolo, per il quale però il filosofo dimostra comprensione); è, infine, possibile che il mes­saggio sia impregnato di feroce ironia verso gli avversari i quali sarebbero tutt'altro che "Ignari di malvagità" e "porti fidati per gli ospiti" per cui voglia rimproverarli di averlo cacciato in esilio, mentre egli, girovagando da città in città, esule, viene venerato come dio (come dire: nemo profeta in patria).
Ma è possibile un'altra lettura: perché escludere che Empedocle abbia volu­to lanciare un messaggio ambiguo o misterioso, che, del resto, sarebbe in linea con il contenuto magico e profetico del poema Sulle Purificazioni che è aperto proprio da questo passo? Perché, in altre parole, escludere che l'enigmaticità di Empedocle sia dovuta, almeno in parte, a lui stesso, ad una voluta ambiguità del suo messaggio o a certi suoi contraddittori, almeno per noi moderni, comporta­menti?
 
In ogni caso l'enigma non si scioglie.
Comunque, però, nel frammento in questione emergono senza enigmaticità la passione di Empedocle per l'umanità, che si traduce in partecipazione al dolore, e la consapevolezza di chi ritiene di possedere poteri straordinari.
Ma quali sono questi poteri? Sono i poteri connessi all'esercizio delle tech­nai, cioè delle conoscenze che permettono di dominare, o almeno di controlla­re, la natura o sono i poteri connessi all'esercizio delle pratiche magiche e alla pretesa di vaticinare, o, infine, sono entrambi i tipi di potere?
Non lo sapremo mai con certezza.
E’ possibile, comunque, che per Empedocle la magia potesse arrivare dove la scienza non riusciva ad arrivare e che la magia completasse in qualche modo la scienza. Empedocle non avvertiva ancora il contrasto tra la scienza e la magia, come lo avvertirà la cultura ufficiale dell'età classica; neppure l'età classica, però, riuscirà a liberarsene del tutto, come le epoche posteriori del resto (si pensi al Rinascimento). Questo non dovrebbe meravigliarci più di tanto, se anche oggi, nel secolo del vertiginoso progresso scientifico, alle soglie del terzo mil­lennio, e della tecnologia più avanzata, frequenti fatti di cronaca non solo ci attestano che c'è un revival delle pratiche occulte, ma che neppure presso tanti uomini di cultura, o addirittura presso uomini con responsabilità di governo, le pratiche magiche sono in disuso.
Gli studiosi ancora oggi non riescono a trovare accordo nel delineare la sua personalità e i rapporti con il suo tempo: a Jaeger, per esempio, che vede in Empedocle un uomo in anticipo rispetto al suo tempo, Dodds obbietta che non si può facilmente accettare la sua definizione di Empedocle come di "un nuovo tipo sintetizzante di personalità filosofica" poiché ciò che in lui non troviamo è appunto il tentativo di sintetizzare le sue opinioni religiose e le sue idee scien­tifiche. "Se vedo giusto ‑ aggiunge Dodds ‑ Empedocle non rappresenta un tipo nuovo di personalità, ma anzi uno molto antico: lo sciamano, cioè, che unisce in sé le funzioni ancora non differenziate, di mago e naturalista, poeta e filosofo, predicatore, guaritore e pubblico consigliere. Dopo di lui tutte queste funzioni si fecero autonome: da allora in poi i filosofi non furono più né poeti né maghi, anzi un uomo come Empedocle rappresenta già un anacronismo nel V secolo" (Erik Dodds: I Greci e l'irrazionale, trad. it. a cura di Virginia Vacca De Bosis, Firenze, 1983, p. 185).
Un parere analogo aveva espresso Aristotele nella Metafisica (984 a) che, dopo averci informato che Empedocle era più giovane di Anassagora, aggiun­geva subito, però, che sembrava più antico. Ma né Aristotele né Dodds tengo­no sufficientemente conto degli scenari in cui operavano i due filosofi. Quello in cui operava Anassagora era lo scenario dell'Atene dell'età di Pericle che, seppure con difficoltà, si avviava a diventare il centro culturale dell'Ellade, mentre lo scenario in cui operava l'Akragantino era quello della periferia dell'Ellade, dove le masse superstiziose non chiedono al Maestro la difficile via dell'intelletto per la comprensione del mondo, ma la facile via per la liberazio­ne dal mondo o, meglio, dal dolore che l'essere al mondo comporta, come lo stesso Empedocle attesta nel frammento n. 112 che abbiamo citato.
Nel filosofo di Akragas, comunque, si delinea chiaramente anche una men­talità scientifica che è presente in tanti suoi frammenti, come ad esempio, nel frammento n.100 ( in Giannantoni op.cit.) dove viene descritto, in termini ana­litici, il fenomeno della traspirazione del corpo attraverso i pori, distribuiti sulla pelle e dotati di valvole, che permettono la penetrazione nel corpo dell'aria dall'esterno, impedendo, nel contempo, la fuoriuscita del sangue; la scienza però non è così forte da debellare la magia, perché essa è ancora priva di rigore, e la magia non è ancora così debole da cedere il passo alla scienza.
Esse non sono ancora in conflitto nella enigmatica personalità di Empedocle.
 
2  TRA SCIENZA E MAGIA

Numismatica agrigentina

Questo mancato contrasto tra scienza e filosofia, da una parte, e religione mistica e magia, dall'altra, può essere la chiave di lettura dei suoi frammenti. Di Empedocle ci rimangono circa 500 versi dei forse 3000 (per qualcuno 6000) di cui si costituirebbero le sue due opere: Tà fusica (la fisica) e Oi Katharmoì (Le purificazioni). La prima presenterebbe una visione filosofico‑ scientifica del mondo, la seconda, invece, presenterebbe una visione mistico‑religiosa della realtà di chiara derivazione orfico‑pitagorica.
Questo almeno si è creduto di poter dire sulle due opere di Empedocle, tanto che Rosario Conti, sulla scorta di altri, scrive: "Qual è il vero Empedocle? Forse tutti e due. Nella Fisica si ha una sorta di panteismo in cui la divinità è tutta la materia cosmica, ridotta armonicamente in una sola cosa dall'amore, nelle Purificazioni, invece, si ha un teismo schietto e preciso per cui la divinità è solo uno spirito sacro ed ineffabile che scorre tutto il mondo con il veloce pensiero. E’ probabile ‑ continua Conti ‑ che Empedocle da un entusiasmo religioso dei primi anni sia passato, in età matura, alla fredda riflessione speculativa e, quin­di, dalla ricerca scientifica ad una visione quasi mistica. La magnificenza lette­raria dei due poemi è stata causa di numerosi “entusiasmi" e cita, tra l'altro, Lucrezio. (R. Conti Cosmogonie orientali e filosofia presocratica, Roma, 1967, pp. 283‑284).
Rosario Conti, agrigentino di Licata, è stato un fine ed erudito studioso della nostra terra, troppo poco noto rispetto ai suoi meriti, e si è occupato diffusamente anche di Empedocle nella splendida opera sopra citata; per questo mi piace menzionarlo e presentarlo a quanti non hanno avuto, come me, la fortuna di conoscerlo e di conversare con lui su Empedocle, come su mille altri temi filosofici, o di leggere i suoi dottissimi libri.
Non si può non concordare con i suoi giudizi circa la magnificenza letteraria delle opere di Empedocle, così come non si può dissentire dalla definizione del pensiero di Empedocle come panteismo e come misticismo.
Ciò che oggi non si può più condividere, invece, è la contrapposizione tra le due opere di Empedocle definite una come scientifica e l'altra come mistica e che ci sareb­bero state ben due crisi esistenziali che lo avrebbero indotto dapprima ad abban­donare la religione per la scienza e poi ad abbandonare la scienza per tornare alla religione e addirittura alle pratiche magiche. Filosofia, scienza, religione, magia, poesia. politica, ecc. Empedocle sono tutte compresenti ambedue le opere. Scrive, infatti, Dodds: il frammento in cui Empedocle rivendica la facoltà di tenere a freno i venti, produrre e arrestare la pioggia e risuscitare i morti fa parte del poema Della Natura non Delle Purificazioni; dallo stesso poema proviene il frammento 23 in cui il poeta ordina al discepolo di ascoltare la parola del dio    ( … ). Al poema Della Natura appartiene anche il frammento 15 che sembra contrapporre quel che si suol chiamare vita ad una esistenza più vera, anteriore alla nascita e posteriore alla morte" (Dodds op. cit. pp. 184‑185).
Non c'è stato perciò in Empedocle un passaggio dalla religione alla scienza, né una ulteriore involuzione dalla scienza alla magia: questi aspetti convivono e sono compresenti contemporaneamente nelle due opere.

La recente scoperta di un codice conservato a Strasburgo, rinvenuto agli inizi di questo secolo in Egitto, purtroppo scomposto in una miriade di frammenti, che gli specialisti stanno tentando di ricomporre, e contenente versi di Empedocle appartenenti a quelle che venivano ritenute due opere distinte, sem­bra giustificare addirittura l'ipotesi secondo la quale egli avrebbe composto una sola opera dai contenuti scientifici, religiosi, iniziatici e magici, che, se sono incoerenti per noi, non lo erano per lui.
 

Numismatica agrigentina

Sul piano religioso è fuori dubbio che per Empedocle la divinità si identifi­ca con la materia cosmica costituita dai noti quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) compenetrati in unità ad opera dell'amore (filia) in uno sfero (sfairos) che, però, a causa dell'odio (neikos) viene a disgregarsi per poi ricomporsi, in una vicenda cosmica ciclica caratterizzata dalla lotta tra filia e neikos. Dio è la materia, che, perciò, vive in tutte le cose, le quali nascono e periscono nei cicli­ci intervalli tra lo sfero (che è il momento in cui l'amore aggregante è domi­nante) e il caos (che è il momento in cui domina l'odio che separa). Ebbene, in questa visione non c'è contrasto alcuno tra una fisica panteista (per cui tutto è dio, dio è in tutto e tutto è in dio) e il misticismo religioso che coglie in ogni cosa la presenza e la vita stessa di dio.
Tutto si genera da una unità originaria (una sola è la vita del cosmo) simile all'Uno di Senofane o all'Essere di Parmenide, unità originaria, temporanea­mente scissa, di cui il filosofo avverte struggente la nostalgia.
E' certamente presente in Empedocle, infatti, la coscienza del tragico, anche se temporaneo distacco dallo sfero, così come è presente il trasporto verso l'an­nullamento della precaria esistenza individuale nell'unica vita cosmica.
A coloro che parlano, infine, di materialismo della Fisica e di spiritualismo delle Purificazioni è facile obbiettare che spirito e materia non sono, nel pen­siero presocratico, due sostanze distinte e contrapposte, se in Eraclìto il pensiero (logos) si identifica con una sostanza fisica (il fuoco) e se in Parmenide l'Essere, che è poi il pensiero, conserva la fisicità della sfera; è solo a partire da Platone, con quella che egli chiama seconda navigazione, che comparirà Feidos e con esso la distinzione, o meglio la contrapposizione, tra sensibile ed intelle­gibile, tra materiale ed immateriale.
Molto suggestiva è la concezione religiosa di Empedocle anche se poco chia­ra. Certa è l'influenza dell'orfismo e del pitagorismo, che però Empedocle forse interpreta naturalisticamente e, tuttavia, con profonda tensione mistica.
Dio è certamente lo sfáiros cioè l'unità non ancora scissa degli elementi aggregati dall'amore. L'uomo, perciò, composto dagli stessi elementi naturali dello sfairos è divino (daimon).
La scissione, dovuta all'odio, è peccato, come lo era per Anassimandro la separazione delle sostanze dall'apeiron; ma l'uomo‑demone, che vive separato da dio, pecca ancora, perché macchia le sue mani di sangue assassino e perché giura il falso; e allora deve scontare le sue colpe attraverso molteplici e succes­sive vite mortali in un doloroso stato di separazione dall'armonia dello sfero­-dio. Osserviamo con quanta efficacia Empedocle descrive la misera condizione del mortale:

C'è un vaticinio del fato, lui decreto antichissimo, eterno, primigenio degli dei, suggellato con ampi giuramenti: che quando uno, irretito nel peccato, si macchia le mani di sangue assassino o quando, al seguito della Discordia, giura il falso nel novero dei demoni, sorteggiati da una vita eternamente lunga, costui debba errare tre volte diecimila anni lontano dai beati e muta­re faticosi sentieri della vita per nascere nel corso del tempo sotto molte­plici forme di esseri mortali. La potenza dell'etere infatti li caccia nel mare, il mare li risputa sulla terra, la terra verso i raggi del sole lucente e questi li butta nei vortici dell'aria. L'uno li prende dall'altro e a tutti riescono odio­si. Uno di questi sono or anch'io, lontano da Dio e fuggiasco, poiché con­fidai nella folle Discordia.
(Framm. n. 115; la traduzione è tratta da Werner Jaeger La teologia dei primi pensatori greci trad. it. di Ervino Pocar, La Nuova Italia, Firenze, 1982 p. 223).

L'Empedocle che abbiamo visto esaltarsi nel frammento n. 112 come un dio, in questo frammento si avverte lontano da Dio e fuggiasco cioè in una dram­matica condizione esistenziale, comune a quella di tutti gli esseri viventi, per­ché ha confidato nella "folle Discordia". Contraddizione? È tale per noi moder­ni, ma non è forse avvertita come tale dall'Akracantino che, in ogni cosa, per­cepisce anche qui se stesso e tutti gli esseri viventi. come demoni, cioè come dei deca­duti.
La personalità di Empedocle, del resto, non è il luogo dove cercare la coerenza o una visione della vita e del mondo lineare.
Non presumiamo di avere sciolto un enigma, non ce lo eravamo neppure pro­posto, perché sapevamo che questo era impossibile e che gran parte del fascino che circonda Empedocle deriva proprio dal mistero e dalle sua aporie.
In ultima analisi, la personalità di Empedocle resta per me un centro in cui vanno a confluire varie e disparate istanze, come macchie di colore che non rie­scono a comporre l'unità di un disegno.
 
3  LA FILOSOFIA

Statua Efebo

Neppure la sua filosofia si dispiega con coerenza e linearità: molteplici sono, infatti, assieme alle intuizioni felici, le aporíe che non possiamo fare a meno di sottolineare.
La filosofia dell'Akragantino si muove nell'alveo dell'eleatismo che, come è noto, celebra l'unità, l'unicità, l'immortalità dell'Essere metafisico, che con­testa e nega il non essere perché ripugnante al pensiero, tanto sul piano fisico (e si traduce in negazione del vuoto e in negazione del divenire) quanto sul piano logico (e si traduce in negazione della molteplicità), che afferma il valore appa­rente del divenire, del nascere come del morire. L'essere è, perciò, ingenerato ed eterno, perché ammettere il nascere e il morire comporterebbe l'esistenza del nulla, prima e dopo la vita. Il movimento, il divenire, il nascere, il morire, la molteplicità degli esseri rientrano nella fallacia dell'opinione (doxa) del senso comune e sono inaccettabili per l'intelligenza che, invece, è la facoltà dell'uomo di scrutare oltre il senso comune. Fin qui l'eleatismo.
Ma il nascere, il morire, il divenire e la molteplicità, seppure apparenti, per il senso comune esistono e chiedono all'intelligenza di essere spiegati e chiari­ti; questa è la novità di Empedocle, che si identifica nel riconoscimento delle ragioni, del senso comune, cioè della doxa; insomma il senso comune ha, secon­do Empedocle, le sue ragioni che la ragione degli Eleati non conosce. Ecco, perciò, il comparire delle quattro radici (rizomata), delle quattro sostanze primordiali, dal cui mescolarsi nasce ciascuna delle cose molteplici e dal CUI separarsi deriva la morte funesta, anche se apparente.
Leggiamo un altro suggestivo frammento di Empedocle, che si rivolge al suo immaginario discepolo Pausania:
  
   Per prima cosa ascolta che quattro sono le radici di tutte le cose: Zeus splendente ed Era avvivatrice, ed Edoneo e Nesti, che di lacrime distilla la sorgente mortale ".  (Framm. n. 6)

 
Queste quattro sostanze, qualitativamente determinate, esistenti ab aeterno, conservano ciascuna i caratteri dell'Essere eleatico, ad eccezione della unicità; le cose, però, si compongono del loro miscuglio, in combinazione quantitativamente diversa, delle quattro radici.
Avviene nel cosmo, sostiene Empedocle, quel che avviene sulla tavolozza del pittore di immagini votive, che, mescolando pochi colori, può ottenerne infi­niti, variando il rapporto quantitativo tra i colori base. Nessuna cosa in realtà nasce o muore, perché il nascere e il morire sono solo il comporsi e lo scom­porsi di miscugli; eterne, invece, e prive di modificazioni qualitative restano le quattro sostanze.
La svolta dal monismo eleatico alle teorie corpuscolari di Anassagora e di Democrito passa attraverso il pluralismo di Empedocle che, anticipando Platone, commette, nel riguardi del Maestro di Elea, una sorta di parricidio. Il parricidio di Platone, però, rispetto a quello del filosofo akragantino, avrà ben altra maturità (un secolo non sarà passato invano): nascerà, come quello di Empedocle, dall'esigenza di giustificare la molteplicità (non più delle sostanze fisiche, ma delle essenze metafisiche), ma sarà legittimato dalla introduzione della categoria logica ed ontologica dell'alterità, che renderà possibile la dialet­tica. mentre quello di Empedocle, nato per dare giusta soddisfazione al senso comune, si consuma sulla base di una profonda incoerenza logica (aporia).
La molteplicità delle sostanze empedoclee postula, se non proprio l'esisten­za del non essere, almeno quella del vuoto, negato dagli Eleati e non ancora introdotto da Empedocle.
Anche la teoria del miscuglio (cioè della compenetrazione tra le sostanze, che ha luogo attraverso i pori, che sono alla superficie di ciascuna sostanza, e attraverso i canali che sono nel corpo di ciascuna sostanza, per i quali penetra­no gli effluvi provenienti da altre sostanze, teorie che Empedocle utilizza anche per spiegare l'evento della conoscenza) postula l'esistenza del vuoto, che sarà solo Democrito più coerentemente e scientificamente ad introdurre.
L'aggregarsi e il disgregarsi dei quattro elementi costituisce l'eterna e ricor­rente vicenda cosmica: il cosmo è il teatro di una drammatica lotta tra filia e neikos (amore o amicizia e contesa o inimicizia o odio).
La prima provoca simpatia, attrazione, compenetrazione tra le sostanze che, perciò, in virtù di essa si mescolano; quando essa prevale incontrastata, le radi­ci‑sostanze si fondono armonicamente in una sola vita, che è quella dello sfero perfetto che gode della solitudine che tutto l'avvolge.
Ma la contesa, provvisoriamente vinta e scacciata, riprende la lotta e gra­dualmente, man mano che essa prevale, le radici si dissociano e si distaccano dallo sfero; tuttavia, l'amore, seppure nella disgregazione dello sfero, riesce a disaggregarle parzialmente e provvisoriamente, dando vita alla molteplicità degli esseri che così nascono per tornare a disgregarsi e a morire. Quando l'amore sarà del tutto scacciato regneranno la separazione, la disgregazione, il caos, la solitudine di ciascuna sostanza.
Questa concezione cosmologica risulta inquietante, come inquietanti sono tutte quelle filosofie che negano il governo del logos, che segnano la suprema­zia dell'irrazionale, del dionisiaco sull'apollineo, che tolgono alla vita e al suoi eventi ogni senso logico, ogni spiegazione ragionevole.
L'universo di Empedocle è il teatro, infatti, dell'azione di due forze non riconducibili nella sfera del razionale: filia e neikos richiamano alla mente l'e­ros e il thanatos di Freud, l'irrazionale e l'istintuale di Schopenhauer e di Nietzsche; non c'è nell'Akragantino la visione olimpica e statica degli Eleati, che identificavano l'essere con il pensiero, non c'è il panlogismo di chi identi­ficherà razionale e reale, non c'è la confortante visione di chi coglie nel mondo il dispiegarsi di un disegno razionale o provvidenziale.
Resta solo una visione sconfortante della vita e della storia, resta solo un'e­sistenza precaria perché senza senso, perché caratterizzata da una fatalità priva di spiragli, da una provvisorietà desolante, perché governata, in ultima analisi, da forze oscure e misteriose. In Empedocle, inoltre, niente è definitivo, tutto è precario e provvisorio: anche la perfetta armonia dello sfero è, in fin dei conti, solo un momento nel divenire cosmico, un momento anch'esso precario e prov­visorio, destinato ad essere distrutto, per rinascere e tornare a distruggersi cicli­camente. C'è in Empedocle un pessimismo privo di prospettive, forse generato in lui dalla partecipata contemplazione del dolore umano.
Evitiamo di descrivere le ere empedoclee che scandiscono il ricorrente dive­nire cosmico, oscillante tra lo sfero e il kaos, evitiamo la descrizione, talvolta apocalittica, che per certi versi sembra preludere all'evoluzionismo del secolo scorso, della nascita del mondo vegetale, animale e umano, per porci una domanda a cui non sappiamo trovare risposta: cosa sono amicizia e contesa, qual è la loro natura, come si spiegano?
Non credo che si possano, anche per quello che è stato detto sopra, accettare ipotesi che le spieghino come forze di natura trascendente rispetto alla materia, come forse si può fare per il nous di Anassagora. E’ probabile che Empedocle pensasse a due veri e propri elementi fisici, e in tal caso le sostanze non sarebbero più quattro ma sei, o a qualcosa di fluido che circonderebbe gli elementi fisici, per cui non si uscirebbe, neanche così, dall'aporia relativa al numero degli elementi; forse Empedocle, come altri presocratici, si limita ad antropomorfizzare la materia, attribuendole gli stessi caratteri della psiche umana che, però, dovrebbe essere l'effetto non la causa di queste forze.
A meno che non si voglia considerare Empedocle come predecessore dell'elettromagnetismo, che si fonda sul principio di attrazione‑repulsione della materia, la citi natura ultima, però, rimane ancora inspiegata.
Né le perplessità finiscono qui. Ritengo di poter far mie le obiezioni che Aristotele muove alle funzioni di Amicizia e Contesa che, rispettivamente, sarebbero di aggregazione e disgregazione, perché succede, invece, che talvolta l'amore disgrega e l'odio unisce.
Leggiamo Aristotele:

In molti casi, almeno, gli succede (ad Empedocle) che l'amicizia divide e la contesa unisce: quando, infatti, l'universo, ad opera della contesa, si disgre­ga nei suoi elementi allora il fuoco, separato dalle altre sostanze, si raduna tutto insieme e così avviene degli altri elementi; quando invece l'amicizia li viene raccogliendo nell'unità, è necessario che le parti di ciascun elemento si separino daccapo. (Metaph. 1000b)

Lo stesso Aristotele rileva che i quattro elementi vengono adoperati da Empedocle non come quattro, ma come se fossero due soli: il fuoco per conto suo e gli altri tre, terra, aria e acqua, come in un'unica sostanza.
 
4  INTUIZIONI GENIALI

Agrigento, Cratere a figure rosse

Non mancano, come si vede, le aporie, ma non mancano le intuizioni felici. C'è per esempio in Empedocle, inequivocabilmente riconosciuta, con la contesa che contrasta l'amore, la funzione positiva del negativo che sta a fondamento della dialettica di tutti i tempi. Senza la contesa, infatti, se l'amore regnasse incontrastato, regnerebbero certo l'ordine e l'armonia, ma il nascere, il morire, il divenire e la vita individuale non potrebbero esistere. Non sappiamo se la dialettica empedoclea sia di derivazione eraclitea, ma, a parte il fatto che il filosofo di Efeso non viene mai citato almeno nei frammenti che ci restano, il pensiero di Empedocle non è, tout court, riconducibile a quello di Eraclito, perché evidenti, seppure problematiche, sono le influenze dell'eleatismo.
È possibile invece che questa fecondità del contrasto Empedocle la derivasse dalla sua convinzione politica di sincero democratico, che individuava appunto nel contrasto. e non nell'ordine stagnante, lo strumento della crescita della comunità civile; l'ordine, come annullamento di ogni contrasto è, in politica, la morte della democrazia.
Resta inoltre il fatto che, nel secolo dell'eleatismo, Empedocle abbia tentato di superarlo; la qualcosa dovette essere molto difficoltosa perché coinvolgeva Parmenide, il quale ancora per Platone era il "Padre venerando e terribile".
Ad Empedocle bisogna riconoscere il merito di aver dato, a suo modo, un'interpretazione della natura iusta propria principia, di avere aperto la strada al pluralismo di Anassagora e degli atomisti, e, in ultima analisi, anche alla fisica aristotelica che, come è noto, aggiungerà al quattro elementi empedoclei l'etere come quinta sostanza.
In quale posizione va collocata la filosofia di Empedocle nelle correnti del pensiero presocratico?
Non è possibile assegnargli un posto definito all'interno di un'altrettanto definita corrente; il suo pensiero può essere avvicinato ora all'una ora all'altra, senza mai, però, identificarlo con nessuna.
Empedocle ha il destino di ogni genio creativo che sfugge alle catalogazioni scolastiche, che sono spesso gli studiosi a creare. Può essere avvicinato, come abbiamo visto, agli Eleati, ma in una posizione di superamento; Empedocle è discepolo di Parmenide così come Aristotele lo sarà di Platone, così come gli idealisti si dichiareranno kantiani, così come tanti allievi supereranno, senza mai rinnegarlo apertamente, il pensiero dei loro maestri.
Platone, nel Sofista, colloca Empedocle accanto ad Eraclito (242 e), ma in Empedocle non c'è l'eracliteo disprezzo per la doxa, perché anzi per l'Akragantino la doxa è l'anticamera dell'episteme, della vera scienza, la quale, in ultima analisi, nasce proprio per spiegare il senso comune.
Aristotele, invece, lo colloca accanto ad Anassagora e a Democrito; si può essere d'accordo con questa tesi solo dopo aver puntualizzato che, delle concezioni pluralistiche, quella di Empedocle è logicamente e cronologicamente la prima.
Sono presenti, inoltre, nelle Purificazioni, alcune dottrine della tradizione orfico‑pitagorica, come la trasmigrazione delle anime, come le regole di vita, l'obbligo di non uccidere gli animali e di non cibarsi delle loro carni, a cui però Empedocle aggiunge la sua dottrina della transomatosi, per cui le sostanze che attualmente costituiscono il mio corpo hanno costituito altri corpi, e altri ne costituiranno ancora, essendo ogni corpo un miscuglio provvisorio di sostanze.
Non mancano, infine, influssi del pensiero ionico: si pensi, ad esempio, ad Anassimandro e al doloroso e colpevole distacco delle sostanze dall'apeiron, al quale sono condannate a tornare.
In Empedocle, insomma, sono presenti tutte le istanze del pensiero presocratico che, anche se non armonizzate nell'unità del sistema, sono tuttavia vivificate ed organizzate in modo originale. L'Akragantino è il genio filosofico che riesce a conciliare le opposte ragioni di Parmenide e di Eraclito, attribuendo i caratteri del divenire, che ancora Melisso aveva negato, al continuo mescolarsi delle quattro sostanze e dando a ciascuna di esse alcuni caratteri dell'Essere eleatico.
 
5  L'ENIGMA NON SI SCIOGLIE

Erma bifronte, Vincenzo Sciamè


Se fosse vero che un grande uomo è costituito da più uomini, ridotti in unità, nessuno sarebbe più grande di Empedocle.
In lui convivono, senza contraddizioni, il filosofo scienziato, che si interro­ga e ragiona, il mistico, che avverte l'unità della vita del cosmo e la presenza del divino in ogni cosa, l'iniziato dei culti misterici dell'orfismo, che avverte e soffre l'inquietudine che monta dal fondo oscuro e irrazionale dell'universo e dell'animo umano e che percepisce se stesso come divinità decaduta e immersa nella precaria esistenza quotidiana, travagliata dalla coscienza della colpa e dalla nostalgia struggente dei bene perduto, l'asceta, che rinunzia al piacere per purificarsi, il politico e filantropo, che impegna tutte le sue risorse per lenire il dolore dei suoi simili, forse anche il Pigmalione che si autoesalta con orgoglio, e, infine, il poeta ispirato che in versi suggestivi espone il proprio pensiero e canta i suoi stati d'animo e il suo amore per il mondo e per tutti quelli che lo popolano.
Tutto questo non si compone in un'immagine nitida e, perciò, l'enigma Empedocle non si scioglie.
In lui sono compresenti tutte le categorie perenni dello spirito, ciascuna delle quali, da sola, caratterizza una personalità: di solito il filosofo non è poeta, lo scienziato non è mago, il filantropo non è colui che si autoesalta, l'asceta non è politico.
In Empedocle, invece, le personalità più disparate si compenetrano in una unità misteriosa e incomprensibile che non si riesce a cogliere e perciò egli resta un mistero e forse tale resterà per sempre.
Eppure egli è vivo, vicino e presente. La sua filosofia è ricca di aporie, ma, chissà, forse anche per questo egli è un filosofo che potrebbe avere qualcosa da dirci anche per il terzo millennio.
Siamo, infatti, nell'età del debolismo filosofico, cioè nell'età in cui la filo­sofia ha preso coscienza dei suoi limiti, che costituiscono anche la sua gran­dezza e Il suo fascino; essa non è più la risposta definitiva e rassicurante per l'uomo che si interroga sul senso da dare alla sua esistenza, sulla verità assolu­ta e sul suo destino escatologico, cosa che solo la fede potrebbe fare, ma pro­blematicità appunto, cioè un procedere per punti interrogativi a cui non segui­ranno risposte verificabili; la filosofia è connaturata all'uomo perenne che è ani­male problematico, la cui condizione esistenziale è la meraviglia per la sua esi­stenza, per tutto ciò che lo circonda, per gli eventi che lo riguardano; la mera­viglia attiva il pensiero che si interroga, che procede per poi retrocedere, per deviare e per tornare sui suoi passi, e per tornare ad interrogarsi ancora in un processo infinito perché nessuna risposta sarà mai inattaccabile dal dubbio e dalla critica. Per questo Empedocle è un vero filosofo; egli ha distrutto le pre­sunte certezze degli Eleati ed ha rimesso in cammino il pensiero.

Pirandello al tempio della Concordia

Non riesco, per quanto enigmatico egli resti, a pensarlo come un Cagliostro; mi piace, invece, pensarlo come un Leonardo dell'antichità o come uno scien­ziato, anche se ec, 11 non cessa di essere mago, che lavora per l'umanità.
In ogni caso egli è vivo, presente, attuale, perché in lui palpita un cuore che sente e ama, opera una mente che ragiona e si interroga, agisce un mago che fantastica cercando di scrutare il mistero, un uomo di fede che spera, e c'è altro ancora; in Empedocle ci sono tutte le categorie dell'umanità perenne, di quel­l'umanità dolente e pensante che un suo Concittadino, altrettanto geniale, por­terà, venticinque secoli dopo, sulle scene del teatro.
 
Prof. Calogero Sciortino